Tempo e silenzio, l’elegante sensualità di Bonfiglio

Nella silloge “Liturgia dei giorni” della poetessa Anna Maria Bonfiglio scorrono memorie e riti, sentimenti contrastanti. Sono versi di carne e desiderio, erotica è la brama di lottare quando il tempo sta per finire, la grazia con cui si abbraccia persino il dolore… 

Liturgia dei giorni (80 pagine, 14 euro) di Anna Maria Bonfiglio, pubblicato dalla casa editrice Prometheus, come scrive Francesco Solitario nella prefazione, è una raccolta poetica di “nostalgia e malinconia”  perché, afferma Solitario: «Alle nostalgie e alle malinconie sono strettamente collegate e annidate due pulsioni poetico-sentimentali, il tempo e il silenzio che come un fiume sotterraneo fluiscono nella raccolta».

La liturgia dei giorni oscilla infatti, proprio tra: la nostalgia di un tempo passato, la necessità di osservarlo in modo deciso e il desiderio del silenzio, ossia di quel momento fermo, di quello spazio bianco che induce a commemorare i ricordi, a celebrare la memoria e a tenerla in vita, quasi a volerla riportare al presente. Riviverla, ripensarla. 

La liturgia del gesto è quindi un rito che si ripete nel tempo e nei giorni. 

Frammenti di memorie

Indubbiamente, nell’atto della rivisitazione di questi frammenti di ricordi e memorie riaffiorano persone, illusioni, sentimenti contrastanti, talvolta feroci, di gioia e dolore. 

I ricordi e le memorie vengono riletti con scrupolo, li si guarda e ci si guarda da lontano, a volte senza più riconoscersi e riconoscerli «nei quali – scrive la poetessa – stentiamo a trovare / i noi stessi di allora» ma lo si fa con consapevolezza e forse anche con minor timore. Certamente con la lucidità della ragione. 

Tuttavia ogni volta che rileggevo il testo poetico – perché l’ho letto molte volte – avevo sempre la sensazione che ci fosse altro in queste poesie di Bonfiglio. Mi sembrava che mi stesse sfuggendo qualcosa. Avvertivo che ci fosse un sottofondo di più profondo che non riuscivo a vedere, quel qualcosa che solo i poeti sapientemente sanno nascondere e confondere tra le parole, nei versi, nel sottosuolo magico e sulfureo: ossia quella machiavellica e capricciositá tipica di scrittoresse e scrittori. Un gioco a nascondino. 

Mi sono chiesta allora cosa fosse quel qualcosa che non riuscivo a cogliere? E perché quella parola pulsioni a cui accennava Solitario nella prefazione secondo me non si poteva riferire solo a quei due soggetti: tempo, memorie. 

A chi appartiene, mi sono domandata, questa voce che alle parole nostalgia, malinconia, liturgia e preghiera accosta quello che la poetessa definisce il «precorso ambiguo del sangue», che parla di carne e desiderio. Cos’è che trema e trama? 

Compie percorsi ambigui
– Il sangue –
Parla linguaggi osceni ai sensi
E li sconvolge
S’insinua nella carne
E pulsa di desiderio
E trema e trama
Rosicchia a morsi piccoli
– di topo–
Sgualcisce le pagine segrete
Dell’amore
Senza dolore.

È il corpo a parlare

Ritengo che la poesia di Annamaria Bonfiglio oltre a descrivere un tempo, un passato che torna feroce alla memoria, racconti il sentire di un corpo e per questo credo che la sua poetica sia, oltre a ciò che è stato detto da Solitario, anche prepotentemente sensoriale, sensuale, quindi erotica.

È il corpo a parlare. È un corpo di donna che sente, trema, freme e avverte i morsi sulla pelle. Nella poesia numero 7 della seconda sezione (il libro è diviso in tre parti: Spartenze, A Palermo nessuno e  Oracoli) Bonfiglio scrive che il «corpo è gravido di sonno altrui», il suo, al contrario è presente, sveglio. Sente. 

L’erotica, l’erotismo che non è solo una questione di corpi che gemono, volgarmente parlando, ha una cosmetica che si compone di elementi che vanno al di là dell’immagine puramente sessuale. 

È sensuale il modo in cui con eleganza si vive la solitudine, la grazia con cui si abbraccia persino il dolore.

Erotica è la gentilezza del pianto che non ammette disperazione, che celebra la perdita con il rito del silenzio, che non urla ma conduce, danza. E scrive: di sangue, rabbia e dolore per trasformarli in preghiera, in canto, in lotta.

Erotica è la brama di voler vedere, sentire, afferrare. Erotica è la brama di voler lottare anche quando sembra che il tempo stia per finire. 

Un erotismo sinuoso

Esattamente come hanno fatto quelle che la poetessa chiama «le sorelle della notte», le donne che accanto al fuoco, col rischio di bruciarsi, ballano. Come Antigone che alla morte del fratello tramuta la disperazione in azione. Sensuale è quel camminare sul filo del tempo, dei ricordi, del rasoio a volte, con i sassi nell’anima (Non in tasca – Virginia/ ma nell’anima i sassi») come scrive la poetessa nella lirica dedicata a Virginia, la Woolf della stanza tutta per sé. 

La sensualità, l’erotismo, l’erotica sono il legame che il corpo instaura con l’anima. Il corpo è il mezzo per nutrire e saziare la fame spirituale. 

Nella Liturgia dei giorni questa sensualità  come dicevo è talvolta feroce perché feroci sono i ricordi e  l’Io lirico, come scrive la poetessa, «cura le ferite col sale», «s’insinua nella carne»  parla linguaggi osceni e rosicchia.

Si muove quest’erotismo sinuoso e tentatore come una S che si arrotola e si nasconde nel lessicale, nelle parole e nei verbi come:  spartenza” (termine che fa eco a Bordonaro) sassi, sangue, serpente, osceni: parole sibilanti e sinuose che strisciano. Si trascinano ma non si arrestano. 

«indugio sul mio corpo /intagliato dal vento delle assenze» scrive nella poesia “Allo specchio”: il corpo è scolpito da quelle assenze che sembrano, nel testo, possedere una innaturale levità perché così ce le presenta, senza gravità.  Nonostante esistano quei dolori e quelle mancanze, nonostante ci siano e lascino segni, quelle assenze, che provocano sofferenze fino a intagliare il corpo e a graffiarlo, ( «a graffi, procurando tatuaggi») non di cicatrici parla Bonfiglio, ossia segni evidenti che inducano a pensare al segno evidente della lacerazione, ma tatuaggi. Immagini. Arte. Anche il dolore nel corpo di questa voce che parla si trasforma in arte. Si traduce in occasione di Meraviglia. Che tentano di ricostruire una geometria circolare e ordinata.  

Ardore e sensi

Ma quali sono le assenze di cui parla l’Io lirico? Quelle della divinità come dice del «deserto disertato degli Dèi»? quelle provocate dalle illusioni per «opera di oracoli beffardi/forse mal consultati»? O quello del cibo, di quel digiuno che lascia il corpo asciutto, seccato, in uno stato di semivita, nella condizione “anoressica” «di sorsi e di bocconi» («Cosa posso dirti di questo viaggio/ che finge una partenza/ se non l’anoressia / di sorsi e di bocconi?/»).

In questo corpo, ogni passaggio di spada o di vento in ogni caso ha memoria perché, come scrive Bonfiglio è rimasto “incarnito”. 

Nonostante continui a sentire dolore, non si arrende perché è come posseduto da un nodo, e nonostante il tempo cerchi di sedurre la mente a fermarsi, a lasciarsi andare, forse ad abbandonarsi all’idea che ad un certo punto sia normale arrendersi e smettere di lottare, c’è un filo che non riesce a liberarsi da questo ricamo, dal richiamo, dal ricordo e forse anche dal desiderio che ancora possa tornare a essere… essere: cosa? Essere un corpo da frugare, essere un corpo desideroso e bramante.

«Ti frugavo nel cuore con le mani – scrive Bonfiglio nella poesia Mattutino – per trovare di me qualche frammento / una scaglia rimasta conficcata/nella tua carne d’uomo».

È ardore la poesia di Bonfiglio, questa è la poesia dei sensi: quella  della pelle che richiama il tocco, che desidera la carne, che chiama, chiede desidera e odia. Odia il suo stesso corpo: quel corpo necessario e detestato, trasformato in animale alato, piccolo e virtuoso che dalla gabbia vuol fuggire. E si contorce, batte l’ali al vetro in un disperato bisogno d’aria. Come l’ape a cui fa riferimento in una struggente e magnifica poesia che porta i tratti sfumati della poetica dickinsoniana e plathiana. 

Altro
dal canto misurato
in oro di gesti
altro indicibile e scarno
Nella sera
le parole sono pietre
la casa vuota grida
anime perdute e si contorce
Un’ape solitaria
ai vetri batte l’ali
e sugge vento.

La mente combatte a morsi, a graffi, a contorsioni, questo corpo di dolore che ingabbia, pervade e ingravida, senza però permettere che vinca sulla mente. 

È erotica quella forza che cresce – come scrive – «sulla pelle/ gonfia le piume / per voli di segreta tenerezza». 

Quella della poetessa è una sensualità elegante e feroce di «assennata verità» che vuole lottare, sfidando benedizioni:

io che non ho più rose a benedire
A macerare metterò le spine.

Una sensualità feroce perché si lascia abbagliare dal celeste infernale;  forse anche morire, come Ofelia (alla quale dedica l’omonima lirica) o come Virginia per tornare alle acque, a quel liquido amniotico dell’amore primigeno di Mater: in un letto fluido di memorie, per tornare a galleggiare. A sospendersi: essere levità.  

La stessa orgogliosa forza è presente già in apertura del testo quando, sotto la prima sezione “Spartenze”, la voce narrante si presenta dicendo:  «sono quella / che canta e ride/ si cuce gli occhi / e si punge le dita/»

Sono “quella”, cioè sono una come tante, che si punge le dita: perché? per distrazione dovuta alla mancanza di vista a causa degli  occhi cuciti o per volontà propria, di chi non vuol vedere. L’assenza di vista che torna nelle immagini ricorrenti del testo (abbagliare, camminare senza vedere, occhi in alto verso il cielo, pioggia di gesso, gli occhi stretti contro il riverbero del sole)  rivelano una necessità ma a mio parere anche una volontà. 

Quello stato di cecità può fare apparire ingenui e a volte induce a «camminare palpeggiando i muri verso una stagione sconosciuta» tuttavia senza maschere «maschere denudate in attesa di nuovi vestimenti» ; altre volte invece chiudere gli occhi  equivale semplicemente a guardare oltre, come accade ai virtuosi e ai poeti dotati di quel un terzo occhio che  permette loro di  parlare con quelli che lei chiama gli oracoli o le «presenze insospettate».

E si punge le dita, questo io lirico, mentre cuce. Ma cosa è quella punciuta? Un nuovo rito, una liturgia anche questa, che si fa quando si stringe un patto tra affini, affiliati, sorelle di sangue tra « sorelle che cantano e ballano» legandosi in segreto in un patto di sorellanza, come le Moire, che nell’atto di tessere e filare i destini, creano segreti linguaggi. 

 Tuttavia nel riavvolgere il nastro del tempo attraverso le immagini del passato, l’illusione – quella visione cioè  che richiama l’età dell’adolescenza e dei sogni – lascia spazio a una nuova prospettiva, senza edulcorazioni, senza felicità fittizie perché «la felicità è soglia che non si fa valicare». 

L’incanto si sostituisce al canto della verità che impedisce alla memoria di presentarsi come incantatrice:

Ora il tempo è un lungo serpente
Che non incanta.

Ci sono ombre,  penombre, stanze e specchi, in questa liturgia del giorno. Ma più di tutti a mio parere c’è una forza inarrestabile, un’eleganza feroce di resistenza che dal corpo della madre scorre nel corp  della figlia e si travasa in forme d’amore e di lotta, in legami di sangue che vanno oltre il tempo lo spazio e, oltre il corpo. I legami con le sorelle spirituali, quello con le sorelle – amiche. E quello con la misteriosa e fedele compagna che è la poesia.

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