L’esistenza vana, il Cesare Pavese più autobiografico

Nuova edizione per un racconto cruciale di Cesare Pavese che lo rivela come uomo ancor prima che come scrittore. Ne “La famiglia”, che precede il romanzo “La casa in collina”, il protagonista cerca la solitudine ma la rifugge al tempo stesso; ed è sempre in bilico nell’impegno familiare e in quello civile. Come l’aveva raccontato una certa Natalia Ginzburg

La famiglia (88 pagine, 16 euro) di Cesare Pavese – che torna nell’edizione Divergenze, con la cura di Marta Mariani – è uno dei racconti più celebri dello scrittore, sicuramente perché è quello che più richiama elementi importanti dell’autobiografia di Pavese, elementi riconducibili soprattutto a tendenze e inclinazioni della sua persona più che del vissuto in sé. Inoltre è un racconto importante perché funge da specie di rotta per il più articolato romanzo La casa in collina, dove la triade “Corradino, Caterina e Dino” si dipana in maggiore forza contenutistica ed espressiva, mentre nel racconto è pressapoco impiantata.

Un apparente controsenso

Corradino è un uomo molto schivo e ripiegato su sé stesso, ama e ricerca la solitudine e al tempo stesso la rifugge. La sua è una lotta controversa, perché il suo bisogno di isolamento si scontra con una questione particolare, quella legata all’intreccio tra l’individuo e la famiglia. E questa questione ne solleva un’altra di tipo morale: cioè se sia bene e giusto che un individuo si isoli, considerando che esiste un concetto tradizionalista come quello della famiglia in cui più individui a sé si predispongono alla formazione di un nucleo, quello familiare appunto.
Questo è il fulcro della disputa interna di Corradino, espressa bene in un passaggio del racconto in cui le sue “smanie di tranquillità” sono equiparate e si identificano nel “desiderio che gli accadesse qualcosa, che la sua vita cambiasse ma senza spostargli una sola abitudine”. In apparenza un vero controsenso: un cambiamento di vita o di abitudine è sempre accompagnato da un dissesto almeno iniziale, e uno squilibrio (seppur temporaneo) non è certo sinonimo di “tranquillità”.

Il personaggio di Corradino rievoca per i succitati aspetti le parole con cui Natalìa Ginzburg aveva descritto Cesare Pavese nel suo libro Le piccole virtù, in uno spazio dedicato all’amico: «Veniva, a volte, nelle nostre case, e scrutava con cipiglio aggrottato e bonario i figli che ci nascevano, le famiglie che noi ci si costruiva: pensava anche lui a farsi una famiglia, ma ci pensava in un modo che si faceva, con gli anni, sempre più complicato e tortuoso; così tortuoso, che non ne poteva germogliare nessuna semplice conclusione. Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante».

Tra impegno e disimpegno

Corradino vuole ricevere l’amore delle donne, lo brama e se ne lusinga, eppure si fa ritroso non appena intravede la prospettiva di una relazione stabile, la quale potrebbe sottrarlo alla sua realtà autoriferita.
L’oscillazione tra l’impegno e il disimpegno forma una dicotomia essenziale per comprendere la crisi di Corradino, che trova il suo apice nella rivelazione di Cate riguardo la paternità di Corradino: Dino, il figlio di Cate, potrebbe essere suo figlio. Qui inizia a tormentarsi e a crucciarsi in merito a questa situazione specifica, se assumere su di sé la responsabilità di essere padre oppure no, con valutazioni e repentine riconsiderazioni che generavano idee discordanti tra loro. Si sentiva bene all’idea che Cate lo sollevasse dal suo ruolo, ma allo stesso tempo il fatto che suo figlio fosse «finito in mani altrui […] m’indignava come indignano un furto o una truffa patita».

È interessante che da vari passaggi del racconto emerga la nostalgia di Corradino per i tempi passati, ovvero i tempi di gioventù, e non è solo una sua sensazione personale perché viene avvertita anche dagli estranei, e guarda caso proprio dalle donne, le quali «ancora adesso a trent’anni gli chiedevano se non era studente». Anche qui, Natalìa Ginzburg, sempre in Le piccole virtù, diceva così: «Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così. Le sue giornate erano, come quelle degli adolescenti, lunghissime, e piene di tempo: sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare sulle strade che amava. […] Era, qualche volta, molto triste: ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito da quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo, la malinconia voluttuosa e svagata del ragazzo che ancora non ha toccato la terra e si muove nel mondo arido e solitario dei sogni».

Un altro parallelo

Inoltre un’altra cosa molto interessante è che la reticenza di Corradino all’agire, dopo aver appreso l’esistenza di questa sua pseudo-famiglia “Corradino, Cate e Dino”, si confà alla ritrosia che aveva Cesare Pavese nel prendere parte alla Resistenza, i cui anni lui visse pienamente, assistendo pure alla perdita di alcuni amici come Leone Ginzburg, e alla confisca della casa editrice Einaudi (dove lui lavorava) per mano della Repubblica di Salò.
È come se queste due differenti situazioni che vedono il mancato agire da parte di Corradino in un caso e di Pavese nell’altro, si sovrapponessero l’una sull’altra in una fusione simbiotica: impegno familiare e impegno civile.
In un passaggio del racconto Corradino dice: «Pensati che gli diano uno scossone e un calcio in faccia e la vita gli imponga ‘Su, deciditi’, e lui farà infallibilmente come ha sempre fatto in passato, scapperà se vigliacco, resisterà se coraggioso. Sembra una stupidaggine, ma non è. Anche perché non si tratta solo di scappare o di resistere; le cose sono più complicate. Si tratta di capire, di pesare, di valutare: è questione di gusti, e i gusti com’è noto non cambiano. Chi ha paura del buio, avrà paura del buio».
Lo scrittore e critico Emanuele Trevi (qui una sua intervista), intervenendo a proposito di questa attitudine di Pavese in relazione alla guerra di quegli anni, dice così: «Un uomo che è amico di tutti i partigiani e non fa il partigiano. Basta questo per capire il suo dramma. Io credo che Pavese non sia sopravvissuto a quel dramma». Interessante questa analisi di Trevi per cercare di capire i motivi che spingevano Cesare Pavese a credere e a convincersi della vanità della sua esistenza, al di là dei fallimenti amorosi vissuti in vita e che pure lo segnarono.

La famiglia è un racconto da leggere per chi ama gli scritti dell’autore, perché è funzionale alla comprensione sia di Cesare Pavese come scrittore, sia, e soprattutto, di Pavese come uomo.

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