Meno istinto e più tecnica, Rabito non smette di stupire

A quindici anni di distanza ecco il libro gemello di “Terra matta”: “Il romanzo della vita passata” di Vincenzo Rabito, curato dal figlio Giovanni, che ha ritrovato il secondo dattiloscritto. Come nel primo libro la gagliarda forza espressiva colma le carenze grammaticali, la magmatica voce primigenia toglie il fiato, sorprende e coinvolge. Stesso andamento da cantastorie, ma narrazione in terza persona, con maggiore consapevolezza delle proprie qualità

Fino a pochi giorni prima di morire stava con mani e viso sulla macchina da scrivere, in un lungo corpo a corpo di scrittura che azzerava il suo passato remoto di ragazzo senza istruzione, di soldato arruolato per battaglie fra le più cruente del secolo scorso, di minatore all’estero, prima di tornare a casa, in provincia di Ragusa, a Chiaramonte Gulfi. Passato azzerato, per un futuro da scrittore riconosciuto, certamente atipico e fuori da ogni schema, ma consacrato. Vincenzo Rabito non sa di essere ormai nel novero dei classici della letteratura italiana, non sa di avere fatto irruzione con “armi non convenzionali” – a cominciare da un italiano approssimativo, eppure affascinante – fra le letture di uomini e donne, e che la sua opera e la sua vita sono perfino state trasformate in un film documentario da una valentissima regista palermitana, Costanza Quatriglio.

Frasi che sgorgano e tolgono il fiato

Quindici anni fa Terra matta di Rabito, pubblicato da Einaudi (unica casa editrice a crederci fra quelle interpellate, dopo che quell’incredibile diario si era aggiudicato ex aequo il premio Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano), era stato un libro sorprendente, a cui avevano lavorato in parecchi, il figlio di Rabito, Giovanni, Luca Ricci, Evelina Santangelo e Paola Gallo. Adesso onere e onore di ripresentare Vincenzo Rabito e un suo nuovo libro tocca al figlio Giovanni, in gioventù vicino alla neoavanguardia e adesso residente in Australia. A lui si deve il ritrovamento di un secondo dattiloscritto paterno, che la madre avrebbe volentieri eliminato, ma che adesso è diventato Il romanzo della vita passata (X-490 pagine, 25 euro), pubblicato ancora da Einaudi. Un nuovo memoriale, gemello di Terra matta (che cronologicamente si fermava più di dieci anni prima, al 1970), con lo stesso andamento da cantastorie, stavolta scritto però in terza persona, forse con maggiore consapevolezza delle proprie qualità affabulatorie, probabilmente, con meno istinto e più tecnica. Senza smarrire la voce primigenia e senza eguali: parole, pensieri, frasi e concetti sgorgano rigogliosi e magmatici, uno dietro l’altro (nell’originale ogni singola parola era separata dal punto e virgola, dai due punti), togliendo il fiato, sorprendendo e coinvolgendo allo stesso modo del libro che ha rivelato Rabito.

Quel figlio tra romanze e poiesieie

Dei tre figli, Giovanni, curatore certosino di questo secondo volume da sbrogliare filologicamente come il primo, era forse quello più vicino al padre per indole e ambizioni letterarie; e al padre Vincenzo aveva promesso che si sarebbe occupato di quei mastodontici quasi incomprensibili canovacci. Si capisce anche addentrandosi nella lettura de Il romanzo della vita passata, in cui il padre lo racconta, a più riprese, ad esempio nel secondo capitolo del libro IV, La bella ebica, si legge così:

Che Ciovanne, vero era che come arevavo a Messina si à messo a studiare per farese avocato, ma però non studiava per farese avocato solo, ma si à messo a studiare magare per scrivere romanze e poiesieie, che come li scriveva, li mantava alla casa editrice di Bolognia, per poi farasille aprovare, e sederino valite queste romanze e queste poiesieie la casa editrice di Bolognia ci li pubblicava, e Ciovanne, se queste romanze e queste poiesieie la casa edetrice li venteva, cominciava a deventare uno crante poeta, uno crante romanziere, e magari poteva deventare ricco di solde.

Una stanza tutta per sé

Dal lavoro di bracciante, giovanissimo per dare una mano alla madre vedova che aveva altri cinque figli, a quello di cantoniere, passando dalle trincee da scavare dopo il disastro di Caporetto. Dalla mattanza dei giovanissimi nella prima guerra mondiale («Certo che di queste ciovenotte del 99, nella bataglia del Piave, ni ànno ammazato assaie, che li ànno ammazato quanto e come si ammazino li agnelle nelle feste di Pasqua») alla iattura del fascismo, al’emigrazione, e poi oltre, fino ai decenni successivi, fino agli ultimi anni di vita. Vincenzo Rabito, scrittore «inafabeto», attraversa il secolo, denso di nefandezze e violenze. Lo fa talvolta con dolore, altre con effetti di involontaria comicità (accadeva anche in Terra matta, finito di scrivere nel 1975). E lo fa a suo modo con uno sguardo innocente, con una naturale e disinvolta nonchalance.

Poieche la querra nel mese di ciugno si à fenito, li americane e linchelise e francese la querra lànno vinto, e quinte nel Ciapone ci avevino butato la bomba tomica, e quinte ora la leggie cominciava a fonzionare, e quinte intrallazzo e contrabanto non zi ne poteva fare più.

Non c’è dubbio che questa sia letteratura e anche di alto profilo. È il trionfo del dar parola, con qualsiasi mezzo, a pensieri altrimenti indicibili, del trovare compiutezza – grazie a una gagliarda forza espressiva, con le carenze grammaticali colmate da una potenza unica – a un’esigenza del corpo e della mente, quelli dello scrittore Vincenzo Rabito rapito da una malconcia Olivetti e dal desiderio di lasciare un segnale della propria esistenza dietro di sé. Un’infanzia senza scuola, una stanza tutta per sé, per scrivere forsennatamente. Da Chiaramonte Gulfi all’Italia e anche oltre.

È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti

 

2 pensieri su “Meno istinto e più tecnica, Rabito non smette di stupire

  1. giovanni rabito dice:

    mi piace il suo articolo, complimenti!… Sicilia profonda immagino stia per Enna/Caltanissetta! un caro saluto giovanni rabito

    • Salvatore Lo Iacono dice:

      grazie dell’attenzione e complimenti per la curatela; l’autore dell’articolo intendeva una Sicilia di provincia, lontana dai grandi centri, non vicina alle coste

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