Nothomb, malinconie dei ricordi e inadeguatezze del presente

Una permanenza di una decina di giorni in Giappone, in compagnia di un’amica fotografa. Ne “L’impossibile ritorno” Amélie Nothomb fa i conti col proprio passato, con la morte del padre, con un Paese che ama ma che non riesce a trattenerla…

Papà, qual è il nostro problema? E perché me l’hai trasmesso? Coa dovrei farne di queste emozioni insidiose? Se almeno sapessi quanto tempo durerà questa sofferenza!

Amélie l’incantatrice, l’infaticabile narratrice, tessitrice di storie, personaggi, atmosfere e pensieri. C’è ancora la Nothomb sulla strada dei lettori che la aspettano e di quelli che, a nugoli, puntualmente la scoprono e non la lasciano più. Fa i conti con la morte del padre, con la necessità di elaborarne il lutto. E c’è ancora il Giappone sulla sua strada e nel suo destino. Lì dove la scrittrice belga, classe 1967, ha trascorso l’infanzia proprio a causa degli spostamenti del padre diplomatico, e dove è tornata a vivere da adulta.

Ho abitato a Tokyo dai ventuno ai ventitré anni. Ci ho vissuto avvenimenti fondamentali come la prima relazione amorosa importante e la prima esperienza professionale. Due libri dimostrano come mi abbiano segnata quegli anni della giovinezza. E non sono solo ricordi affidati alla scrittura, sono ricordi con cui faccio i conti quotidianamente.

Amore e titubanze

L’ultimo ritorno in Giappone di Amelie Nothomb (che a un certo punto sostiene anche di apprezzare molto Banana Yoshimoto, e legge Controcorrente, superclassico di Huysmans, noto anche come A ritroso…) è una specie di viaggio a due con Pep Beni, amica fotografa, e un a tu per tu col padre Patrick, per nove anni ambasciatore nel Paese del Sol Levante, che la figlia non fa fatica a identificare con Tokyo. Ed è quello che racconta – alla sua maniera e con qualche piccolo inevitabile manierismo – ne L’impossibile ritorno (106 pagine, 17 euro) per Voland, suo trentatreesimo romanzo, tradotto da Federica Di Lella, che completa un’ideale trilogia iniziata con Stupore e tremori e Né di Eva né di Adamo. È un racconto di amore e titubanze, di sentimenti ambivalenti per il Giappone, tra malinconie della memoria e inadeguatezze del presente. Sente la mancanza di quella terra geograficamente così lontana, ma non riuscirebbe davvero a lasciarsi andare per viverci. Ne è attratta e respinta

L’ironia non solo nella lingua…

In questo breve e compatto romanzo, dall’affascinante e repentino epilogo, Amélie Nothomb racconta una permanenza di una decina di giorni in terra nipponica, tra ossessioni, ricordi, riflessioni e… cibo. È complessivamente una ricerca d’amore, dall’esito indefinito o, meglio, impossibile, come da titolo. Un viaggio nel passato, con cui è possibile in qualche modo riconciliarsi, ma non continuare a raffrontarsi e ad affrontare quotidianamente. Come sempre lo stile è inconfondibile, la scrittura è chirurgica e ironica, e l’ironia scaturisce oltre che dalla lingua, anche dal personaggio scanzonato di Pep Beni, complementare alla nostalgica Amélie, che riflette intorno a un’identità, la sua, nascosta da una nebulosa, e alla «convinzione implacabile del mio nulla». Un titolo perfetto sia per chi colleziona i volumi della scrittrice di culto che per chi ancora non l’ha scoperta.

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