La relazione malata e disturbante di una ragazzina – spudorata, immorale e anafettiva – con uno zio paterno è al centro di “Elizabeth” di Ken Greenhall, dalla scrittura raffinata e incisiva. I dubbi alimentano il romanzo, fiaba gotica apparentemente non originale ma che cela una riflessione acuta sulla relatività fra bene e male
Perturbante: questo deve essere l’imperativo che negli ultimi tempi ha guidato Adelphi nella riscoperta di titoli e autori dimenticati o del tutto inediti nel panorama italiano.
Tra libri che esplorano gli anfratti allucinati della mente umana come Io? di Peter Flamm (ne abbiamo scritto qui) e altri che sfociano in un universo più fantascientifico e orrorifico come Attraverso la notte di William Sloane (ne abbiamo scritto qui), Elizabeth (173 pagine, 18 euro) di Ken Greenhall, tradotto da Monica Pareschi, si pone a metà strada, unendo due emisferi – realtà e finzione – e dando vita, come da sottotitolo, ad un “romanzo dell’innaturale”.
Effettivamente ciò che accade a questa ragazzina è innaturale sotto ogni punto di vista benché lei stessa, attraverso una narrazione in prima persona, cerchi in ogni modo di far percepire al lettore di avere il pieno controllo su ogni situazione. E qualcuno deve averlo pur convinto, tanto da creare un malinteso sulla pertinenza del termine “Lolita gotica” che Adelphi utilizza per presentarci Elizabeth.
L’impasse sorge nel momento in cui sappiamo per certo che Lolita è una vittima mentre diamo per scontato che Elizabeth non lo sia.
Ma possiamo essere veramente sicuri di questo?
Andiamo per ordine e cerchiamo di definire questo ambiguo personaggio e la sua storia.
Retrospettive
Elizabeth è una ragazzina che a quattordici anni ha già due forti convinzioni: quella di sentirsi una donna a tutti gli effetti e quella di essere una strega. La prima deriva dalla consapevolezza di una femminilità forgiatasi in seguito alle attenzioni dello zio paterno che la rende oggetto dei suoi desideri, sfociando in una relazione malata e disturbante.
I poteri stregoneschi che pensa di possedere provengono, invece, da un retaggio familiare: Elizabeth vuole accogliere la magia ed usarla a proprio vantaggio, aiutata da Frances, prima discendente della sua stirpe di streghe, che le appare nel riflesso degli specchi.
Dopo la morte misteriosa dei suoi genitori, alla quale reagisce con distacco e freddezza, Elizabeth va a vivere a casa dello zio con la sua famiglia. Qui porterà avanti la sua iniziazione tra oscuri accadimenti, cerchi magici, gatti, rospi, ciocche di capelli e amuleti, i classici ingredienti archetipici che daranno l’impressione di leggere una fiaba gotica neanche poi così tanto originale.
Ma ad un occhio più attento non sfuggirà che Ken Greenhall nasconde tra le righe di una storia di finzione, una retrospettiva umana e reale che spalanca un varco sulla relatività tra bene e male.
Credo di essere una persona che ispira amore. Non so bene perché, visto che io amore non ne ho mai dato né cercato. Ma non lo rifiuto quando mi viene offerto da chi finge di capirlo e di averne bisogno. Forse l’amore è il male. Certo un numero spropositato di atrocità è stato compiuto sotto il suo influsso.
Siamo nei pensieri di Elizabeth che ha così il vantaggio di mostrare ciò che vuole farci credere. Si delineerà perciò un’antieroina spudorata, astuta, calcolatrice, immorale e tendenzialmente anaffettiva. Per lei i confini del bene e del male non sono netti anzi spesso alcune cose esulano da ogni classificazione. Qualunque azione è giustificata se mossa solo dal desiderio di ottenere un beneficio a prescindere dalla possibilità di recare danno ad altri. Non ama e non odia perché i sentimenti comuni sono indice di debolezza o di intenti moralistici ordinari. Bisogna agire sempre sotto un impulso ragionato.
Ci convince di avere la freddezza per riuscire a gestire e persino condurre anche il rapporto con lo zio, approfittandosi di quell'”amore” malato per manovrarlo a suo piacimento.
Vittima o manipolatrice
Potremmo giustificarci col fatto che la narrazione sia affidata alla protagonista, se tendiamo a lasciarci condurre dalle sue parole e fidarci del suo giudizio. Ma non dobbiamo e non possiamo dare per scontato che ciò che ci viene raccontato sia vero.
Proprio come Lolita, Elizabeth vive degli abusi e poco cambia se quest’ultima tenti di restituirci un’immagine consapevole e compartecipe. Sono entrambe delle vittime.
Elizabeth è in realtà la classica narratrice inaffidabile, proprio come Merricat la protagonista di Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson (scritto circa 14 anni prima e con il quale ci sono significative congruenze stilistiche anche nell’incipit, forse un suggerimento intenzionale dell’autore?).
Ostinatamente chiusa nelle sue convinzioni, va in protezione di se stessa rifugiandosi nell’immaginazione e in un mondo parallelo per non doversi confrontare con l’atrocità di ciò che le accade. La dissociazione dalla realtà è simboleggiata anche dallo specchio in cui non vede riflessa se stessa (se non in rare occasioni, quelle in cui si sente debole e persa) ma un’altra, un’alleata capace di indurle forza, l’unica di cui si fida e per la quale prova affetto.
Probabilmente stava pensando che non capivo l’amore che provava per me. Non era così: pensavo semplicemente che non ci fosse niente di ammirevole in quell’amore. Il suo amore era distruttivo per me come avrebbe potuto esserlo l’odio di un altro.
Il potere dell’ambiguità
Ma se non vogliamo credere nelle streghe, dobbiamo comunque riconoscere che un incantesimo ai danni del lettore è stato fatto: Greenhall infatti ci inganna magicamente e costruisce tutta la narrazione con questo unico e beffardo scopo. Impersonando la protagonista con l’immagine della strega – fredda, sicura, misteriosa – sembra delineare a tutti gli effetti una carnefice più che una vittima.
Ma lo perdoniamo perché scrive benissimo, è raffinato e incisivo, ci suggestiona con le sue contraddizioni ma ci strappa anche un sorriso quando lancia delle stoccate impietose e sardoniche all’interno di un contesto serio e compìto.
Elizabeth è l’emblema dell’ambiguità, la massima espressione di sintesi e compiutezza in perfetto equilibrio tra le contraddizioni della morale. Bene e male, amore e potere, razionalità e immaginazione, forza umana e forza ultraterrena: questi incastri sono giostrati all’interno di un contesto eclettico privo di metafore ma pregno di simboli da decodificare.
Il dubbio si infiltra sempre ed è l’unica solida impalcatura sulla quale si costruisce tutto il romanzo.
Cosa ci spinge a credere nella forza dell’amore e non in quella ultraterrena?
Siamo sicuri che l’amore non possa nuocere più dell’odio o di un incantesimo malvagio?
A quanto pare, tutte le parti in causa preferivano credere in azioni illecite ma spiegabili in termini convenzionali, anziché in qualcosa di soprannaturale. Piuttosto che una strega, preferivano avere un assassino in famiglia.
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