Non c’è più niente di serio dell’umorismo ebraico. Ce lo ricorda “Città che ride” di Temim Fruchter, un libro felicemente insolito, un arazzo di salti temporali, silenzi e risate, all’insegna della famiglia, della queerness e dell’amore. La storia di quattro generazioni di donne è in qualche modo ricostruita dalla trentenne Shiva che lascia gli Usa per fare ricerche in Polonia, a Ropshitz, lo shtetl in cui tutto ebbe inizio. Un’altra puntata della nostra rubrica Area 22 (qui tutte le puntate precedenti), dedicata alla letteratura e alla cultura ebraica…
Una grande famiglia matriarcale, una storia che fa ridere e piangere, arguta, lirica, indimenticabile, che abbaglia. L’ennesimo tuffo nelle acque profonde della cultura ebraica. L’America che politicamente delude ed è capace solo di appiccare il fuoco della nostra ira, sul piano letterario gioca ancora un ruolo importante e fa venire a galla voci nuove, non omologate, debuttanti capaci di architetture complesse, che si nutrono di significati profondi. È il caso di Temim Fruchter, autrice queer di Città che ride (452 pagine, 20 euro), una delle chicche del catalogo delle edizioni Mercurio, tradotto da Gabriella Tonoli. Dopo The book of love di Kelly Link (ne abbiamo scritto qui) un’altra splendida scelta, al di là dei generi e di quello che necessariamente va di moda, di questa nuova vivace sigla editoriale da seguire e sostenere da lettori.
Segreti e radici
Mira, Syl, Hannah e Shiva sono le donne rappresentative di quattro generazioni misteriose di una famiglia ebraica d’America, con le radici in Polonia, nello shtetl di Ropshitz, la città che ride del titolo, un luogo conosciuto dai più, nel mondo yiddish, per un noto giullare, un famoso badchanim, che partecipava da protagonista ai matrimoni ebraici. Cresciuta in una famiglia ebrea religiosa, “golosa” di fiabe tradizionali della tradizione yiddish fin da bambina, grande lettrice di Isaac B. Singer e della sorella Esther Kreitman (in proposito un articolo qui), Temim Fruchter ha seguito i propri desideri, ricordi e interessi per intrecciare storie bizzarre, anche in salsa queer. La trentenne Shiva Margolin, alle prese con la morte del padre Jon, a cui era legatissima, e con una robusta dose di incomunicabilità nella relazione con la madre Hannah, che nulla vuole svelare, in particolare del suo passato e delle sue antenate, Syl e Mira, rispettivamente madre e nonna di Hannah, e nonna e bisnonna di Shiva. Quest’ultima, abbandonata dalla sua ragazza, non avvezza alla resa, intenzionata a spezzare quel silenzio e a conoscere il proprio passato, frequenta il corso di Studi Ebraici all’università, e ottiene una borsa di studio per un viaggio di ricerche a Varsavia, ovvero non lontano dal luogo dove tutto ebbe inizio, lo shtetl di Ropshitz. Si allontana da New York, dove vive un’impasse totale, e non si limita a viaggiare solo nello spazio, ma di fatto nel tempo, in qualche modo andando a caccia di fantasmi. Mettendosi, in particolare, sulle tracce della bisnonna, Mira Wollman Zvigler, che col marito Isaac si era trasferita dalla Polonia al New Jersey negli anni Venti del ventesimo secolo. Scoprendo qualcosa che metterà in discussione non solo la sua stessa vita, ma l’ultimo centinaio d’anni della sua famiglia, non solo la sua identità personale ma quella delle donne che l’hanno preceduta.
Occhi verdi e genere sessuale indefinito…
Una lettura da godere fino in fondo e che non va rovinata in alcun modo. Di più meglio non aggiungere, sulle dinamiche della storia, se non alcune osservazioni. Le storie ascoltate da bambina, i racconti popolari, le superstizioni, le tradizioni e il folklore yiddish (nel romanzo Shiva si occupa dell’esperto di folklore Shalom An-ski, collegandolo esplicitamente a Esther Kreitman), con le innumerevoli creature e con i fenomeni soprannaturali del caso, sono la placenta viva in cui questo romanzo cresce parallelamente in numero di pagine, ritmo, abile costruzione narrativa. È una goduria di realtà e immaginazione, questo volume, una giostra via via più affascinante, come un misterioso individuo, dagli occhi verdi e dal genere sessuale indefinito, che entra nelle vite di Shiva e Hannah, come già ha fatto con Syl e Mira. Famiglia (con scontri generazionali), queerness, osservanza delle regole, desiderio e amore (oltre a qualche domanda senza risposta) sono i caposaldi di un libro felicemente insolito, un arazzo di salti temporali, l’esplorazione di silenzi e risate. E, si sa, non c’è niente di più serio dell’umorismo ebraico…