“Crudele è la notte” di Jonvalli e Filistrucchi è un romanzo che guarda l’abisso e non si lascia chiudere: come se Manchette e Scerbanenco si fossero dati appuntamento nella Madrid franchista, tra fumo, coltelli e ombre lunghe. Tra apparizioni della Madonna e un serial killer di bambini, ma i delitti sono pretesti, dietro c’è molto di più…
Che malattia è questa per cui la vita di chi sta fuori dai propri interessi conta meno di niente?
Crudele è la notte (400 pagine, 22 euro) di Giovanni Jonvalli e Mirco Filistrucchi è un noir storico che non si accontenta di raccontare un’indagine o una notte storta: scava nella notte lunga di una Spagna piegata, ferma, imbalsamata sotto il peso della dittatura franchista come un insetto in una resina nera.
La Madrid franchista, in cui si srotola la trama del romanzo, non è quella oleografica da cartolina in seppia, ma un ventre urbano dove si mescolano informatori, preti con troppe preghiere in tasca, falangisti, delatori e una borghesia che si è venduta il cuore per un po’ di silenzio. Il periodo storico non fa solo da sfondo: è un protagonista silenzioso, un muro contro cui i personaggi si sbucciano le idee, la morale, e talvolta anche la pelle.
Ogni gerarchia per essere mantenuta, richiedeva un costante esercizio di potere, una prepotenza tanto più sottile quanto più alto il grado.
Una notte politica, culturale, umana
Crudele è la notte non si legge, si attraversa. È una discesa senza mappa nei recessi dell’animo umano, dove la parola non è solo veicolo narrativo, ma oggetto sacro, trappola semiotica, specchio stregato.
Il noir qui non è solo un genere, è un linguaggio. E come ogni lingua vera, sa essere volgare, poetica, brutale, e persino tenera dove meno te lo aspetti.
Crudele è la notte, pubblicato da Sem, non si limita a raccontare un’epoca o un crimine: è un’esplorazione dentro una notte che è politica, culturale, e soprattutto umana. Una notte che, a tratti, assomiglia fin troppo alla nostra.
I personaggi non sono semplicemente ben scritti: sono vivi, contraddittori, lirici e disperati. Portano addosso ferite che odorano di rinunce e di ricordi e camminano con quella goffa solidità di chi ha conosciuto troppi inverni. C’è una grazia malinconica nei loro difetti, un’eleganza decadente che ricorda certi ritratti di Egon Schiele, tutta ossa e anima.
L’ispettore e il professore
A dominare la scena è Florentino Abedes Montero; ispettore con un senso della giustizia così radicato da non poter chiudere gli occhi di fronte agli orrori del regime. Rispetta le regole, ma non è disposto a tradire la verità. A rubargli il sonno e la quiete è un misterioso serial killer di bambini, accuratamente sepolto sotto referti e incartamenti falsificati e insabbiamenti accuratamente dimenticati dal regime.
Nella Spagna cattolica Dio stesso ha fatto prevalere l’ordine sul caos e non c’è posto per nessun assassino, tantomeno di bambini. Sono stato chiaro ispettore Abedes?
E poi c’è il professor Camilo Blanco Pujol, un uomo che non si piega, nemmeno quando tutto gli viene tolto. La sua narcolessia – un limite invalicabile – diventa paradossalmente il suo dono: nei sogni, trova la chiave per svelare la verità. Lui è l’uomo dei sogni, figura liminale, messaggero dell’inconscio, prestigiatore di simboli. La sua presenza porta il lettore su un piano diverso, non più narrativo ma esistenziale. È lui a mostrarci che ogni frase è una soglia, che ogni parola – se ben scelta – è una chiave capace di aprire porte che non sapevamo nemmeno esistessero.
Credo che per il professore la possibilità di contribuire a fare del bene sia l’unica cosa che rende tollerabile la sua patologia e la sua emarginazione
Il serial killer sintomo, la realtà mostro
Dimenticate l’investigatore tutto d’un pezzo, le indagini procedurali, la morale granitica. Qui i protagonisti barcollano, inciampano su se stessi prima ancora che sugli indizi. Sono anime crepate, personaggi che si aggirano nel buio di una Madrid più onirica che storica, più simbolica che geografica. Ogni gesto è carico di ambiguità, ogni parola è un enigma. Crudele è la notte non racconta una storia, ma un passaggio alchemico: dalla superficie alla sostanza, dal detto al non detto.
Insieme, i due indagatori si addentrano in un enigma che si intreccia con misteriose apparizioni della Madonna e con le ferite ancora aperte della Guerra Civile.
Qui l’indagine è un alibi. Il delitto? Solo un pretesto. Perché il vero enigma non è il colpevole, ma il Male. Non quello da cronaca, ma quello che si insinua nei gesti quotidiani, nella polvere che si accumula sugli oggetti, nelle parole mai pronunciate.
Il male qui non ha cause. Non ha scuse. È un’increspatura cosmica, un errore di sistema in un mondo che finge di essere ordinato. Il serial killer è solo il sintomo: il vero mostro è la realtà che fingiamo di conoscere. Il delitto, qui, è quasi un atto poetico, una grammatica disturbante che riscrive le regole del noir.
“Non c’è bisogno di un perché, tutto è perfetto, sempre. La perfezione è inevitabile.”
La tensione non molla mai la presa
La scrittura è cesellata, ogni frase sembra uscita da un laboratorio di distillazione verbale. L’inchiostro è sangue e la pagina diventa carne viva. Borges sorride da dietro la tenda, mentre i lettori attenti – edonisti e disillusi – trovano in queste pagine non solo una storia, ma un’esperienza, una vertigine, una vera emozione estetica. Una prosa nerissima, lirica, che sa essere colta ma mai pedante, intensa ma non compiaciuta. Una lingua che sa accarezzare, che si fa corpo e visione, come un film girato da Godard con la fotografia di un noir anni ’40.
Il duo autorale, Jonvalli e Filistrucchi, ci riporta con piacere ai grandi sodalizi letterari e il paragone che viene naturale è quello con una coppia letteraria d’altri tempi: Jean-Patrick Manchette e Giorgio Scerbanenco.
Dal primo, Jonvalli e Filistrucchi sembrano ereditare l’occhio freddo e profondo, la rabbia lucida, l’amore per i personaggi che si muovono in un mondo ostile e strutturalmente sbagliato. Dal secondo, prendono la capacità tutta italiana di annusare il dolore dentro le persone comuni, nei gesti piccoli, nei silenzi che gridano più degli spari, nei tormenti degli incubi. Ma il loro stile è tutt’altro che derivativo: è una lama affilata, con frasi che sembrano sognate e non scritte, personaggi che camminano sempre al limite, e una tensione che non molla mai la presa.
Crudele è la nottepubblicato da Sem, , è un libro che non si lascia chiudere. Non ha risposte, non ha pace. Solo domande e una lingua che pulsa, come un cuore sepolto sotto la città. Non è un romanzo disperato. È un romanzo che guarda l’abisso, sì, ma con l’onestà di chi sa che il fondo non è l’ultima parola.
Ecco perché questo romanzo resta. Perché non rincorre il tempo, lo sfida. Non si accontenta di raccontare, vuole trasformare. E ci riesce.
Un’opera che non si dimentica. Non perché urla, ma perché sussurra. Con la voce roca di chi ha visto troppo e ha ancora il coraggio di raccontarlo.
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