Un diario di viaggio da una bizzarra spedizione è “Passeggiata sull’Himalaya” di Jamaica Kincaid, la cui attenzione quasi da entomologa per fiori e piante è paragonabile a quella di Nabokov per le farfalle. Un libro apparentemente diverso nella sua produzione ma in cui la scrittura è da sempre un riannodare i fili con il passato…
Cosa ci fa una scrittrice di ormai consolidata fama internazionale alle pendici dell’Himalaya alla ricerca di semi di fiori e piante? La risposta più semplice potrebbe essere: un libro. Dall’esperienza di quel viaggio del 2002 della scrittrice antiguana Jamaica Kincaid è infatti è scaturito una Passeggiata sull’Himalaya (211 pagine, 14 euro, traduzione di Franca Cavagnoli), l’ultimo titolo pubblicato da Adelphi, nel cui catalogo si trovano presso di noi tutte le altre opere di colei che al secolo è Elaine Cynthia Potter Richardson, nata nel 1949 nell’isola caraibica di Antigua e Barbuda, già protettorato britannico, la quale ha cambiato il suo nome in quello che appare su tutte le copertine dei suoi libri, in quanto la sua famiglia disapprovava il fatto che scrivesse. Una scrittrice che ha fatto della memoria, dell’autobiografismo, della ricostruzione del suo passato familiare, con una particolare attenzione al rapporto con la madre che pervade tutta la sua opera, e dei guasti del colonialismo, i tratti distintivi e temi ricorrenti e fondanti dei suoi scritti.
Il viaggio, un ‘esplorazione della psiche
Opera apparentemente diversa questa rispetto al canone della scrittrice ora di cittadinanza statunitense e residente nell’estremo nordest del paese a stelle e strisce, con lo sfondo di quelle tranquillizzanti colline piatte del Vermont dirà l’autrice nel raffronto con le vette himalayane che fanno da cornice a questo volume.
La differenziazione rispetto agli altri suoi scritti in questo caso è sostanzialmente di forma, in quanto per Passeggiata sull’Himalaya si tratta di un vero e proprio diario di viaggio, un memoir sulla scia dei grandi narratori che hanno fatto del racconto del loro girovagare la principale modalità espressiva (ne potremmo citare tantissimi), ma una differenza che per contenuti può essere considerata solo apparente rispetto alla sua modalità di scrittura, perché proprio la memoria, sia del viaggio compiuto, e quindi la sua cronaca del quale in fondo il libro ne è la testimonianza, si lega a uno sfondo più strettamente autoriflessivo che non manca di indagare l’esplorazione della psiche che è caratteristico di tutta la scrittura di Jamaica Kincaid; riflessioni, temi ancestrali e archetipici ma che mai rinunciano a un’attenzione particolare ai fattori storico sociali come anche in questo bellissimo resoconto di un’avventura ai piedi delle cime più alte del mondo alla ricerca di semi. Andarsene a spasso sulle pendici dell’Himalaya deve necessariamente avere un qualche recondito significato e Jamaica Kincaid prova a spiegarcelo:
Amo il mio giardino e questo mio amore mi aveva portato qui, a camminare tra le colline pedemontane dei monti più alti della terra in cerca di piante fiorite, non endemiche della parte del mondo in cui mi dedico al giardinaggio, ma che sarebbero cresciute rigogliose nel mio giardino.
Ossessione per il giardino
Il suo amore per il giardinaggio è significativamente e esplicitamente dichiarato nell’apertura dell’introduzione a questo suo diario di viaggio, quasi a voler dire: di questo si tratta, di questo si parla, più del viaggio in sé, che pure mostra tutto il suo fascino:
La mia ossessione per il giardino e quanto vi accade è cominciata prima che avessi familiarità con quell’entità chiamata coscienza.
Una predisposizione quasi prenatale, endemica, con la quale Jamaica Kincaid si è confrontata fin da bambina quando la lettura della Bibbia, l’unico libro le cui pagine poteva sfogliare senza essere sorvegliata, l’ha messa di fronte inevitabilmente alla Genesi e all’esplorazione di quel primo giardino, l’Eden, la cui rimozione dovuta alla caduta e alla cacciata archetipica sembra dirci sia la causa del nostro successivo tentativo di ritorno a uno stato incontaminato, forse quello dell’infanzia, e in ogni caso a quel luogo dal quale proveniamo:
Il luogo in cui anche le imperfezioni erano perfette e ogni cosa venuta dopo ha messo fine al Paradiso, il tuo Paradiso” scrive la Kincaid, aggiungendo: “Chi si dedica al giardinaggio lo fa con l’Eden sempre in mente. È il giardino dal quale tutti traiamo ispirazione, che lo si sappia o no.
Ciò che siamo stati, ciò che siamo
Tali presupposti teorici trovano espressione anche in questo “diverso” libro di Jamaica Kincaid, per la quale la scrittura è da sempre un riannodare i fili con il passato, riflettere sul suo rapporto con la scrittura e più in generale con la vita. Se Autobiografia di mia madre (Adelphi 2020) come del resto anche il precedente Annie John (Adelphi 2017) sono la rappresentazione più compiuta riguardo al suo rapporto con la figura materna, nel primo caso un’autobiografia impossibile visto che nella finzione romanzesca la madre morirà nel parto che dà alla luce la voce narrante, Mr. Potter (Adelphi 2005) lo è riguardo a quella paterna, e in diverso modo lo sono Un posto piccolo (Adelphi 2000) che narra della vita nella natia Antigua violentata dalle dinamiche predatorie del turismo e dagli effetti devastanti della globalizzazione o come in Lucy (Adelphi 2008) nel quale al ricordo dell’infanzia sull’isola di nascita si lega la nostalgia della separazione con il conseguente approdo su un’altra isola, Manhattan. Da ricordare che Jamaica Kincaid a 16 anni si trasferirà a New York per lavorare come ragazza alla pari, città nella quale inizierà il suo apprendistato letterario, lavorando tra l’altro alla redazione di Forbes e al New Yorker. Vedi adesso allora (Adelphi 2013) è il titolo più che esemplificativo riguardo la caratteristica scrittura di Jamaica Kincaid per la quale ogni suo libro costituisce un tassello al componimento della sua autobiografia che implica sempre uno sdoppiamento tra ciò che siamo stati e ciò che siamo.
All’ombra di montagne nascoste
Nel caso di Passeggiata sull’Himalaya, ciò avviene con uno scarto temporale più breve, si potrebbe dire quasi in presa diretta, come si conviene a un resoconto letterario di viaggio. Il libro pubblicato nel 2005 è il risultato di quello effettuato nel 2002 dall’autrice in compagnia dell’amico botanico Daniel J. Hinckley, il quale è anche l’autore di alcune foto dell’esperienza che appaiono all’interno del volume Adelphi e di una coppia di botanici del Galles. Le scaturigini in realtà c’erano state due anni prima, nel 2000, quando alla Kincaid fu chiesto di scrivere un piccolo libro su un luogo del mondo nel quale si sarebbe dovuta recare per fare qualcosa che le piaceva e lei pensò a un viaggio alla ricerca di semi nella Cina sud-occidentale, dove nella realtà era già stata con lo stesso fine due anni prima. Varie vicissitudini la porteranno invece in Nepal, alle pendici dei monti più alti della terra, con lo stesso scopo: raccogliere semi di fiori e piante per il suo giardino nel Vermont.
Ai lunghi preparativi per il viaggio, perché per una “passeggiata” sopra i 3000 metri serve un equipaggiamento e attrezzatura adeguata, si sussegue la cronaca dei luoghi attraversati, delle persone incontrate sul cammino, dei timori, le fatiche e degli esiti della ricerca che a tratti sembra far virare il racconto a un vero e proprio trattato di botanica tale è la passione per il giardinaggio dei componenti della spedizione, con un’attenzione quasi da entomologa dell’autrice per fiori e piante, assimilabile a quella di Nabokov per le farfalle. Il contesto paesaggistico da fiaba, con sullo sfondo la presenza delle vette più alte della terra, il Kangchenjunga, il Makalu e ancor più in lontananza l’Everest accresce il sublime fascino del viaggio:
Perché quelle magnifiche e leggendarie pietre miliari del paesaggio himalayano erano senza dubbio tutte lì, ma restarono per lo più nascoste ai miei occhi per tutto il tempo in cui furono in vista.
Spaesamento e inquietudine
Un senso di spaesamento soprattutto se il viaggio si svolge in luoghi estremi e destinazioni geograficamente, morfologicamente e culturalmente diverse da quelle delle nostre latitudini. Confessa a posteriori l’autrice:
Quando rividi ciò che era familiare, ogni cosa era ormai cambiata ai miei occhi, e nel contempo rimasta come era sempre stata, solo che io non vedevo più niente nello stesso modo.
Sensazioni che possono emergere all’improvviso in una notte nella quale l’autrice non riesce a dormire e esce dalla tenda da campo:
Tutti dormivano, tutto era quiete, e una volta di più rimasi colpita da quanto fossi lontana da ciò che mi era veramente familiare, ma non desideravo nulla: mi sentivo completamente smarrita e questa sensazione ne portò un’altra – una sensazione di felicità.
Un’esperienza che in altre occasioni assume tratti inquietanti come nel caso dell’approcciarsi a un fiume impetuoso che lei e la sua compagnia di viaggio devono attraversare:
Vedere tanta forza in quel punto con il fiume largo sei metri circa e non so quanto profondo, con una struttura di bambù come ponte, è tra le cose più inquietanti che abbia visto in vita mia. Tutte le altre cose più inquietanti che ho visto in vita mia sono successe non lontano da lì.
La stessa inquietudine che può dare la minaccia dei pipistrelli che volteggiano sopra le teste del gruppo durante le sere in accampamento, o quella delle sanguisughe che sembrano essere una delle presenze inestirpabili nei territori percorsi e quella costante dei maoisti che si oppongono al governo riconosciuto del Nepal e mai indulgenti verso chi proviene dagli Stati Uniti, il cui presidente li considera dei terroristi. L’incontro con questi in un villaggio da loro controllato suggerisce all’autrice alcuni spunti di riflessione sulla giustizia umana:
Avevano ragione, pensavo in particolare, la vita di per sé era perfettamente giusta, le ingiustizie le avevano create le persone.
Tra sherpa ribelli e inevitabile malinconia
L’imponente cornice naturale che fa da sfondo alla narrazione non mette in secondo piano le presenze umane che sono il corollario di questa per alcuni versi bizzarra spedizione. Oltre ai quattro titolari della spedizione stessa vi sono gli sherpa, le guide nepalesi arruolate per la stessa, un termine utilizzato comunemente per designare le guide nelle spedizioni himalayane, dimenticando che lo stesso termine designa una specifica etnia del Nepal, i portatori che seguono o precedono i componenti della spedizione con il loro carico di bagagli e i quali intraprendono sul finale del viaggio una sorta di ribellione nei confronti dei ricchi occidentali che li hanno arruolati e pagati per il loro faticoso compito.
Inevitabile è anche la malinconia che sopraggiunge verso la fine di un viaggio che è qualcosa al di fuori dal comune, e il saperla trasmettere in chi legge è una dote che solo una grande scrittrice può riuscire a fare, in un’esperienza in sé fuori dagli standard, quale quella del percorrere migliaia di chilometri e svariati fusi orari lasciando il figlio adolescente solo a casa per raccogliere dei semi, solo per una passeggiata del resto, anche se in realtà è una scalata in quelle “colline himalayane”, così vengono definite, anche se sono rilievi di oltre 3000 metri di altitudine, ma tutto è relativo e questo lo si capisce se raffrontate queste alture che l’autrice e la sua compagnia percorrono in confronto agli oltre 8000 metri delle più alte vette himalayane. Lo confesserà solo tra le righe, quasi a mezza voce Jamaica Kincaid che avrebbe fatto quel viaggio anche senza l’intenzione di raccogliere semi per il suo giardino, forse questo solo un espediente per parlare di molte altre cose, del proprio rapporto con la scrittura e allo stesso tempo interrogandosi sul senso stesso di quel viaggio e su sé stessa:
«Che ci facevo io in un mondo in cui il re e i maoisti erano in un conflitto mortale?» e ancora «Ogni tanto smarrivo il senso di chi ero, di cosa pensavo di essere, di cosa sapevo essere il mio vero io».
Confessioni e domande di una narratrice di razza che ti fa innamorare al primo libro che leggi e ti fa venire voglia di leggerne tutti gli altri.
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