C’è del sacro in… Riccardo Zara

Gli auguri di compleanno a Riccardo Zara, fondatore e leader dei Cavalieri del Re, compositore di decine di sigle di cartoni, un mito per più di una generazione. Un incontro emozionante, un’intervista tra curiosità, aneddoti, nostalgia ed elogio della lealtà. Una sigaretta, due chitarre. La certezza che ci sia del sacro in lui, Riccardo Zara, per come si rallegra della felicità di chi lo intervista, Difficile scorgere rughe nel suo viso: l’infanzia, quella che dura per sempre nel cuore dei bambini, non invecchia mai! Nuova puntata della rubrica sul sacro (qui le precedenti)

È il 18 ottobre 2022. Il clima non è quello solito di Milano: c’è caldo. Ma, anche se ci fosse il mare in burrasca e forti venti, io mi sentirei prendere fuoco perché, semplicemente, tra mezz’ora incontrerò Riccardo Zara, fondatore e leader dei Cavalieri del Re, compositore di decine di sigle che hanno accompagnato la prima giovinezza di un bel po’ di generazioni.

Sostanzialmente, per capire come mi sento, immaginate che – per l’importanza che quegli anni verdi hanno avuto nella mia vita – è come se mi sentissi lì lì per intraprendere un viaggio nel tempo. Di più! Il tempo è dall’altra parte di quel citofono, pronto a farmi salire a casa sua!

Ma manca ancora mezz’ora ed io non voglio per nessuna ragione sembrare inopportuno, impaziente e ansioso. No, non voglio sembrare ansioso! Non devo sembrare ansioso! Accidenti, mancano ventinove minuti, non devo sembrare né ansioso né impaziente!

Poco male. Sotto casa del grande Cavaliere c’è un bel bar, accogliente e già pieno di gente. Sono le dieci del mattino ma in questo caso la “colazione” serve a concentrarsi.

Con me c’è Margherita, amica di queste rocambolesche avventure, che per farmi stare meno in ansia comincia a immaginare come potrà essere l’intervista e quali potranno essere le mie reazioni emotive. Prendo un caffè per calmarmi. Poi arriva l’ora. Il pulsante di quel citofono sembra il tasto rosso di un’ammiraglia della Flotta Stellare: sto per caricare le gondole di curvatura e superare i confini della fisica classica. Comincia il viaggio nel tempo.

Ma… accidenti! Il tempo ha la voce di un uomo che risponde “Chi è?”. E mi accorgo che i viaggi più belli sono sempre quelli dell’istante presente. Il cantante dell’Uomo Tigre, di Yattaman, di Devilman, e di altri successi che sono patrimonio di tutti noi, ha una voce capace di passare da un microfono a un citofono! Scopro così, già da questo istante, che lì, dall’altra parte, prima ancora del personaggio, c’è una persona che si chiama Riccardo e che mi invita a salire!

L’apertura della porta di casa, l’incontro degli sguardi, il mio annichilimento e le espressioni già complici di Riccardo e Margherita che sorridono alla mia incontenibile gioia, è una scena degna di un’ipotetica sigla, una veloce e sostanziale sinossi che lui, certamente, in un attimo trasformerebbe in qualcosa di immortale. Ma l’immortalità dell’attimo fa tutto da sola e in un istante è già storia!

Riccardo ci fa accomodare in salotto, sul divano. Su un tavolino è acceso un computer, aperto su un programma di mixaggio, ed io realizzo che sono entrato in un luogo sacro. C’è del sacro in quella stanza! Equalizzare una sestina di biscrome, sistemare un volume, inserire un effetto, scegliere un campionamento, sono tutti gesti che – in quella stanza – diventano liturgia! Continua dunque, in una stanza di Milano, quell’opera di creazione cominciata miliardi e miliardi di anni fa! Me ne rendo conto e mi siedo.

E tutto comincia così, spontaneamente, senza troppi convenevoli, senza che neanche sembri un’intervista. Ci mettiamo a chiacchierare come se non ci vedessimo da un paio di giorni. E la prima cosa di cui parliamo, guarda un po’, sono proprio le sue sigle.

La più bella canzone del mondo!

«Mi importava un fico secco – dice Riccardo – a chi dovesse andare in mano una sigla, bambini o adulti. A me interessava, comunque, in quel momento, scrivere la canzone più bella del mondo. Avevo interesse che, di qualunque musica si trattasse, colpisse quelli della RCA e sembrasse buona musica».

Il tuo punto di riferimento musicale?

«I Beatles!».

Hai cominciato a fare musica nello stesso periodo?

«Il mio primo libretto ENPALS risale al 1962! Ma già nel 1961 – non avevo ancora quindici anni – mi esibii nel primo spettacolo insieme a un mio amico. Una proloco organizzava esibizioni per la Regione e cercava giovani. C’era di tutto, dal cantante lirico al coro di bambini; io e il mio amico suonavamo la chitarra elettrica ed eravamo quelli più moderni. Ricordo le prove…».

Cosa accadde?

«Uscimmo sul palco scatenandoci come dei pazzi, in perfetto stile Celentano. Il direttore artistico ci chiamò ironicamente “Il duo stanco”… Noi suonavamo seriamente ma la gente ci trovava buffi e rideva! In quel periodo chi suonava così veniva visto come un pagliaccio. Quando poi esplose il fenomeno dei Beatles ne rimasi colpito perché capii che avrei voluto fare quello che facevano loro: erano quattro e facevano quei piccoli arrangiamenti vocali che funzionavano alla grande e che sono rimasti nel ricordo di tutti».

Già, proprio come i cori dei Cavalieri del Re!

«E infatti per questi cori mi sono sempre ispirato a loro. Quando mi commissionavano una canzone, anche se l’argomento era stupido e il cartone, magari, non tanto intelligente, facevo in modo che la sigla venisse fuori nel migliore dei modi».

Questa cosa mi ricorda una frase che, tante volte, si incontra nelle sacrestie: “Celebra la tua Messa come se fosse la prima, come se fosse l’ultima, come se fosse l’unica”…

«Eh… Ho scritto una canzone che s’intitola “Una vita alla giornata”, e che parla proprio di questo, rifacendosi a un detto di Confucio: “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”. Se lo facessimo davvero, diventeremmo tutti più buoni. Tutti, magari, prenderemmo il telefono per dire qualche parola buona a qualcuno. Quando telefono a mio figlio, sai, concludo spesso dicendogli “ti voglio bene”».

Una parola magica

Beh, le tue canzoni, per noi ex-ragazzini degli anni 80, hanno consegnato più o meno le stesso bellissimo messaggio.

«Eppure, sai… Io non avrei creduto che quelle canzoncine producessero tutto questo. Cominciai ad accorgermene all’inizio degli anni 90 quando, terminato il periodo d’oro delle sigle, venivano a trovarmi in sala di registrazione tante persone che mi ringraziavano di averle scritte. Non credevo che per loro sarebbero state così importanti… Forse sarà… la nostalgia. Ma proprio voi avete voluto tenere in vita queste canzoni! Ma… senti…».

Dimmi.

«Spero di non dare fastidio, ma vorrei fumare una sigaretta…».

Non solo non dai fastidio, ma fumo insieme a te!» – si ride – «Io fumo sigari, ma accetto volentieri una delle tue! L’ho già fatto con De Andrè, che mi offrì una MS Blu, figurati se non lo faccio con Riccardo Zara!

«Wow! Che bello non passare da delinquenti se ci fumiamo una sigaretta insieme!».

Ahahahahah! No, no, tranquillo!

Mentre fumiamo, parliamo del più e del meno. Lui mi fa qualche domanda sul mio essere prete, poi scopriamo di essere scout tutti e due, e – proprio in quei dieci minuti – realizzo che per me Riccardo Zara è diventato Riccardo Ebbasta, e questa cosa mi commuove: cosa potevo vedere in più, in quel personaggio, di ciò che adesso scopro di questa meravigliosa persona? Parliamo davvero di tutto. Di cose di cui si parlerebbe tra amici, tra confidenti. Mi faccio piccolo per tanta fiducia, per tanta familiarità; lui, ritornato piccolo nella sua semplice umanità, mi appare ancora più grande.

Si ritorna all’intervista come due che, dopo la pausa caffè, devono ritornare al lavoro.

Ti sei chiesto cosa ci fa un articolo-intervista su Riccardo Zara, su un compositore di “canzoncine”, all’interno di una rivista letteraria come LuciaLibri? Che relazione c’è tra Riccardo Zara ed una parola grossa come “letteratura”?

«Premetto che mi considero una persona ignorante. I miei studi sono stati molto modesti. A Monfalcone, però, non sognavo come tutti di entrare in un cantiere navale. All’epoca, solo alcuni ragazzi andavano alle medie. Altri, come me, andavano all’avviamento professionale. Mi bocciarono due volte, in prima e in seconda; feci poi un triennio di radiotecnica…».

Ah, quegli elettrotecnici di una volta! Erano come i medici condotti, che capivano tutto all’istante!

«Sai, ricordo che a scuola…»

«“Ricordo ancora il primo giorno a scuola…”» gli canticchio sulle note della sua sigla, Cuore.

«Ahahahah! Esatto! A scuola davano i temi e una volta la professoressa scelse di leggere il mio, che considerava il più bello anche se era pieno di errori! Scrivevo di getto e poi passavo direttamente alla bella e, mentre la ricopiavo, la correggevo ulteriormente, la cambiavo, la riscrivevo».

Arrangiavi, scrivevi già testi di canzoni anche se ancora non lo sapevi!

«Sì, bravo, esattamente così! Ho sempre usato questo sistema! Le idee mi venivano fuori così, e poco mi importava se, come mi accadde una volta, scrivevo la parola “tutto” con tre T…».

Era proprio tutto tutto tutto! Ahahahah!

«Non ho mai dato peso alle convenzioni grammaticali. Mi spendevo tutto sulle idee, che consideravo ben più importanti. La professoressa lo aveva capito e, nonostante gli errori segnati in blu, considerava bello quel tema. E dunque, ritornando alla domanda che mi hai fatto, forse nei miei testi qualcuno riesce a vedere più che delle semplici paroline».

Senz’altro è così!

«E questo mi riempie di onore!» dice lui, chinando un po’ il capo, sorridendo con un imbarazzo che è quello del sole quando si nasconde dietro una nuvola.

Le tue canzoni hanno accompagnato la nostra infanzia. Ma quali sono quelle che hanno accompagnato la tua? Con quali canzoni ti sentivi felice come noi ci sentivamo felici ascoltando le tue?

«Amavo il Quartetto Cetra! E in generale tutte le canzoni che avevano una linea melodica toccante. In particolare, ricordo “Il mare”, cantata da Luciano Tajoli. Mi colpiva l’introduzione di questa canzone, e mi chiedevo come facesse un compositore a tirar fuori tutte queste cose stupende. E lì, a dieci anni, capii che la musica nasce dal cuore, dall’anima, e non dalla penna. Tanta gente, laureata in composizione, non sa scrivere un tubo. E questo vale anche per gli scrittori. Dopo i dieci anni, la nonna mi regalò una chitarra perché capì qualcosa di me che io non avevo ancora capito, e da lì cominciò la seconda fase della mia giovinezza. Da lì cominciai a scrivere musica. Ora, mentre mio fratello maggiore era un po’ la guida della famiglia, e mia sorella minore la più protetta e coccolata, io che stavo in mezzo con la mia chitarra cominciai a fare musica sentendomi assolutamente libero!

«“La virtù sta sempre nel mezzo”!» grida Margherita, allegra ed entusiasta. Io approvo il motto aristotelico annuendo ieraticamente, e Riccardo ride.

Riccardo Zara Nuccio Margherita

Musica e libertà

«Mia madre suonava il mandolino, mio padre amava la musica, e mia nonna mi pagò le prime lezioni di chitarra: quattro anni di lezioni. Avevo appena imparato a suonare i primi accordi e già, dopo un anno di lezioni, mettendoli insieme con fantasia, scrissi le mie prime cose. Neanche il tempo ed una canzone mi fu rubata e partecipò al Festival della Canzone di Monfalcone. Quando, più avanti, cominciai a suonare con i Draghi, anche se suonavamo le canzoni degli altri, io non smisi mai di scrivere le mie. Ma non le facevo sentire a nessuno perché mi vergognavo».

Senti… Ci sono alcune tue canzoni, come Cuore che ho canticchiato prima, che rivelano senz’altro un animo poetico. E allora ti chiedo, riferendomi ad un tuo vecchio successo che poi fu cantato dai Dik Dik: a che punto è il Viaggio di un poeta? Hai mai scritto solo per scrivere? Hai mai scritto delle poesie o magari un libro?

«No, poesie non ricordo di averne scritte. Se non una, una volta, per una ragazza. Ma faceva schifo».

La ragazza o la poesia?

«Ahahahah! No, no, la poesia! Quanto al libro, beh, sì. Una volta, dopo una trasmissione in occasione del quarantennale dei Cavalieri del Re, essendoci tanti ospiti che dicevano cose su di noi e ci facevano i complimenti, sentii che dovevo scrivere qualcosa sulla vera storia del nostro gruppo, con delle tinte che non sono sempre rosee come si potrebbe pensare. E ho scritto un libro. C’ho messo un anno intero, ma lì racconto tante cose che sono vere e non romantiche».

E lo vedremo mai pubblicato?

«No, perché non so come fare…» – ma ora ci stiamo lavorando! – «“Viaggio di un poeta” è nata quando ero in giro sulle navi, a suonare. Andavamo in Australia, Africa, India… Insomma, a vent’anni era per me mettere il becco fuori dal mondo! E allora lì mi sono già proiettato nel futuro, e ho scritto questa canzone come se ciò che stavo vivendo in quei giorni fosse già il ricordo di un Riccardo molto più avanti negli anni. E una cosa la dissi e la penso ancora: uno magari va a cercare la felicità lontano, e poi ce l’ha a casa. Anzi, a proposito di questo, ti racconto come è nata la sigla di Cuore!»

Certo! Vai!

«È nata in un pomeriggio. Mi chiamano da Roma, dalla RCA, e mi chiedono di scrivere una canzone sul libro di De Amicis. Ed io subito ricordo di averlo letto a scuola, alle elementari. Nell’82, quando scrissi la canzone, Cuore era già un romanzo contestato per mille ragioni, accusato di nazionalismo, di retorica, e via dicendo…»

Letteratura troppo reazionaria?

«Ma sì, troppo ruffiana, troppo patriottica… dicevano queste cose. Ma bisogna ricordarsi che, quando fu scritto, erano forti i sentimenti di amor patrio e di unità nazionale. E quando, da bambini, ogni sabato, il maestro ci chiedeva se volessimo fare un disegno o leggere il libro Cuore, io non avevo mai dubbi sulla scelta! Mi mettevo così, in posizione comoda, e l’insegnante era così bravo che, ascoltandolo, mi sembrava di stare dentro un film; vedevo tutto quello che ascoltavo! E quando poi ho scritto la mia sigla di Cuore, ho proprio immaginato un film: una mamma che, osservando suo figlio che rispolvera il buon vecchio libro Cuore, ricorda con malinconica nostalgia i suoi tempi della scuola. E poi inserisco quattro flash di alcuni racconti mensili principali e, alla fine, quella frase…».

“Ma ieri ho visto il mio ragazzo che – toglieva un po’ di polvere da te”…

«Esattamente, perché il protagonista è proprio il libro! Poi, da grande, mio figlio Jonathan mi disse che, per anni, aveva pensato che il “ragazzo” fosse il ragazzo di Clara, ahahahah! E non aveva capito di essere lui!».

Tutti, Riccardo, abbiamo avuto e superato questo trauma interpretativo! Ahahahahah!

«Ora, io in studio registravo. Ma per comporre un testo preferivo sempre un ambiente più familiare, più intimo. E così, un pomeriggio, mentre ero in casa e non c’era nessuno, perché Clara era in giro per lavoro e Jonathan a scuola, mi misi al piano e scrissi Cuore. Dopo un paio d’ore che la provavo bussa alla porta la signora Mariuccia, la mia vicina: “Signor Zara, è tutto il pomeriggio che ascolto, ma che bello! Che bella canzone che sta scrivendo!”. Sai, mi sono commosso! Era una signora anziana, che certo conosceva bene il libro Cuore. Questo suo complimento è stato forse il più bello che io abbia mai ricevuto.»

Nel frattempo, giusto mentre si parla di Cuore, si sente un “ciao” provenire dalla saletta. È Vittoria, la moglie di Riccardo. Tra un po’ scoprirò di lei una cosa straordinaria!!

Un sound unico, come l’anima di ognuno

Riccardo Zara Cavalieri

E comunque, Riccardo, da queste canzoni viene fuori tutto il tuo sound, che non è solo musicale. È un sound unico, come l’anima.

«Come l’anima di ognuno di noi, che è unica! Pertanto ciascuno deve fare ciò che sente, anche con il rischio di non piacere agli altri».

Entra Vittoria, scattano le presentazioni e – ad un certo punto – ecco una rivelazione che ha dell’incredibile! Lei, la moglie di Riccardo Zara, è catanese come me! Mi alzo dal divano, le corro incontro e la abbraccio! Riccardo ride, Margherita esulta, Vittoria si chiede chi siano questi pazzi, ma tutto, in quel momento, sembra essere stato voluto da sempre!

Mi riprendo, mi risiedo. Ci stacchiamo per dieci minuti dall’intervista e parliamo un po’ con Riccardo di cose talmente importanti e belle che, il solo pensiero di doverle sintetizzare in questo articolo, allontana da me immediatamente la tentazione di farlo. Se uscirà il libro di Riccardo, e faremo di tutto perché ciò avvenga, le leggerete lì. Ma una cosa è certa: l’anima che ho di fronte a me è talmente immensa che solo una donna catanese – ora capisco i piani della Provvidenza – avrebbe potuto contenerla!

Alcuni versi delle tue canzoni, di fatto, hanno strutturato il linguaggio di tante generazioni, sono diventati patrimonio della lingua parlata, locuzioni familiari e condivise. Ti faccio un esempio, quando ci si prende in giro tra amici e si scherza: “Il buon padre voleva un maschietto ma, ahimè, sei nato tu! – Riccardo ride – Ecco, cosa si prova ad accorgersi di questo fenomeno linguistico?

«Guarda, quando ho scritto Lady Oscar mica sapevo o pensavo a tutto questo! Cercavo le parole migliori per riuscire a spiegare e a raccontare, in pochi versi, quello che la RCA mi spiegava con ancora meno parole. All’inizio pensavo che fosse semplicemente la storia di una ragazza che il padre aveva obbligato a studiare scherma… Poi mi dissero: “Oh, guarda che non si svolge ai giorni nostri, ma ai tempi della Rivoluzione francese!”. E insomma, allora, beh, per prima cosa dovevo creare l’ambiente, e allora esagero subito con una “grande festa alla corte di Francia”, e poi introduco la protagonista con quel “c’è nel regno una bimba in più”; aggiungo “biondi capelli e rose di guancia” e poi quella frase che mi hanno rimproverato tante volte: “Oscar Ti chiamerai Tu”… »

Le convenzioni! Ahahahah! Ecco!   

«Già! Grammaticalmente magari non è corretto, ma bisogna stare attenti alla metrica, alle rime, che devono servire a memorizzare la sigla! E poi… la frase incriminata… quel povero “ahimè” che mi ha creato tanti problemi, come se fosse stato un guaio il fatto che fosse nata una donna, ma per carità! Lì volevo sottolineare il punto di vista del padre, che voleva un maschio! Ma ci vuole così tanto a capirlo?! Ahahahah! Ma la parola misteriosa era “fioretto”: io sapevo bene cosa fosse, ma volevo indicare il doppio significato della spada e di un piccolo fiore, cioè la bambina: “Lady dal fiocco blu”, e così salvavo anche la rima con quel “tu” di prima. Ora, tu mi chiedi cosa si possa provare a rendersi conto di quanta strada abbiano fatto queste parole. Ebbene, io non facevo nessuna fatica, mi venivano di getto, senza merito! L’ho scritta così, semplicemente, mentre dalla finestra della mia cascina guardavo passare i contadini. Non avendo faticato chissà quanto a scrivere queste parole, oggi, al risentirle, mi sembra quasi che le abbia scritte un’altra persona. Mi fa piacere sentirle, ma è come se appartenessero ad un altro Riccardo».

E credo che questo, per un autore, sia la cosa più bella: sentirsi liberato dalla sua scrittura, per poterla godere senza imbarazzi.

«Già, che bravo che è stato quell’autore lì! Ahahah!».

E poi, voglio dire, ascoltando Lady Oscar chi potrebbe non dirlo?! Lì la voce di Clara è quanto mai perfetta per quella sigla! Ma, a proposito, con Clara come vi siete conosciuti?

«In quel periodo vivevo ai Navigli. La mattina lavoravo e la sera andavo a suonare nei night. Conobbi un batterista brasiliano che aveva un’amica, anche lei brasiliana. La vidi una volta e mi colpì. Era una ragazza semplice, come quelle che piacevano a me. Una sera me la ritrovai a casa insieme a questo mio amico; lui le diceva: “Sai, Riccardo è l’autore di Viaggio di un poeta…” e, insomma, ci vedemmo due, tre volte. La invitavo a venire al night dove suonavo ma lei andava sempre nell’altro, dove suonava il suo amico batterista. Una sera lei doveva prendere un taxi ed io la accompagnai alla macchina e pagai al tassista il prezzo della corsa. Clara non voleva, ma io insistetti…».

Un gesto da cavaliere, Riccardo… Beh! Non ci si improvvisa “cavalieri”, e tu lo eri già!

«Ahahah, chissà! Allora lei scese dal taxi e mi disse che quella sera l’avrebbe passata con me. Poi, verso le cinque, uscimmo dal locale. Era l’alba. Ci sedemmo su un prato e ci baciammo».

Sembra una sigla, accidenti! Anzi, sempre a proposito di sigle. Ti faccio una domanda che… beh, fatta da un prete potrebbe sembrare strana. Io adoro la sigla di Devilman, innanzitutto musicalmente, perché è un tuono di percussioni, perché è meravigliosamente tribale, perché è immediatamente efficace! Ma anche perché mostra una conversione straordinaria: un diavolo che lotta contro il male perché si è innamorato! Questa cosa è grandiosa!

«Anche lì, sapevo poco del cartone, ma cercai di far dire al testo qualcosa di importante. Una volta le storie per bambini avevano sempre una morale».

Lì cantava anche Jonathan, anzi, mi sembra di aver letto da qualche parte che lui avesse la febbre quando l’avete registrata.

«Questo non lo ricordo, ma ricordo che stavo male io. Ero raffreddato e la mia voce non era buona».

Accidenti, non si direbbe proprio dall’inizio della canzone! Quell’acuto iniziale è fantastico!

«Clara e Guiomar erano in Brasile in quei giorni, perché il loro papà stava male. Così diedi a Jonathan questa parte. Lui, in piedi su una sedia perché il microfono stava in alto, imparava velocissimamente perché ha un grande orecchio musicale».

 Sì. È bravissimo. Al concerto di Lucca si vede proprio che si diverte un mondo!

«In effetti si diverte molto più adesso a cantare, da grande, che quand’era bambino».

Jonathan, pensavo, ha vissuto l’esperienza dei Cavalieri del Re nel duplice ruolo di elemento del gruppo e di appartenente alla nostra generazione! Cioè, faceva parte di quel gruppo che scriveva sigle, che lui e i suoi coetanei di allora, tra cui il sottoscritto, sentivano!

«E infatti nella canzone “C’erano una volta i Cavalieri del Re”, gli diedi proprio questa strofa molto bella in cui doveva interpretare… voi, voi della vostra generazione: “Noi cantavamo in compagnia ed eravamo in tanti, mille e più mille, tutti un po’ come te; ma quei ragazzi oggi sono diventati grandi: sono cresciuti in fretta, un po’ come me”».

Esatto! Accidenti, com’è vero!

Piccola parentesi su questa canzone meravigliosa, che forse non tutti ancora conoscono. Quando la sentii la prima volta fui subito colpito dalle prime parole, dove Riccardo dice: “Noi cantavamo quando tu volavi ancor nel vento”. Verissimo. Tant’è vero che mi viene subito in mente come, a Catania, per esprimere il medesimo concetto, ci sia un’espressione efficacissima: “Quannu nuiautri cantaumu, tu ancora sguazziaravi nde baddi ‘i to patri!” (Quando noi cantavamo tu ancora facevi il bagnetto nelle palline del tuo papà). Non me la sono sentita, nel mio primo incontro con lui, di mostrarmi subito così pieno di licenze (fossero anche linguistiche!). Ecco Riccardo, lo scoprirai leggendo questo piccolo appunto e so che ne riderai di gusto! Mi pento di non averla detta lì per lì, questa cosa! Che sciocco scrupolo!

Ancora Cuore, perché ce n’è sempre bisogno

Senti, qual è la tua sigla preferita? Chissà quante volte te l’hanno chiesto…

«Sono molto legato a Cuore, per come è nata, per le cose che ti ho detto».

Pensavo che… beh… suonando un po’ anch’io, permettimi che ti dica una cosa. In quel brano, come in altri, ci sono dei passaggi armonici, dei salti e delle modulazioni di tonalità dove, credimi, viene fuori tutto lo spessore del Riccardo musicista!

«Lì devo tantissimo ai Beatles. Te l’ho detto, trovi sempre nei loro dischi tante canzoni diverse ma, in tutte, loro cercano di risolvere i riempimenti a partire da accordi semplici che poi danno risoluzioni incredibili. Per cui, quando scrivevo le mie canzoni, mi chiedevo sempre: “E qui loro cosa avrebbero fatto? Cosa avrebbero messo?”. E così cercavo non di copiarli ma…»

Di ispirarti a loro. Grande! Ma invece, di quando suonavi con Bruno Lauzi, cosa ci racconti? Tu sei un chitarrista ma nella sua band suonavi il basso, giusto?»

«Con Bruno facevamo le prove in casa mia, e siccome lui, Sergio ed io suonavamo tutti e tre le chitarre, ad un certo punto ho preso il mio basso, l’amplificatore, e sono andato dietro a Bruno che aveva attaccato una canzone. Ne rimase contentissimo e decretò che, da quel momento in poi, io suonassi il basso!».

Ti sei fatto umile, ti sei “abbassato”! Ahahahah!

«Ahahahah!»

Ultima domanda, Riccardo, che ormai è quasi l’ora di pranzo.   

«Ok!»

È una domanda che normalmente faccio alla fine di queste interviste che, come sai, vanno a finire in una rubrica di LuciaLibri che ha a che fare con il… Sacro. Ebbene, cos’è che per te è sacro, oggi, in cui questa parola è passibile d’essere etichettata solo come qualcosa di fideistico, oppure, in altri mille modi, viene del tutto banalizzata?

«Qualche anno fa ti avrei risposto: l’amicizia. Ma oggi non è più così. Ho tanti conoscenti, ma amici veri temo di no. Quelli che consideravo amici, tante volte, si sono mostrati solo interessati… Oggi, quindi, ti rispondo: la lealtà! Tutti siamo diventati, o forse lo siamo sempre stati, molto egoisti, molto individualisti. Io credo che la lealtà sia fondamentale. Quando sto con una persona, mi sforzo di essere me stesso. So di non essere Alain Delon, so di non essere un genio, ma so di essere me stesso. E mi piace avere un rapporto con qualcuno che sia sé stesso, che sia leale. Io mi sforzo di esserlo sempre, e tutte le volte vengo fregato, perché c’è sempre quello che se ne approfitta, che è leale a parole ma non nella vita. Vedo che questo manca un po’ dappertutto, oggi più di una volta».

Sì, è triste.

«E poi, quanta ostilità… Vedo gente sempre carica di odio, di presunzione, di saccenza. Tutti dicono io sono, io sono, io sono… mentre voi non siete nessuno!».

“Io Sono”… già. Un’espressione importante, ma tante volte declinata alla maniera del Marchese del Grillo…

«Ahahahahah! Esatto! Eppure in un mondo che vive di immagini e di apparenze, queste persone fanno strada! Io per questo vorrei tanta lealtà, tanta onestà intellettuale, tanta umiltà».

Ecco, io forse non sono stato tanto onesto… Ti avevo detto “un’ultima domanda”, ma…

«Ahahah! Vai, dimmi pure!»

A questi bambini come me, come Margherita e Jonathan, e come tantissimi altri, a questi bambini cresciuti così in fretta, che messaggio dà Riccardo Zara?

«La vostra generazione è forse la prima che vivrà peggio dei propri genitori. Chi è nato dopo la guerra, come me, ha sperimentato un benessere che altro non era se non la certezza di un futuro più bello! La certezza di un futuro. Alla vostra generazione, forse, questa cosa in qualche modo è stata preclusa. Ma i cartoni vi hanno aiutato ad avere una visione più pura della vita, più bella. Avevate dei messaggi. Ecco, date a chi viene dopo di voi una visione più bella!».  

È quello che hai fatto tu, Riccardo. Grazie, grazie con tutto il cuore di questa intervista. Posso chiederti l’ultimissima cosa? Non è una domanda. È un desiderio…

Già. E sapete qual era il desiderio?

Quello di metterci a suonare un po’ insieme, con la chitarra, qualcuna delle sue canzoni.

E lui lo accoglie in un istante. Si alza, va a prendere un’altra chitarra, ci accordiamo e cominciamo un medley bellissimo e improvvisato di brani in successione. Sembra che si suoni insieme da anni, cantiamo e facciamo i cori, come se li avessimo provati decine di volte. Nessuno di noi due guarda gli accordi. Io guardo lui, mentre suona e canta di fronte a me: è la stessa voce che usciva fuori dal mio televisore quando, a otto anni, guardavo l’Uomo Tigre… Ed è lì, davanti a me, come tutta la mia infanzia. Lui la capisce la mia gioia, comprende come mi sento, e si rallegra del fatto che io, in quel momento, sia felice.

Per questo è un mito, Riccardo! Per questo c’è del sacro in lui: perché si rallegra della felicità di chi gli sta di fronte. E mi sorride. Accidenti, sta per compiere 76 anni ed io non riesco a vedere in lui nessuna ruga, perché l’infanzia, quella che dura per sempre nel cuore dei bambini, non invecchia mai!

Più tardi, per le vie di Milano, con Margherita ci sediamo a prendere uno spritz. Sono taciturno, meditabondo. Lupo pensieroso è il mio totem scout, ed è proprio in questi casi che si capisce il perché. Lei non mi chiede a cosa io stia pensando. È evidente. Quella cosa cominciata a casa di Riccardo, l’intervista, la chiacchierata, quell’abbraccio quando ci siamo salutati… tutto questo è come una semiretta: ha avuto un inizio, ma non credo che finirà mai.

Oggi è il tuo compleanno.

Auguri grandissimo Riccardo!

Il tuo amico Nuccio

Un pensiero su “C’è del sacro in… Riccardo Zara

  1. Mario Vescera dice:

    Che meraviglia questa intervista,anch’io sono cresciuto con le sigle di Riccardo ed ora che ho 49 anni le ascolto ancora in auto insieme ai miei figli.Lo considero un poeta dell’anima ,le sue canzoni sono capolavori musicali ,romantiche e malinconiche,orecchiabili e profonde.Grazie di esistere!

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