Un capolavoro, un coltello che fruga nel petto è “Rosa e mortale” di Francisco Umbral, libro in forma di diario su una tragedia familiare, la morte per leucemia del figlio di sei anni. Testo radicale, di dolente lirismo, che va affrontato con coscienza e coraggio…
No, la tua morte, figlio, non ha oscurato il mondo. Solo è stato uno spegnersi di luce nella luce. E noi qui, assordati di tragedia, feriti di bianco, mortalmente vivi, sempre dicendoti.
Ben prima del dolore di un presidente americano per la scomparsa prematura di Willie, il figlio prediletto di undici anni, che George Saunders racconta nel romanzo Lincoln nel Bardo (Feltrinelli). Prima di Caduto fuori dal tempo (Mondadori), in cui David Grossman rievoca il figlio Uri, perduto in guerra. Prima di Tutti i bambini tranne uno (Fandango) di Philippe Forest (ne abbiamo scritto qui), libro che sega l’anima in due. E di altri che qui non si ricordano. Lo spagnolo Francisco Umbral è scomparso da quasi vent’anni, ma in Italia è un autore in gran parte da scoprire e questa è certamente una notizia che deve rallegrare chi ama leggere libri che sono coltelli che frugano in petto. Chi s’era deliziato leggendo La notte che arrivai al Café Gijón (qui l’articolo) dovrà affrontare con altro spirito un libro che resta centrale nella sua produzione, nato da una tragedia familiare.
Il suono delle frasi
Negli anni Settanta Francisco Umbral – controverso innovatore in Spagna, amato e odiato – stava scrivendo un inno alla paternità, sotto forma di diario; la morte del figlioletto di sei anni non interruppe la stesura di Rosa e mortale (244 pagine, 25 euro), adesso riproposto da Medhelan, già apparso in Italia alla fine degli anni Novanta grazie a Jaca Book; volume profondo, lirico, radicale, sofferto, cambiò però direzione rispetto a quella iniziale.
Così tante volte, al ritorno dalla festa triste, con io bambino issato, tra le braccia, pesante di sonno, tra le persone sfaccendate, per treni, autobus, tram, sterati, rincasando, portando contro il petto il fagotto della sua stanchezza, come all’andata, nell’allegria delle prime ore, avevo portato il fascio delle sue risate e delle sue luci, che mi sfuggivano da tutte le parti. Come invecchia un bambino in un giorno di festa. Come gli marcisce una domenica.
Queste poche righe di pagina 100 danno conto del dolente lirismo con cui è scritto Rosa e mortale, che potrebbe apparire come un corpo estraneo nella sua proficua e prolifica opera. La scrittura di Francisco Umbral – tutt’altro che popolare fra i colleghi spagnoli – sprizza sempre disincanto, metafore e virtuosismi, assonanze e neologismi, ma stavolta è un’altra storia, scrive una lunga lettera al figlio che non potrà mai leggerla. Nella postfazione la traduttrice Claudia Marseguerra riflette sul privilegio di tornare, quasi trent’anni, dopo a lavorare sullo stesso testo che aveva contribuito a far pubblicare nell’edizione Jaca Book, e sulla necessità di restituire sulla pagina la sinfonia della prosa dello scrittore iberico, la costruzione sonora di molte frasi, il loro ritmo metrico: una sfida niente male. Nella prefazione di un ispanista come Marco Ottaino (docente di letteratura spagnola all’Orientale di Napoli, autore della prima monografia sull’autore madrileno) non si esita a definire questo libro dalla «natura ibrida, aperta e innovativa» come il capolavoro che consegna Umbral «alla storia della letteratura europea del secondo Novecento», un testo radicale, scritto frase dopo frase, senza una precisa programmazione, un work in progress che si trovò a fare i conti con la malattia che condusse alla morte il giovane figlio, mai chiamato per nome, e attraverso la cui infanzia l’autore in qualche modo scopre la propria.
Le scie che lascia la morte
Rosa e mortale di Francisco Umbral, probabilmente, va affrontato con coscienza e coraggio. Non è una lettura per chiunque, o per qualunque stagione della vita, è un rischio. S’intuisce presto cosa accadrà al bimbo colpito da leucemia, anche se l’autore prova a raccontare prima di tutto il suo giovanissimo universo, la sua infanzia. Poi c’è molto spazio per la paura e per il dolore, le scie che lascia la morte del figlio, il senso d’impotenza senza via d’uscita, di disperazione senza speranza («la cosa più desolante è che neppure nella morte ci incontreremo»), ma anche la volontà di non farsi sopraffare dall’autocommiserazione.
… ricordo cose che non vale la pena di ricordare, e mi sorprendo a volte a fare progetti letterari, di lavoro, di trionfo, che io stesso ho già ampiamente superato. È l’inerzia della lotta.
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