Da oggi è in libreria il nuovo romanzo di Domenico Conoscenti, “Manomissione”, pubblicato dalle edizioni Il ramo e la foglia. Lo scrittore palermitano – già autore di “La stanza dei lumini rossi”, “Quando mi apparve amore”, “Qui nessuno dice niente”, “I neoplatonici di Luigi Settembrini” e “Intimo paradiso” – torna con una storia ambientata in un Paese guidato da un governo di ispirazione clericale, che si avvia verso politiche autoritarie. C’è l’indagine su un assassinio e, sullo sfondo, le violenze compiute dalle forze dell’ordine nel corso di una manifestazione. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore proponiamo un estratto dal secondo capitolo: l’intervento iniziale della voce in prima persona, che integra la trascrizione dell’interrogatorio di apertura.
Cap. 2° – La scena del delitto
Potrebbe essere iniziato tutto nel mezzo di una tempesta solare, o di una bufera da fine del mondo, con i boati a ripetizione dei tuoni e il reticolo sempre nuovo dei fulmini che disturbano le trasmissioni in corso fino a interromperle di colpo. E un sibilo lunghissimo, distorto e perforante, simile a quello che i tecnici chiamano “effetto Larsen”.
Quel fischio deve essermi riecheggiato nella scatola cranica fino a quando il sonno, dopo smagliature ricucite sempre peggio, si è lacerato in maniera irreparabile per abbandonarmi alle onde di una nuova trasmissione, quella che viene intesa dai più come “realtà”. Sbarro gli occhi. Avverto qualcosa di anomalo mentre sto per girarmi controvoglia sul fianco. Balzo a sedere sul letto. Qualcosa di strano c’è in effetti. Di orribile. Accanto a me è disteso qualcuno che non è Gabriele. E ha la gola squarciata. Sul display giallo della radiosveglia risplende in viola 03:56.
Meno male che non è Gabriele. Mi sento un po’ coglione ad avere questo come primo pensiero. Il secondo è più pertinente: e ora? Prendo tempo e penso che potrei non essere del tutto sveglio. O risentire ancora dell’effetto dei bicchieri bevuti appena qualche ora fa con lui. Deve essere tutto effetto dell’alcool o del sonno. Deve esserlo. Per forza. La bocca allappata resta però inspiegabile, con le parole che faticano a staccarsi l’una dall’altra. E poi la testa che mi rintrona e mi duole a fitte ondulatorie. Mi passo la mano fra i capelli, il dolore si espande, come al tocco di un diapason, da un bernoccolo quanto una noce della California. E il tipo è sempre lì, sempre con la gola squarciata e i pantaloni abbassati alle caviglie, sempre in una conca di sangue. Il dolore alla testa più reale di com’è non potrebbe essere. Pure il morto deve essere reale. Non riesco a stargli vicino. Un conto è leggere di cartilagini pendule e lacerti, schizzi e secreti organici e occhi vitrei… un conto averci a che fare di persona, a distanza ravvicinata. Se mi concentro sulla faccia imbrattata, giusto fino al mento per vedere se scatta qualche connessione, in effetti qualcosa si smuove. Mi viene da vomitare, un bolo ingombrante e tossico risale dalle viscere e dalla memoria.
Ecco, è questa la scena del delitto. E io ne faccio parte. C’era questo tizio nello stesso letto con me, mentre io giacevo stonato per la botta che qualche stronzo, magari proprio lui, mi aveva assestato per bene sul cranio. E Gabriele? Sparito dopo la gradevole serata… È stato lui a scannarlo? Mi ero portato a casa uno psicopatico? No, Gabriele assassino, no. Se ne sarà andato prima che avvenisse lo sgozzamento. O si sono sbarazzati di lui? Qualunque sia stato il suo ruolo, voglio pensarlo vivo. Meglio vivo e in qualsiasi altro luogo che al posto del tipo qui accanto. Un casino.
È solo l’inizio. Dunque, vediamo… Polizia, devo chiamare la polizia. Mi si strozza l’esofago al solo pensiero. Polizia, sì… no… Sì. Così ci vado di mezzo io, sicuro, sono qui, la soluzione a portata di mano: hanno scopato e poi l’ha ammazzato, magari perché l’altro pretendeva più soldi o voleva fare il maschio solo lui, il caso è chiuso. Che devo fare? Avvolgerlo in un tappeto, caricarmelo in macchina e gettarlo davanti alla residenza di Militia Dei? Segarlo a pezzi, insaccarlo e conferirlo nel cassonetto dei rifiuti? La polizia, non mi resta altro. Non è cosa mia fare il duro made in USA.
Elenco telefonico. Le mani mi tremano. A parte il resto, devo superare quel disgusto troppo vivo, tutto attorcigliato alle mie budella da oltre un anno, ma questa sarebbe un’altra storia. Dunque il telefono. Inserisco sei volte l’indice nel disco rotante. Squilli. Sento la mia voce impastata dire: “Pronto? ecco, devo fare una denuncia… sì, mi chiamo Leonardo Lascari, poco f…” un attimo le passo la Sezione Competente risponde la voce da videogioco. Daccapo squilli, daccapo la mia tiritera, daccapo dopo una manciata di sillabe un attimo le passo il Responsabile di turno… Alla fine riesco addirittura a dire: “sì, c’è un morto qui, a casa mia, ammazzato… non lo conosco… non mi muovo, ho capito, non tocco niente, certo… poggio la cornetta sul tasto per chiudere”.
Passo davanti al soggiorno. Sobbalzo. Il televisore si è acceso da solo. Dono del Cancelliere a tutte le case degli elettori, il sensore incorporato che capta i movimenti lo ha avviato in automatico. Tolgo la spina: Sutharsan, al solito suo… Sono più agitato che mai. Lo schifo, il panico sono tutti nel tremore delle mie mani e nel cuore che continua a scagliarsi furioso contro la gabbia toracica. Resto in piedi. In attesa. Non ero sicuro prima e meno che mai lo sono adesso di avere fatto la cosa giusta. E i conati di vomito me lo confermano. Ma tanto oramai… Attendere prego. Faccio segmenti spezzati di una decina di passi nella stanza, mi fermo, ricomincio. Chiamare un amico, certo, lo farò, ma non ora, metterlo in mezzo a che servirebbe? Prima di tutto l’impatto col sistema poliziesco. Come per gli esami, come per gli addii, come per certe visite mediche, prima è, meglio è. Prove che vanno affrontate da soli. Poi, gli amici, forse, ti potranno aiutare ad assorbire il colpo o a capire, se c’è qualcosa da capire. Attendere prego. Vado in cucina a farmi un caffè. Ma il corpo sanguinolento sul letto e quella testa quasi staccata dal collo mi seguono, indelebili sulla rètina. Del ghiaccio sulla noce della California. Le mani continuano a tremare, il cuore a sbatacchiare contro le costole, pensieri inconsueti si arrestano dietro le labbra, spezzoni di immagini mi si affacciano al cervello. Non voglio dire quali. Ho paura che ogni mio pensiero venga registrato, che la realtà possa scostarsi da un momento all’altro come un tendone, mostrando i tecnici coi microfoni, le apparecchiature, e dietro, nell’ombra, qualcuno alla consolle. Intanto, attendere prego. Riprendo i segmenti spezzati, con la mano che tiene sulla testa i cubetti di ghiaccio avvolti nel fazzoletto. Dovrò spiegare che sono frocio, ma tanto, figurati se non lo sanno… Mi preoccupa molto di più il pensiero che non sarà facile fargli capire che io non c’entro niente con quello squarcio grumoso e tutto quel sangue sul mio materasso. Pure io al posto loro avrei i miei dubbi, ma è così. È così e basta.
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