Intervista ad Emilia Pietropaolo, autrice del saggio “La (s)comparsa della madre”, che anche a partire da alcuni romanzi, indaga la maternità e i rapporti familiari. “La figura della madre – spiega l’autrice – in certi romanzi distopici è ridotto a funzione di ruolo di madre e sotto sorveglianza. E, nella realtà, non vedo un desiderio di maternità consapevole, l’idea di mettere al mondo un figlio e di diventare madre sono associate all’avere un ruolo ben preciso in società. In generale la genitorialità è migliorata, soprattutto le dinamiche di dialogo…”
La (s)comparsa della madre (64 pagine, 15 euro) di Emilia Pietropaolo è un saggio, pubblicato da Divergenze, che analizza la maternità dalla carne allo spirito. Dalle lotte di potere travestite da conquiste di libertà, a ciò che invero sono le conquiste autentiche delle donne, oggi ci si domanda quale sia il ruolo della madre e cosa spinge a diventarlo (a non volerlo essere): un’esigenza in virtù della tradizione, una volontà personale, oppure, diversamente a quel che si pensa, si sta via via assistendo alla sua scomparsa?
Emilia Pietropaolo, partendo dal titolo del tuo saggio che gioca sui verbi comparire/scomparire, secondo te si paventa l’ipotesi futura della sparizione della figura materna?
«È una bella domanda. Sono del parere che, sebbene si ricorra a metodi non tradizionali come il “Clean breeding”, ossia il sesso pulito, che viene menzionato (come) nel romanzo Parti e Omicidi di Murata Sayaka, cioè avere un figlio per mezzo della tecnologia, la figura della madre non penso che possa scomparire, o meglio, potrebbe “scomparire” l’idea della madre che dà luce un figlio tramite il rituale del parto, però, la figura stessa della madre non può scomparire, secondo me».
Al netto dell’interessante lavoro di ricerca che hai svolto, che futuro si prospetta, secondo te, per la genitorialità?
«Se penso alla genitorialità, la prima cosa che mi viene in mente, in senso letterario, vedo i padri, i detentori della Legge, dell’autorità, di questa figura da emulare. Oggi, invece è cambiata la figura della genitorialità come la figura del padre, che è diventato una figura presente nei figli. Per esempio, nel campo della letteratura, la figura del genitore imprescindibile e importante era il padre, pensiamoci, era lui a detenere Legge, la madre no, meno importante, si pensi all’Oreste assolto per aver ucciso sua madre Clitennestra. Oggi credo vivamente che la genitorialità sia cambiata e in meglio, non possiamo parlare di assenza di un genitore e presenza dell’altro. Sono cambiate, soprattutto le dinamiche di dialogo, c’è un interesse nell’intrecciare un rapporto fondato sulla comunicazione, cosa che prima non era contemplata».
Come nascono e per quali ragioni hai deciso di intraprendere queste ricerche?
«Devo ammettere che scrivere un “saggio” di questo tipo ce l’avevo in mente da molto, ma non sapevo come metterlo in pratica. Inoltre, provengo da una famiglia numerosa, mia nonna materna ha fatto dieci figli, quindi, prima e poi, avrei dovuto parlare della maternità, non sulla Mother Surrogacy, però. È stata una sera, sai, scorrendo le novità su Netflix, che mi sono resa conto che c’erano film e serie sulla maternità surrogata, e la cosa mi ha incuriosita, specialmente perché la figura della madre, insomma, della gestante, in seguito al parto, doveva scomparire e questo succedeva in tutti film/serie o finiva in situazioni peggiori. Insomma, mi sono chiesta se io Emilia, il coraggio di “scomparire” dopo il parto, dopo aver staccato da me, dal mio corpo, il bambino, e se per soldi, riuscissi a farlo. Ho letteralmente pensato alle donne che per denaro o per atto d’amore intraprendono questo percorso. Non si tratta di essere pro/contro questo nuovo modo di concepire la maternità, si tratta del fatto che c’è una scomparsa e una disparità di classe sociale. Sono i ricchi che chiedono e i poveri si sottomettono… non volevo trasmettere nulla con questo saggio, volevo solo far vedere come la figura della madre nei romanzi distopici sia ridotto a funzione di “ruolo” di “madre” e sotto sorveglianza sia dallo Stato che dai fattori interni come la famiglia, no?».
In buona parte dei romanzi di cui tu parli nel tuo saggio, le donne sono relegate a una condizione di infelice subalternità rispetto all’uomo e a chi detiene una forza biopolitica tale da decidere i contorni dell’essere donne oggi (penso alla attuale presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni che nell’ottobre del 2019 in piazza San Giovanni a Roma pronuncia con una certa veemenza “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana”); come mai secondo te c’è ancora oggi questa disparità di pensiero anche tra le donne?
«Come un flash mi è venuto in mente il Meme proprio su di lei, sulle parole usate dalla Meloni. Insomma, lei sostiene di essere donna, madre e cristiana, quello che mi preme sottolineare è che un uomo avrebbe detto le stesse identiche cose? Non credo, avrebbe sottolineato di essere uomo. In effetti tutti i romanzi che ho analizzato le donne sono ridotti a un ruolo ben definito, quello della madre, un ruolo ben preciso, vengono usate, strumentalizzate solo per uno scopo: dare figli. Sono romanzi distopici sì, ma fino a che punto? Insomma, ancora oggi le donne devono ancora lottare per autodeterminarsi, per riappropriarsi del proprio corpo, per dire e mettere in pratica: “il corpo è mio e decido io come gestirlo”, poiché ci sono ancora fattori determinanti e un sostrato culturale duro a morire, come la famiglia e la società, che guarda (non sembra ma è così) le donne come corpi adatti a un ruolo: la madre. Le donne che si oppongono a questo vengono viste “mostruose”, come una “Non donna” per dirla alla Atwood che, tra l’altro le Non Donne sono marchiate dal colore grigio. Oppure penso alle “Non-donne” della scrittrice svedese Ninni Holmqvist L’unità che scelgono di non fare figli ma che devono dare comunque il loro contributo alla società, donando organi».
Nei romanzi da te analizzati, per lo più distopici, mi piace pensare che lo siano, si proiettano angosce e timori reali e attuali, penso ad esempio a Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood in cui viene messo in scena dalla scrittrice una società in cui le donne sono tenute a svolgere «il proprio ruolo di fattrici». I corpi segnati da un inesorabile destino biologico, costrette a vere e proprie forme di schiavitù riproduttiva alle quali non possono sottrarsi, in un’intervista però la stessa Atwood ha affermato – contrariamente a quanto da me precedentemente sperato – “che nulla è pura invenzione”, tu che idea ti sei fatta?
«Al momento sono nella fase della rilettura del Racconto dell’ancella, poiché ho trovato delle analogie con un romanzo di una scrittrice slovena Berta Bojetu, Filio non è a casa, pubblicato dalla casa editrice Voland, non è noto come il romanzo di Margaret, anche se dovrebbe esserlo, dal momento che tratta tematiche interessanti come la violenza sessuale e la disparità di genere. In questo romanzo, per esempio, le donne non solo vivono una condizione di subalternità: vengono stuprate di notte senza conoscere i propri violentatori, mettono anche al mondo figli, figli vengono prelevati all’età di 7 anni (se maschi) dai padri. In merito a ciò che ha detto la Atwood nell’intervista, io sono dell’idea, che il suo romanzo per quanto possa essere distopico, non è così, lo stiamo vivendo: veniamo ancora considerate come donne capaci solo ad una cosa: fare figli. Se non fai figli, qual é il tuo ruolo? Siamo segnate dalla biologia e letteralmente. Bisogna cambiare, esserci una vera e propria “rieducazione” dello sguardo, sul corpo femminile. Una cosa non proprio facile da fare…»
Nel più ampio panorama della letteratura distopica un tema che si rintraccia con una certa frequenza è quello della fine dell’umanità, dobbiamo dunque pensare che le scelte autonome delle donne in materia di maternità debbano essere ostacolate in quanto espongono al rischio di estinzione? O la possibilità di innestare l’utero nel corpo maschile, di ottenere una paternità bionica è una alternativa a questa, chiamiamola così, minaccia?
«No, non penso che le scelte autonome delle donne in materia della maternità, debbano essere ostacolate, solo perché rischiamo l’estinzione, anzi, a dirla tutta, da quello che sto vedendo oggi, almeno quelli della mia generazione c’è proprio un ritorno al “culto della madre”, c’è questa voglia di fare figli, di fare, insomma, quello che una volta facevano le nostre nonne e madri, ma con una maggiore consapevolezza rispetto al passato. Però, c’è da dire che l’idea dell’utero artificiale che, tra l’altro è anche il titolo di un saggio di Henri Atlan, L’Uterus artificiel; per quanto possa sembrare una remota possibilità non lo è poi tanto, per esempio in Parti e Omicidi gli uomini provano il rituale del parto, non perché volessero provare la gioia della maternità, ma solo per commettere un omicidio. Io non penso, magari sbaglio, gli uomini vogliano provare le gioie del parto, si spaventano a sentir parlare delle mestruazioni, un tabù duro a morire… sicuramente però, l’idea dell’Utero Artificiale potrebbe permettere di raggiungere una vera e propria uguaglianza».
Potrebbe essere quella appena citata, l’ultima tappa di una cultura patriarcale: la chiusura del cerchio, o al contrario è l’alternativa a una uguaglianza totalizzante? Paternalismo?
«È un’ipotesi più probabile, che si accompagna alla preoccupazione di non lasciare, a livello individuale, un segno nel mondo. Sicuramente l’idea dell’innesto di un utero artificiale nell’uomo, potrebbe arrivare all’uguaglianza totale, ma ho delle riserve, poiché anche senza parlare di questo tema della maternità, la disparità di genere in situazioni lavorative, aggiungerei anche amorose, persiste ancora a tutta forza. In poche parole, finché esiste e persiste a tutta forza la cultura del patriarcato, non è possibile affrontare discussioni di questo tipo».
L’autrice Marras si dice convinta che la rappresentazione della maternità, nella letteratura distopica, oltre a disturbare la tradizione, desidera portare una critica radicale agli iniqui meccanismi sociali esistenti, e intenda assolvere “una funzione per certi versi dissacratoria da parte delle donne stesse nei riguardi della procreazione come vincolo (quasi) ineludibile”. Ancora oggi è, come tu scrivi, un incentivo strumentalizzato dal potere?
«Sì, non vedo un desiderio preso con consapevolezza, l’idea di mettere al mondo un figlio, più che altro è un più per far “vedere”, per inserirsi nella società. Diventando Madre s’inizia ad avere un ruolo ben preciso in società, sai qual è il tuo valore, sei una Donna, l’emblema della femminilità. La maternità viene strumentalizzata in tutti i modi, a partire dalla società, e con l’avvento delle tecnologie, e con la Maternità surrogata che, tra l’altro quando è uscito il saggio, è diventato “reato universale”, è diventato un desiderio, diciamo egoistico, creando difatti una disparità di classe, poiché la classe dominante che chiede accesso a questa pratica, come sostiene la Federici “una pratica a prevalenza bianca”.
Le nascite sembrano essere solo funzionali alle esigenze sociali, senza alcuna possibilità di autodeterminarsi in ragione dei desideri genitoriali, tanto che in molti romanzi citati nel tuo saggio, la procreazione deve essere svuotata dall’eros. Non è un caso, infatti, che il tema della procreazione e del controllo dei corpi intersechi quello, apparentemente lontano, del linguaggio. Accanto al tema dello sfruttamento riproduttivo, la questione del silenzio femminile sulla questione sembra infatti caratterizzarsi come una delle più urgenti. Tuttavia, in molte narrazioni distopiche alle donne è impedito l’uso della parola come mezzo di costruzione di sé. Le donne subiscono in silenzio, oggi le donne che parlano sono ascoltate secondo te? O c’è ancora un pregiudizio?
«Oggi quando vedo una donna incinta, penso: “ecco, ora faranno il baby shower”, già il nome stesso della pratica va a guardare l’idea della “spettacolarizzazione” di un bambino non ancora nato, e solo per far vedere alla società, che “io sto dando la vita”, e tu, cosa stai facendo? Si fanno bambini per un’esigenza sociale, non c’è più quella gioia dell’attesa, sembra quasi che stiano vivendo anche loro l’idillio della Mother Surrogacy, in un certo senso, con la differenza che loro non dovranno scomparire in seguito al parto. Inoltre, l’idea stessa della procreazione, del sesso per avere un figlio, è diventata una meccanicizzazione, insomma, non c’è l’idea di stare facendo un figlio facendo l’amore, anzi, come si è visto nei romanzi citati, si ricorre sempre di più all’idea del “sesso pulito”, no? Tuttavia, i figli si fanno ancora, non importa il modo, ma si fanno, a discapito della sovrappolazione, a discapito di quelle donne che invece non vogliono avere figli, donne che non vengono assolutamente ascoltate, anzi, s’insiste a dire: “eh, poi cambierai idea, vedrai… è la cosa più bella che tu possa fare”. Sin da bambine veniamo sottoposte a questa “tortura” psicologica, anziché dare priorità alle altre cose, come la carriera, veniamo racchiuse nell’era della Madre che si prende Cura della prole. Le donne vengono silenziate e in modi diversi, e la distopia, in questo aiuta, basta pensare al romanzo Vox di Christina Dalcher. Abbiamo parlato della Atwood, no? C’è una cosa che mi preme far notare: la narratrice è donna, lei sta chiedendo di venire ascoltata. Lo chiede, non lo pretende. Non pretendiamo di venire ascoltate, chiediamo, è diverso, come se volessimo, inconsciamente di “minimizzarci”, di non occupare troppo spazio, e questo in vari contesti».
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