Ribelle Reinaldo Arenas, omoerotismo contro la Cuba di Castro

Autobiografia di uno scrittore e metafora della storia cubana è il quintetto di romanzi di Reinaldo Arenas, inviso al regime castrista perché omosessuale, censurato, torturato, infine fuggito negli Stati Uniti. Nelle pagine strazianti e oniriche del secondo romanzo della pentagonia, “Il palazzo delle bianchissime moffette”, alle vicende collettive del tramonto della dittatura di Batista s’intrecciano quelle della vocazione letteraria e rivoluzionaria di un adolescente di famiglia contadina. Un’opera in cui erotismo e omosessualità sono intesi come atti di ribellione e libertà contro le ipocrisie di ogni forma di autoritarismo

Ma la vita non può essere tollerata quando la abitano soltanto cose inventate, irreali. La vita ha bisogno d’avventura, di diversità. Lo scontro fra corpi, correre attraverso luoghi veri, visitare altri inferni. Ecco una delle cose necessarie, imprescindibili, perché abbiano senso tutte le invenzioni…

Fate così. Procuratevi in ogni modo legale Il palazzo delle bianchissime moffette (404 pagine, 20 euro), magari recuperate anche il precedente capitolo Celestino prima dell’alba (ne abbiamo scritto qui), e poi, finite queste due letture, restate sospesi e in paziente attesa che Mar dei Sargassi, coraggiosa casa editrice con sede a Portici (Napoli), e Alessio Arena, cantautore, scrittore, ma soprattutto, in questo caso, traduttore, completino l’opera e regalino ai lettori italiani la pentagonia completa di Reinaldo Arenas, autore immaginifico che, come ogni bravo scrittore cubano che si rispetti, era inviso al regime castrista e, dopo più di un tentativo, riuscì a fuggire dall’Isola nel 1980: negli States, nonostante il riconoscimento internazionale, visse isolato e in condizioni precarie. Sarebbe morto suicida negli Stati Uniti, nel 1990, qualche anno dopo aver contratto l’Aids; in un biglietto lasciato agli amici scriveva: «Non vi arrendete, ma continuate a lottare. Cuba sarà libera, io lo sono già». Lontano dall’isola natia, aveva apertamente attaccato colleghi vicini al regime di Castro, come Gabriel García Márquez e Alejo Carpentier, considerati complici, e aveva messo nel mirino anche il capitalismo statunitense, giudicato anch’esso un sistema oppressivo. Dissidente, censurato e torturato, Reinaldo Arenas è stato un testimone della persecuzione e della repressione.

Libertà d’espressione e immaginazione

Al cinema, nella trasposizione del suo libro autobiografico Prima che sia notte, lo interpretò Javier Bardem. Reinaldo Arenas è l’incarnazione della Cuba letteraria da amare. Quella di José Lezama Lima (qui l’articolo), quella di Guillermo Cabrera Infante (che sintetizzò l’idea di letteratura di Arenas così: «non come gioco ma come fuoco che consuma»), Virgilio Piñera Llera – che di Arenas fu mentore – quella di Pedro Juan Gutiérrez. Poco tradotto (qualche anno fa Guanda ha pubblicato un paio di titoli), e non nell’ambito di un progetto di vario respiro, Reinaldo Arenas è uno scrittore che riflette costantemente su temi quali la libertà, la sessualità, l’identità, un autore cruciale che merita di trovare spazio a casa dei lettori affamati di libri bellissimi. Il suo quintetto di romanzi, per dichiarazione d’intenti dell’autore, è sia l’autobiografia di uno scrittore che una metafora della storia cubana, un trionfo della libertà di espressione e dell’immaginazione, evoluzione e innovazione di certi romanzi documentali cubani, il cui più fedele interprete è un altro gran cubano, Miguel Barnet, a cui Reinaldo Arenas si contrapponeva decisamente sul piano estetico e letterario; di lui recentemente Quodlibet ha ripubblicato Cimarrón. Biografia di uno schiavo fuggiasco, in precedenza nel catalogo Einaudi.

Da bimbo ad adolescente, dalla campagna alla città

Il liquido tiepido cadeva a terra, andava via con l’acqua, si perdeva nello scarico. E poi un’altra sensazione di abbandono, di frustrazione, di stanchezza, di fastidio cominciava a intorpidirgli le ossa, impedendogli quasi di camminare… Ma se solo tu potessi, se solo tu potessi… E qualcosa cominciava a cadere dal cielo. Qualcosa come la dimensione impalpabile di un imbroglio smisurato, asfissiante, preciso, arrivava e spingeva sulla sua gola, gli entrava nello stomaco. Sensazioni, sensazioni. Ancora quelle terribili sensazioni. Non il viaggio nei luoghi sognati, di sicuro inesistenti, ma la certezza che non ci sarebbe stato mai.

Dietro l’avventurosa esistenza di Arenas – di famiglia contadina, autodidatta che incise le prime poesie sui tronchi d’alberi, omosessuale dichiarato, quindicenne sostenitore della rivoluzione dei “barbudos”, che lo bollarono come controrivoluzionario e socialmente pericoloso, per i suoi gusti sessuali; spesso braccato dalla polizia, finì anche in prigione e ai lavori forzati – c’è una vasta produzione narrativa, saggistica e poetica; nella sua opera hanno un considerevole peso specifico l’erotismo e l’omosessualità, intesi come atti di ribellione e libertà contro le ipocrisie di ogni forma di autoritarismo. L’auspicio è che l’operazione che sta portando avanti la casa editrice Mar dei Sargassi diventi virtuosa come quella che, grazie a Kent Haruf (autore molto diverso da Arenas), lanciò l’editore NN di Eugenia Dubini (qui un suo articolo). Inviso al regime, Reinaldo Arenas aveva già iniziato a pubblicare all’estero e la prima edizione de Il palazzo delle bianchissime moffette, scritto nella seconda metà degli anni Sessanta, apparve in Francia. A differenza del precedente capitolo, cioè di Celestino prima dell’alba, un romanzo alla Faulkner, in cui un nonno abbatte minuziosamente ogni albero su cui il nipote bambino scrive una poesia, questo secondo è un po’ meno fantasmagorico, non si svolge in una indefinita campagna senza tempo e fuori dalla storia, è evidentemente ambientato a Cuba, nella città di Holguín, in una regione dell’est dell’Isola, alla fine degli anni Cinquanta, gli ultimi della dittatura di Fulgencio Batista. Il narratore bimbo del primo volume, Fortunato, in questo sequel è diventato un adolescente. Vanno di pari passo la sua formazione poetica e l’evoluzione storica del suo Paese, con particolare attenzione ai perseguitati e agli emarginati, e certo non alla propaganda.

Tempo non lineare, divagazioni, molte verità non una

A volte gli veniva questa cosa di mangiare lucertole, è vero. A volte gli veniva di fare il vino, di chiudersi in bagno e fare solo smorfie, di mettersi sotto il letto e masturbarsi sette volte di seguito, di salire sul tetto e bruciacchiarsi al sole, di addestrare lumache, di procurarsi una bicicletta. È vero. Ma tutte quelle idee, tutte quelle ossessioni, quelle manie, come dicevano loro, erano solo bisogni transitori, desideri passeggeri, che servivano soltanto a contenere, momentaneamente, il grande bisogno, il grande desiderio.

Com’è la prosa de Il palazzo delle bianchissime moffette? Il fascino di questo bel volume (sponsorizzato in quarta di copertina da Monica Acito e Vanni Santoni) deriva da una lingua che è un magma esplosivo che trasuda sensualità, da pagine su pagine strazianti e oniriche, dall’assenza di una linearità temporale, dalle divagazioni poetiche che s’innestano sulla prosa, dall’ambiguità preferita alla chiarezza, della polifonia delle voci multiple dei suoi narratori protagonisti, che passano con disinvoltura dalla prima alla terza persona, prospettive contrastanti che esplorano molte verità, non una sola, dall’atteggiamento beffardo contro qualsiasi regime.

Dopo le cose sono diventate così insopportabili che abbiamo dovuto dimenticare, lo volessimo o no, il nostro inferno personale, e trasferirci, obbligatoriamente, all’inferno di tutti.

Rabbia, miseria, dolore riempiono centinaia di pagine. Ci sono un giovane contadino e la sua vocazione letteraria: Fortunato scrive sulla carta da imballaggio. C’è una coscienza politica che germoglia: il giovane protagonista decide di unirsi ai ribelli, anche se il risvolto sarà a dir poco grottesco. La storia individuale, quella familiare – fatta di desolazione, brutalità e miseria – e quella collettiva si intersecano. E tornano, ciclicamente, come il protagonista che muore in ogni opera della pentagonia per poi risorgere nella successiva.

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