Antonella de Fichy, comporre versi con leggerezza magistrale

Sono un gioco serissimo le “Filastrocche” di Antonella de Fichy, ci riportano al momento in cui vita e poesia s’incontrano. Nenie consigliate a chi ha saputo ben conservare il proprio Fanciullino, in cui il mondo appare in tutta la sua fragilità e caducità

Gianni Rodari scànsati, anzi stacci vicino, e benedicici. Per questo libro anche una recensione rischia di essere in rima un’opinione. Come si fa ad uscire dal mood? Credo proprio che non ci riuscirò più! Impossibile tornare prosaici dopo l’approccio ad un testo come questo. La messinese Antonella de Fichy, con il suo Filastrocche (104 pagine, 10 euro), edito da Pungitopo, ci riporta tutti agli albori della vita e della poesia, e al momento esatto in cui s’incontrano. Testo dunque rigorosamente riservato a chi ha saputo ben conservare il proprio Fanciullino, fortemente consigliato a chi lavora nelle scuole elementari. Ricordo bene quando per la prima volta udii “la filastrocca scacciapensieri” di Ester Menegatti, quel magnifico incastro di parole e natura che mi trasmisero non tanto l’idea, quanto il ritmo del tempo. Le filastrocche dunque sono un gioco serissimo, il cui linguaggio è perfetto per i bimbi ma vanno bene anche “…per adulti/che non hanno più il timore/di guardare allegramente/ fino in fondo al loro cuore. / Che hanno voglia di tornare/ in un mondo colorato/ e che poi non hanno fretta/ di gustare un buon gelato” (fil. Per tutti gusti, p.26)

L’universo simbolico

La leggerezza del tocco stilografico di Antonella de Fichy è magistrale. Più di ottanta componimenti che non stancano mai – nessun libro di poesie si legge tutto d’un sorso. Il ventaglio dei temi trattati è ampio e variegato, e la narrazione immaginifica è talvolta al centro del brano, come in filastrocca senza testa (p.60-61, forse quella mi ha colpito di più), ma comunque sempre presente lungo il testo. Si vedano ad esempio la fil. Della luna ballerina (p.17), fil. Del mago dai mille colori (p.55), Il paese dei divani e degli usignoli (p.90). L’universo simbolico appare come da manuale e va dal mondo circense (maghi e clowns dal sapore felliniano) a quello animale, dove spesso vediamo protagonisti i gatti, pigri e ruffiani, ma liberi e disincantati rispetto alla frenesia dell’incomprensibile mondo degli umani. Favole e baiocchi, arlecchini e campanacci, feste nuvole e diavolacci, si snocciolano come grani di una coloratissima cruna di rosario, leggendo il testo dell’autrice. Ma fate e fatine, principesse e regine, riunite alla buona in un mondo alla carlona, fanno la fine del Bianconiglio in mondo senza meraviglia. È quanto accade nella filastrocca del disincanto (p.68-69), dove una justice leage di eroi delle fiabe (da Biancaneve a Peter Pan) vedono spezzata l’armonia utopica del mondo che raccontano dall’irruzione del reale, una realtà antitetica incapace di mettersi in ascolto.

Il tema ecologico

Un mondo grigio oltreché sordo, che ha mandato in rovina tutta la bellezza della natura che le favole ci consegnano non come idillio ma come stilizzazione di una realtà che calpestiamo e inquiniamo giorno dopo giorno. Quindi ecco una prima tematizzazione: l’ecologia. Ma seguiamo lo sviluppo di questo emblematico brano. Dopo tre strofe in crescendo di lunghezza, la quarta strofa annuncia “Poi un gran vento minaccioso/ interruppe il suo riposo (della speranza, ndr)/ e di colpo nei suoi occhi/ si dissolsero i balocchi…”. Dopo qualche altro verso, ecco una quartina come finale, così come lo era la strofa iniziale (creando una simbologia ad anello, un chiasmo formale): “Ora il suono si disperde/ nel pianeta non più verde/ e diviene un gran frastuono/ spaventoso come un tuono”. Da notare come la posizione degli avverbi tempo in apertura delle strofe porta l’acmè verso la Fine, che scrivo deliberatamente in maiuscolo. Perché? Questo è stato uno dei punti più sorprendenti per me nella lettura del testo della de Fichy: la presenza di un afflato escatologico. Inaspettatamente il mondo appare in tutta la sua fragilità e caducità, “Non muoverti: se ti muovi lo infrangi. / È come una gran bolla di cristallo sottile /stasera il mondo…” ebbe a dire Eugenio Montale in una delle sue poesie stilisticamente più vicine…alle filastrocche. Ma qualcosa echeggia in me e mi rimanda ad uno dei pochi brani che mi fanno piangere tutte le volte che lo ascolto: Il vecchio e il bambino, di Francesco Guccini. Si dischiude, come da una finestrella dove filtra la luce, un abbaglio apocalittico dal testo dell’autrice messinese, e non è un caso. Lo dimostra la poesia di p.81: filastrocca del nuovo creato.

La luna sospinta dal sole incipiente
cedeva il suo posto al sole nascente.

Ma tutto d’un tratto il cielo ormai azzurro
fu scosso da un tuono più forte di un urlo.

La luna, basita, fermò il suo vagare
e il sole che ancora non volle aspettare,
raggiunse nel cielo l’astro argentato
e insieme formarono un nuovo creato.

La notte quel giorno non volle tornare
a spegnere il giorno e l’umano vagare.

Fu così che quel regno, non più equilibrato
fu stravolto da un caos non ancora accettato.

Contro il frastuono

Lo sforzo poetico dell’autrice allora diviene una sorta di “dissenso sottovoce” contro il frastuono del mondo; i versi delle sue filastrocche appaiono fragili e indifesi al punto da suscitare in lei un istinto materno di (auto)tutela:

Ed allora a sé promise
delle cose ben precise:
«Del mio fragile sussurro
non più forte come un urlo
avrò sempre molta cura
premurosa e prematura,
e dei teneri bisbigli delicati
come figli serberò con privilegio
il più piccolo vagheggio»
E così la sua speranza
sostenuta con costanza
salvò il mondo dal dolore
senza il minimo rumore. (filastrocca sottovoce, p.62)

Il mare

Filastrocche per la speranza, come il cielo in una stanza, da serbare con pazienza perché non possiamo farne senza. Forse non salveranno il mondo, certamente salveranno il mio. Resta comunque la filastrocca l’invito più ingenuo libero e palese ad abitare poeticamente il mondo (Christian Bobin ci manchi tanto…). Vorrei chiudere questa breve presentazione del testo sottolineando la presenza di un elemento naturale che mi accomuna alla de Fichy, e che ogni siciliano dovunque si trovi ode come qualcosa di rimosso che rimbomba nelle orecchie (meraviglioso verso di Derek Walcott). Il mare per una donna dello Stretto non può che infrangersi coi suoi flutti tra un verso e l’altro. E la rima salina scivola sulla strofa-bagnasciuga. Il mare è protagonista o comunque presente in un brano nel 15% circa dei testi della raccolta. Scelgo uno degli ultimi, il più significativo, che parla da solo e lo ascolto pure io.

Il mare le disse: «Non devi più andare
ti cerco, ma non so da che parte guardare

Se fermi un istante il tuo intenso vagare,
troverai sempre me, fermo qui ad aspettare».

Rispose la donna che voleva restare:
«Adesso mi fermo e mi lascio guardare
così le tue acque mi potranno inondare…»

Ed allora il sereno ritornò nei suoi occhi
come accade ad un bimbo che ritrova i balocchi. (fil. Del mare fermo lì ad aspettare, p.86).

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