Tove Ditlevsen, scrittura e analgesici della bambina perduta

È un libro imperdibile “Trilogia di Copenaghen” di Tove Ditlevsen, che comprende tre romanzi autobiografici della grande scrittrice, “Infanzia”, “Gioventù” e “Dipendenza”. Poetessa e romanziera, cresciuta in un quartiere operaio della capitale danese, Ditlevsen ha attraversato il Novecento fra successi professionali e dolori privati: il rapporto difficile con la madre, un’instabile vita sentimentale, la dipendenza da sostanze e alcolici, il disagio psichico. Tra disillusione e disincanto, la scrittura rappresentò l’unica certezza, fonte di riscatto, passione ed emancipazione

Tra le lodevoli riscoperte di questi ultimi anni e le saghe che la casa editrice Fazi ha proposto, è molto difficile non mettere al primo posto tre splendidi, acclamati, volumi di Tove Ditlevsen, a partire dal 2022 pubblicati singolarmente come Infanzia, Gioventù e Dipendenza, e proposti ora in un unico tomo imperdibile, La trilogia di Copenaghen (408 pagine, 20 euro), con traduzione di Alessandro Storti e prefazione di Claudia Durastanti. L’autrice, molto nota in patria, dove è fra le letture scolastiche, morì suicida nel 1976, ed è stata rilanciata curiosamente, soprattutto da certo marketing del mondo anglosassone, come scrittrice sulla scia di Elena Ferrante ed Annie Ernaux. Peccato che Tove Ditlevsen sia scomparsa prima che le altre due… pubblicassero. E questi suoi libri, specie i tre di successo editi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Settanta, capaci di stare in bilico fra interiorità e scenario sociale, sono semmai punti di riferimento, non hanno punti di riferimento.

Creatura fuori posto, in cerca di una dimensione

Classe 1917, bambina precoce, cresciuta in un quartiere di immigrati e operai della capitale danese, Tove Ditlevsen non è scrittrice da mode passeggere, e ora che il velo è stato squarciato sarà capace di resistere al tempo, di contribuire al rafforzamento del catalogo della casa editrice romana. In patria si impose fra gli anni Quaranta e i Cinquanta del Novecento, inizialmente come poetessa, alla distanza come romanziera da decine di titoli lungo una carriera ammirevole e fortunata, riconosciuta, che non coincise quasi mai con una vita privata stabile e appagante, sempre alla ricerca di serenità, ma invano, fra ripetuti divorzi, depressione, dipendenze da sostanze e alcolici, ricoveri in strutture psichiatriche, fino alla morte per overdose di sonniferi, cinquantottenne. Un’infelicità esistenziale che percorre i chiaroscuri, l’altalena di sentimenti e le pagine de La trilogia di Copenaghen, a cominciare dall’indicibile e lacerante dolore della protagonista di Infanzia, una bimba lucida e sensibile, che venera la madre Alfrida,«mani che sanno di bucato», bella, triste, imperscrutabile e dura, che mai riuscì a ricambiare il sentimento d’adorazione della figlia («il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante, e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io»); e che, assieme al marito Ditlev, scoraggiò qualsiasi embrionale velleità letteraria della piccola Tove Ditlevsen. Tra frasi malinconiche e asciutte, si ammira uno sguardo esatto, quasi impassibile, di sicuro privo di scossoni e di qualsiasi tono drammatico, stile che caratterizza l’andamento del primo e degli altri due capitoli della trilogia. Si nasconde la piccola protagonista, così diversa dalle scurrili coetanee, sveglia, matura e lucida, ma che preferisce mostrarsi insignificante, in certi casi stupida, per restare indistinta nella folla. La voce narrante è quella di una disincantata creatura fuori posto, di una giovanissima da sempre e per sempre in cerca di una dimensione e di una collocazione distante dal quartiere delle origini, desideri covati a lungo e infine realizzati, ma pagati anche a carissimo prezzo.

Educazione sentimentale e pubblicazione

Molto più turbinoso e, se possibile, ancora più cupo è il secondo capitolo della trilogia, Gioventù.

… la giovinezza è provvisoria, fragile, incostante. È fatta per lasciarsela alle spalle, non ha altro scopo che questo.

Senza smettere di sognare che le sue poesie un giorno vengano pubblicate (sogno che si realizza grazie a un maturo giornalista, Viggo F. Moller, di cui si innamorerà), la protagonista, che si muove ancora nella Copenaghen proletaria e popolare, inizia a lavorare, prova in qualche modo a emanciparsi dai familiari, a tagliare ponti con le sue origini (affitterà una stanza e la padrona di casa è una specie di invasata di Hitler) inizia ad avere una coscienza politica («sono ben informata sulle persecuzioni antisemite e sui campi di concentramento, cose che mi riempiono di angoscia») e un’educazione sentimentale, anche se raramente s’accende davvero per una storia, è piuttosto disillusa sulle relazioni umane. La sua vera passione continua a essere la scrittura, non ha certo i sogni “pratici” delle sue coetanee.

Quattro matrimoni e un farmaco

Quattro matrimoni in frantumi, da cui nasceranno due figli, due aborti senza pentimenti ma con conseguenze, e vicissitudini gonfie di alcol e droghe sono l’implacabile costante di Dipendenza, terza e ultima parte della Trilogia di Copenaghen. Tove Ditlevsen vive intensamente, troppo, brilla e si consuma, lotta e si fa del male. Finisce immersa nella Storia, vive il 5 maggio danese, il giorno della Liberazione dal giogo tedesco, ma non è davvero partecipe. E il tempo che segue è scandito sì dalla realizzazione del suo sogno, scrivere e pubblicare (pubblicare anche per mantenersi, molto prosaicamente), ma ancora di più dal disagio psichico, dal precipizio della dipendenza, che si materializza principalmente con il terzo matrimonio: sposa un medico, Carl Rydberg, ed è lui a iniziarla a un analgesico che la terrà legata a doppio filo, non solo al marito; inizierà a fare di tutto per procurarsi il farmaco. E la disintossicazione le salverà il corpo ma non l’anima, non dissiperà i fantasmi di una vita, la voglia di vivere che scema implacabilmente. Di Tove Ditlevsen resterà questo romanzo di una bambina perduta, aggrappata alla poesia, ma pur sempre perduta.

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