Claudia Lanteri, autrice di uno dei romanzi rivelazione di questa stagione letteraria, “L’isola e il tempo” (ne abbiamo scritto qui), frequenta più spesso libri di autori italiani ma, pur non trascurando di indicarne alcuni, ne suggerisce sette di… autori stranieri. Con questi consigli di Claudia Lanteri (nella foto di Francesco Russo) torna la nostra rubrica più amata (qui tutte le puntate precedenti)
In genere leggo soprattutto testi in lingua italiana: mi serve quando sto cercando di scrivere qualcosa, e devo trovare il ritmo e la musicalità delle frasi, mi fa bene capire il contemporaneo letterario in cui sono immersa, per scovare parentele e somiglianze o definirmi per contrasto. In libreria mi è capitato di registrare, talvolta, un certo scetticismo, se non proprio un aperto pregiudizio nei confronti degli autori italiani. E invece di libri belli, sia tra le voci nuove che tra le conferme, negli ultimi anni in Italia ne sono usciti a volontà.
Vorrei ricordarne solo alcuni, perché alla narrativa italiana non sempre viene dato il giusto credito: Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol (Terrarossa) – per i suoi personaggi dalle movenze di burattini secchi per maneggiare il dolore; Rosi di Alessandra Carati (Mondadori) – un libro che affronta un fatto di cronaca arcinoto riorganizzandone le informazioni, dalle più divulgate alle più intime, con un effetto di ribaltamento e di pietà che raramente i true crime riescono ad avere; Il cognome delle donne di Aurora Tamigio (Feltrinelli) – per la sua magistrale capacità di rendere la narrazione di piccole vite sfarzosa e altissima, come un tappeto magico; Tutto finisce con me di Gabriele Esposito (Wojtek) – una fusione caustica tra Dissipatio H.G. e American Psycho che riaccende un faro sulle contraddizioni del capitalismo e del mercato del lavoro; La Mischia di Valentina Maini (Bollati Boringhieri) – perché è un libro bruciante, assoluto, immaginativo, originale nella forma, nella struttura e nei temi. Libri di anni diversi, perché le opere potenti non hanno data di scadenza, come le uova o i cartoni di panna vegetale.
In questi mesi nei quali sono stata assorbita quasi completamente dall’affetto di tantissimi librai e dalle esigenze di promozione del libro, non potendo scrivere molto, mi sono dedicata ad alcune delle molte opere di letteratura straniera che desideravo recuperare da tempo, o a qualche lettura libera, senza progetto.
Sono sette libri che concedono spazio all’immaginazione: la storia, la figura o il tema che mettono al centro ha sempre un primato sull’identità autoriale, e questo a me dice molto sulla necessità che anche in Italia possiamo riappropriarci del diritto all’immaginazione, per archiviare una stagione di scritture del sé di orizzonte talvolta angusto, in favore di opere di ampio respiro e che ambiscano a rimanere nel tempo.
Ecco quindi i miei suggerimenti di lettura per LuciaLibri:
“L’anno in cui parlammo con il mare” di Andrés Montero (Edicola Ediciones), traduzione di Giulia Zavagna
…ciò che è troppo in vista non ha affatto bisogno di noi e allora è più semplice tirare dritto per l’isola stessa, lei sa bene che a scuoterci sono, invece, quelle minime alterazioni che richiedono una seconda occhiata, un passo indietro, una placida verifica della differenza: tutti quei segnali che si rivelano di colpo e ci fanno capire, affascinati, che sono lì da diversi giorni, a volteggiare sulla nostra isola per farsi strada tra le crepe dell’uguale.
Libro sorprendente, a partire dalla scelta inconsueta della voce narrante – un ‘noi’ che incarna il punto di vista di tutti gli abitanti di una piccolissima isola, che ci restituisce, con delicatezza e sguardo leggero, la vicenda di due fratelli gemelli, Jerónimo e Julián, i quali, dopo cinquant’anni separati, hanno tanto da dirsi e da perdonarsi.
Un canto d’amore e di riconciliazione con le storie, il mare, i morti, i riti antichi, perfino i generi letterari.
“L’estate in cui mia madre ebbe gli occhi verdi” di Tatiana Tibuleac (Keller), traduzione di Ileana M. Pop
Parlò per quasi un’ora, come leggendo un libro, e non osai interromperla neanche una volta. Ero finalmente diventato il suo bambino, e lei era finalmente diventata madre. Quando arrivò alla fine del matrimonio e a quanto bella fosse la nonna a quei tempi, pur avendo quattro sorelle e nessun vestito nuovo, mia madre si addormentò. Le rimasi accanto immobile, diventai in breve tempo una pista internazionale per coccinelle.
Perché mia madre non aveva cominciato a morire prima?
Una storia che sfreccia come un razzo dall’odio all’adorazione: ovvero le due facce di un rapporto difficile come nessun altro, la relazione tra un figlio e una madre. La vicenda intreccia i temi dell’elaborazione della perdita e della malattia, con personaggi che in modo struggente devono farsi una ragione del distacco, esito ineluttabile di tutte le vite, ritrovandosi nella bellezza, nella natura, nella gioia di vivere nel corso dell’ ultima estate della madre, alternata al ricordo, a tratti ancora ardente e a tratti addomesticato del figlio, pittore e artista, che ritrova una sorta di equilibrio ricalcando anche con le future scelte di vita le orme di quella rara stagione per riappacificarsi.
“Atti umani” di Han Kang (Adelphi), traduzione di Milena Zemira Ciccimarra
Tornò in camera e si sdraiò, sforzandosi di tenere gli occhi chiusi; la rigidità del materasso, del pavimento ricoperto di carta, penetro nel suo corpo insinuandosi nei muscoli. Dalle spalle si diffuse verso il basso, lasciandola paralizzata, incapace perfino di gemere. Quando quella lenta infiltrazione si arrestò, lo spazio attorno a lei sembrò contrarsi, come se le pareti di cemento le si stringessero attorno su tutti i lati
Avevo letto qualche anno fa La vegetariana trovandolo molto respingente: la scrittura decisamente troppo asciutta, o forse la traduzione (dall’inglese e non dal coreano). Un amico scrittore a cui raccontavo di queste impressioni mi rimproverò il giudizio frettoloso, intimandomi di leggere Atti umani. Lo acquistai accettando il consiglio e lo misi nella “pila della vergogna”. L’ho ripreso in questi giorni alla notizia del Nobel. Ed aveva ragione l’amico: è un libro struggente, viscerale e lirico insieme, sofferto, bellissimo. Il racconto di un passato le cui dinamiche inquietanti minacciano il nostro presente. Rileggerò anche il primo, con fiducia, e tutti gli altri di questa narratrice del contemporaneo così unica.
“Amici di una vita” di Hisham Matar (Einaudi), traduzione di Anna Nadotti
Mi resi conto di averlo in qualche modo previsto, forse fin da quando, a quattordici anni, avevo sentito leggere il suo racconto alla radio per la prima volta, avevo previsto che lui sarebbe stato un tramite, che agli scrittori chiediamo ciò che si chiede agli amici più stretti: di aiutarci a mediare e a interpretare il mondo.
Un libro dal ritmo pacato e inesorabile, che corrisponde all’arco di una vita intera trascorsa in esilio dalla Libia. Mi è piaciuto perché intreccia episodi storici – dall’instaurazione del regime di Gheddafi alla primavera araba – con le vite immaginarie di tre personaggi radicalmente diversi tra loro, e che nonostante questo, o proprio per questo, si sostengono e si stanno accanto nella struggente mancanza di un paese da chiamare casa propria.
“Ottobre, Ottobre” di Katya Balen (Einaudi Ragazzi), traduzione di Lucia Feoli
Restiamo svegli accanto al fuoco fino a tardi, e quando il vecchio e malconcio orologio da polso di Papà indica l’ora della mia nascita, gridiamo la mia età al cielo. Danziamo intorno al fuoco e io torno a essere l’antica esploratrice vestita di pelli e pellicce. La luna danza insieme a noi e tutto appare bellissimo in modo spettrale. Papà guarda di nuovo l’orologio e urla: – Ottobre, Ottobre, hai undici anni e dieci secondi, undici secondi, dodici secondi, tredici secondi, quattordici secondi, – e mi chiedo se continuerà a farlo finché compirò dodici anni.
Ottobre vive in una foresta, non lontana da Londra, il padre le insegna a muoversi nella natura, a soccorrere un barbagianni e a risolvere le equazioni di primo grado. La donna che è sua madre non vive con lei: non sopportando più quello stile di vita antimoderno, è andata via lasciandosi indietro tanti rimpianti. Quando arriva il suo undicesimo compleanno il padre organizza un incontro, ma Ottobre la rifiuta e scappa su un albero: per inseguirla lassù tra i rami, il padre fa una brutta caduta e deve stare a lungo in ospedale.
Il libro racconta la storia di come questo rapporto di madre e figlia si ricompone, e nel frattempo si capiscono tante cose su che cos’è l’avventura, la solitudine, l’indipendenza e anche la capacità di sintonizzarsi sui bisogni di chi vive diversamente da noi queste cose. Dagli 11 anni, ma profondo fino ai 99.
“Stardust” di Hannah Arnesen (Orecchio Acerbo), traduzione di Laura Cangemi
O è cominciato tutto in piena luce?
Prima che ci fossimo noi,
prima che ci fossi tu,
c’era l’Universo.
Gli scienziati pensano che l’Universo
abbia poco meno di 14 miliardi di anni.
Non mi dice granché.
Ma quando descrivono l’evoluzione cosmica
come un prodigio che non possiamo immaginarci,
ecco che comincia.
Perché io voglio, voglio cercare di immaginarlo.Una stella deve per forza essere stata la prima
Com’è nato l’universo, questa cosa affascinante e misteriosa i cui elementi di base collegano ogni essere vivente mai esistito a qualche scintilla di stella proveniente da galassie lontane anni luce? E, nelle nostre mani avide e sciatte, quanto ancora durerà?
Questa inclassificabile opera prima, che unisce graphic novel, fiaba, scienza, filosofia e arte, è il frutto della curiosità per il mondo di una giovane donna nata nel 1992, e del suo desiderio di farci aprire gli occhi sull’importanza di preservarlo.
“L’invincibile estate di Liliana” di Cristina Rivera Garza (Sur), traduzione di Giulia Zavagna
Vivere in lutto è questo: non essere mai sola. Invisibile ma evidente in molti modi, la presenza dei morti ci accompagna nei minuscoli interstizi dei giorni. Da sopra spalla, nel timbro della voce, nell’eco di ogni passo. Sopra le finestre, sulla linea dell’orizzonte, fra le ombre degli alberi. Sono sempre là e sono sempre qui, con e dentro di noi, e fuori, ci avvolgono con il loro calore, ci proteggono dalle intemperie. Questo è il lavoro del lutto: riconoscere la loro presenza, dire sì alla loro presenza. Ci sono sempre altri occhi che vedono ciò che io vedo e immaginare quell’altra prospettiva, immaginare ciò che dei sensi non miei potrebbero apprezzare attraverso i miei sensi è, se ci pensiamo bene, una definizione puntuale dell’amore.
Il lutto è la fine della solitudine.
Occorrono trent’anni alla scrittrice messicana Cristina Rivera Garza per osare accostarsi alla materia incandescente della morte di sua sorella Liliana, vittima di femminicidio per mano di un uomo violento, fragile e incapace di accettare la fine della loro relazione. In un caleidoscopio – che ha la grazia dei Detective Selvaggi – di documenti, numeri di protocollo e testimonianze di chi l’ha amata in vita, la forza vitale di Liliana cresce con prepotenza pagina dopo pagina, e compone un elogio, un canto, un grido che neppure l’emergere graduale del pericolo mortale e dell’implacabilità del suo assassino riesce a fermare in una posa statica, o ridurre al silenzio. Meritatamente, premio Pulitzer 2024.
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