Vonnegut 100. Linguaggio lineare e pensiero laterale

Ci sono autori che non puoi fare a meno di leggere. A chi non ha letto Kurt Vonnegut – che oggi avrebbe compiuto cent’anni: una certezza, è in paradiso – è facile suggerire “Mattatoio n° 5 o la crociata dei bambini”, che sintetizza gli elementi e gli aspetti della sua poetica e contiene un impareggiabile, strabiliante pezzo sul bombardamento di Dresda. Ha puntato su storie semplici e su passioni innocenti. Ha prediletto l’ironia e la contraddizione…

Oggi, 11 novembre 2022, fosse stato ancora qui sul pianeta terra, Kurt Vonnegut avrebbe festeggiato i suoi primi 100 anni. 
Invece, avendo trasferito, l’11 aprile del 2007 – a causa dei traumi riportati in un incidente domestico – la sua fabbrichetta di racconti dalla casa nel villaggio di West Barnstable in Massachusetts, alla nuova dimora celeste, siamo qui a celebrarlo “in contumacia”.
Nessun dubbio circa il nuovo indirizzo a cui fargli pervenire gli auguri; sono, infatti, tra i milioni di wag, di “buontemponi” che, come aveva ipotizzato egli stesso a proposito del suo futuro remoto, pensano: «Adesso è in Paradiso».
Dove volete che possa essere un uomo con il curriculum e lo spessore umano di Kurt Vonnegut? Seppure, attingendo alla biografia, ci riferissimo unicamente all’adozione dei due figli della sorella, rimasti orfani di entrambi i genitori nell’arco di un paio di giorni, già il piatto dei “pro paradiso” sulla bilancia sarebbe colmo alla giusta misura. Un gesto notevole che, in ogni caso, viene totalmente assorbito nel cumulo maggiore del merito professionale che gli si riconosce: Kurt Vonnegut è stato e – dal momento in cui molte delle sue idee vivono dentro di noi – continua a essere «quell’insegnante eccezionale a cui dobbiamo tutto. Colui che ci ha resi più entusiasti di essere al mondo, più fieri di essere al mondo di quanto» prima di incontrarlo «credevamo possibile».

Prendersi cura dell’altro

Come umanista si è comportato con specchiata onestà senza aspettarsi nessuna ricompensa o punizione in vita o dopo la morte. Ha fatto del suo meglio per servire la sua comunità di lettori. «Una pecca nell’indole degli essere umani è che tutti vogliono costruire e nessuno vuole fare manutenzione». Vonnegut si è conquistato quel posto nel migliore dei luoghi possibili perché attraverso i suoi romanzi, i racconti, i saggi e i discorsi pubblici, si è assunto proprio quel peculiarissimo compito: prendersi cura dell’altro, coadiuvarlo nelle operazioni di riparazione, di correzione e rigenerazione di sé.
Non è infatti “fare manutenzione” esortare i lettori ad essere più gentili e più responsabili di quanto spesso siano?  

«Un giovane di Pittsburgh, un giorno mi si è presentato con una semplice richiesta: «Per favore, mi dica che prima o poi finirà tutto bene».
«Benvenuto sulla Terra, giovanotto», gli ho risposto io. «Qui fa un caldo boia d’estate e un freddo cane d’inverno. È un pianeta rotondo, umido e affollato. Bene che vada, Joe, tu hai un centinaio di anni da vivere da queste parti. E di regola io ne conosco una sola: Cazzo, Joe, bisogna essere buoni!»
«Uno degli scopi della vita umana, chiunque sia a controllarla, è amare tutti coloro che sono a portata di amore».

Non è manutenzione praticare un’arte, non importa a quale livello di consapevolezza tecnica, nella prospettiva di farne uno strumento di crescita della propria anima e di quella altrui? 
«La letteratura è per definizione piena di opinioni. Provocherà sempre necessariamente delle discussioni» grazie alle quali speriamo sia possibile cambiare in positivo la storia del mondo a partire dalla metamorfosi che innesca a livello individuale.
Non è, infine, manutenzione «fare in modo che le persone apprezzino perlomeno un pochino il fatto di essere vive», che è, secondo Vonnegut «la missione degli artisti»?

Underdog

Nato nel 1922 a Indianapolis da una famiglia di origine tedesca, intraprese in prima battuta gli studi di biochimica presso la Cornell University di Ithaca. Nel 1943 si arruolò nell’esercito e fu spedito in Germania. Catturato dai tedeschi, fu testimone del bombardamento di Dresda, esperienza che gli ispirò, più tardi, uno dei suoi più celebri romanzi: “Mattatoio n°5”. Ritornato in patria, si stabilì a Chicago, dove si divise tra il lavoro di cronista presso il City News Bureau e gli studi universitari alla facoltà di antropologia. Mancò il conseguimento della laurea a causa del rifiuto della sua tesi da parte dei professori. Si trasferì da Chicago a Schenectady, trovando impiego come pubblicitario presso la General Electric Company. Il 1951 fu l’anno della decisione più importante di sempre: lasciare il lavoro per dedicarsi alla scrittura. Aveva 28 anni. Dovette attendere un anno per la pubblicazione del suo primo romanzo: Piano meccanico e aspettò anche di più, una decina, per il meritato successo di pubblico e di critica, che arrivò con Mattatoio n°5 o la crociata dei bambini.  Fu anche insegnante di scrittura creativa ad Harvard.
Nonostante una carriera in costante ascesa, Kurt Vonnegut si considerò sempre un underdog, uno sfavorito. 

Socialità, grottesco e incongruenze

Il fatto che i suoi racconti abbiano faticato ad apparire sul New Yorker, contribuì a radicarlo nella convinzione che il suo lettore di riferimento, a quei tempi, non fosse tra gli inclusi nella platea della celebre rivista newyorkese. Divergenti, rispetto ai racconti tipicamente ospitati in quel magazine, anche i suoi obiettivi e lo stile.
Le storie di Kurt Vonnegut assomigliano ad un mosaico selvaggio che si espande e contrae secondo le modalità dell’improvvisazione jazz. Per rappresentare al meglio la vita nella sua complessità, bisogna ricorrere, se occorre, anche all’estemporaneità, cosa che il nostro festeggiato non ha mai disdegnato di fare, anche quando ha praticato la fantascienza, genere a lui particolarmente caro.
L’underdog-ex studente di biologia, che non avrebbe mai neppure potuto partecipare ad un seminario di letteratura, non possedendo un vocabolario abbastanza specifico, non ha mai abiurato al suo socialismo alla Eugene Vicrot Debs, del quale amava citare sovente la frase: «finché esisterà una classe operaia, io ne farò parte; finché esisterà un elemento criminale, io ne farò parte; e finché ci sarà qualcuno in prigione, io non sarò libero». Né ha mai dimenticato background e difficoltà degli esordi. Ha tradotto, allora, l’ideologia, il pragmatismo di formazione e il bagaglio esperienziale nell’obiettivo di insegnare, attraverso i suoi scritti, la socialità. Ha puntato su storie semplici e su passioni innocenti. Ha opzionato un linguaggio genuino, lineare, descrittivo, fluido, che, nel bisogno, non esita a virare verso lo slang. Ha prediletto, infine, l’ironia e la contraddizione. Come ultimo di tre figli, non ignora che per attirare l’attenzione a tavola rubando la scena ai fratelli maggiori, l’unico modo è puntare sul buffo, sul divertente, sul grottesco: da qui il registro umoristico. Sa altrettanto bene che la monotonia è un’ottima alleata della distrazione. Vi pone rimedio introducendo continuamente elementi di novità che modificano il flusso narrativo: incongruenze che stimolino riflessioni e paradossi stravaganti che sollecitino il pensiero laterale.  

L’immensa gratitudine

Ci sono autori che non puoi fare a meno di leggere. Con loro è amore a prima vista. Li rincorri ovunque e non vuoi proprio perderti nulla. Se, tuttavia, chi non ha ancora mai letto Vonnegut, dovesse chiedermi da dove cominciare l’operazione di avvicinamento, non potrei che suggerirgli Mattatoio n° 5 o la crociata dei bambini. Oltre a sintetizzare in maniera esemplare tutti gli elementi e gli aspetti della poetica di Vonnegut cui ho accennato, contiene quell’impareggiabile, strabiliante pezzo sul bombardamento di Dresda che credo abbia pochi eguali, in quanto a bellezza, efficacia, acume, nell’intera produzione letteraria mondiale.
Ho cercato a lungo, spulciando gran parte dei suoi romanzi, racconti e discorsi, una frase ad effetto con cui concludere il mio umile tributo. Giusto per far finta che, come accadeva in una delle sue esperienze di premorte sperimentate nelle pagine di Dio la benedica, dottor Kevorkian – del 1999 -, fosse ritornato dall’aldilà per regalarci ancora qualcuna delle sue perle.
Il fatto che avessi solo l’imbarazzo della scelta – in verità – non mi ha facilitato il compito.
Vista la solennità della data, però, mi sono immaginata che fosse in vena di bilanci esistenziali, e a tal proposito ci confidasse stralci di due conversazioni, avute con il suo adorato Mark Twain o con l’amico e collega Joe Heller – autore, come sapete, di Comma 22.
La prima è questa: «Mark Twain, alla fine di una vita di profondo valore, per la quale non aveva mai ricevuto un premio Nobel, si chiese per quale scopo vivessimo tutti quanti. Tirò fuori cinque parole che lo soddisfacevano. Soddisfano anche me. E dovrebbero soddisfare voi. “La stima dei nostri vicini”»
Ecco la seconda: «Eravamo alla festa di un multimiliardario a Long Island, e io ho detto: – “Joe, che effetto ti fa sapere che solo nella giornata di ieri probabilmente il padrone di casa ha fatto più soldi di quanti Comma 22, uno dei libri più famosi di sempre, ne ha incassati in tutto il mondo negli ultimi quarant’anni?” Joe mi ha detto: – “Io ho qualcosa che lui non potrà mai avere”. Io gli ho chiesto: – “E cosa sarebbe, Joe?” E lui: – “La consapevolezza di avere abbastanza”.»
Infine, ho supposto, giunti al momento del commiato, mentre gli stringevo calorosamente la mano – ma solo perché un abbraccio mi sembrava irrispettoso – di esprimergli così la nostra immensa gratitudine:

 La città la ringrazia, il paese la ringrazia, il pianeta la ringrazia. Ma i più sentiti ringraziamenti sono quelli delle future generazioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *