“L’incredibile storia di Callista Wood che morì otto volte” di Manuela Montanaro si muove tra i confini del noir, del gotico, del grottesco, la protagonista è una misteriosa mezza nativa, che è simbolo di un’umanità irredimibile, di vite ai bordi del mondo, simili per rassegnazione e stupore…
“Il libro che tenete tra le mani è la prova della tenacia, dell’abilità, del talento e della vigorosa immaginazione di Montanaro.
L’autrice comprende a fondo chi vive nelle zone rurali e nelle piccole città, non importa che si trovino in Italia, in Spagna o in Nord America.”
—Chris Offutt
Non è solo un endorsement prestigioso: le parole di Chris Offutt — tra i massimi interpreti della letteratura rurale americana, qui ne abbiamo scritto — rappresentano la chiave d’accesso perfetta al sorprendente esordio di Manuela Montanaro, per NEO edizioni. L’incredibile storia di Callista Wood che morì otto volte (210 pagine, 17 euro) non è soltanto un romanzo: è un rito di passaggio tra mondi. Un ponte narrativo che collega l’Appennino e l’Appalachia, la superstizione e la psicologia, il trauma e la redenzione.
Offutt, Haruf, Wilkins e i grandi narratori contemporanei dell’America selvaggia, respirano negli interstizi della trama, nelle stelle che bruciano sui boschi, nell’odore rancido di Whiskey e sopravvivenza.
In mezzo ai generi, con una scrittura meticcia
Manuela Montanaro si muove con disinvoltura tra generi, come una medium che attraversa i confini del noir, del gotico, del grottesco, accarezzando il pulp senza mai abbandonare un sostrato lirico che è tutto italiano.
La sua scrittura è meticcia e viva, come la sua protagonista: Callista Wood, ragazza “mezza nativa“, figura misteriosa e forte, che diventa emblema di un’umanità sfrangiata e irredimibile, e che muore, simbolicamente e fisicamente, otto volte.
Otto come le confessioni che la riguardano, come le versioni che la piccola comunità di Keystone — microcosmo ferito e disfunzionale — offre della sua fine.
L’uccisione di Callista non è l’unico terreno d’indagine in questo incredibile racconto, ma nel mucchio selvatico di questa stramba comunità, si rincorrono figure surreali come Henriette Wilson, la strega che rapiva e uccideva i bambini, oppure Seraphine Jackson, una stramba vecchietta sparita nel nulla, che allevava rospi nella sua casetta nel bosco.
Il perno e le figure “minori”
Perno di quella che si rivelerà un’indagine su più fronti, è AMANDA, simbolo dei futuri possibili.
Il personaggio di Amanda, gemella sopravvissuta a un intervento di separazione, è un topos potente: simbolo della dualità, del trauma che diventa metodo, e del sapere che non salva. Psicologa di successo, portatrice sana di un razionalismo incapace di penetrare il buio dei boschi, Amanda è il perno intellettuale e affettivo del romanzo. Ma è nelle figure femminili “minori” che Manuela Montanaro affonda davvero la lama: da Arleen, madre coraggio, a Leonore, madre disperata, fino alla misteriosa Seraphine Jackson, tutte portano addosso le cicatrici di una resistenza silenziosa, istintiva.
In questo affresco rurale, gli uomini sono figure sbiadite, incapaci di visione, ingabbiati in un’istintualità greve e predatoria. Al contrario, le donne di Manuela Montanaro hanno voce, corpo e agency. Sono loro a generare il caos, ma anche a suggerire possibili redenzioni.
In questo caleidoscopio umano, rovistando nella discarica di piccole esistenze, Manuela Montanaro porta alla luce ciò che nessuno si aspetta, ciò che nessuno si è degnato di cercare…un primordiale e antico senso di appartenenza.
Tra i boschi del Midwest e l’anima mediterranea
Le voci che si alternano sono molteplici: sono confessioni, visioni, deliri. L’architettura del romanzo è volutamente labirintica, quasi ergodica — parola chiave per chi ama i testi che chiedono la partecipazione attiva del lettore. Alcuni capitoli sono enigmi (immediato il pensiero va alle trappole testuali di Thilliez), rebus narrativi; i dialoghi, isolati come oggetti dimenticati sulla scena di un crimine, sembrano suggerire più di quanto dicano.
Il romanzo è, a tutti gli effetti, un’opera di mimetismo letterario: Manuela Montanaro scrive come se fosse cresciuta tra i boschi del Midwest, tra i predicatori alcolizzati e le donne-fantasma, tra le baracche e le case infestate dai silenzi. Eppure, in filigrana, ciò che pulsa è un’anima mediterranea, un pathos narrativo che richiama le radici profonde della narrativa italiana: quella che si nutre di oralità, di mitologia popolare, di empatia per gli ultimi.
La lingua dell’autrice è duttile, concreta e mai banale. Alterna registri, gioca con i livelli del narrato, si sporca le mani nel sangue e nel fango della materia che racconta. E quando si distende nella descrizione della natura — “Dai faggi imparò i colori e la nostalgia di tutto quello che scompare…” — riesce a evocare un lirismo che non è mai manierato, ma sempre viscerale.
Il romanzo di Manuela Montanaro è poliedrico, metamorfico, ricco di voci che si rincorrono dentro e fuori dal narrato, amplificando l’esperienza di lettura oltre i confini della storia, portano il lettore in quelle terre dove gli emarginati hanno tutti lo stesso disperato volto.
Parabola sulla marginalità
L’incredibile storia di Callista Wood è, in ultima analisi, una parabola sulla marginalità. Racconta di come le vite ai bordi del mondo — nei boschi sperduti del Nord America o tra i calanchi italiani — si somiglino per dolore e desiderio, per rassegnazione e stupore. È un romanzo corale, visionario, carnale, che lascia il lettore turbato e arricchito, con la sensazione di aver visto — se non capito — qualcosa di vero.
Manuela Montanaro non si limita a raccontare: rivendica. E lo fa con una voce potente, consapevole, già matura. Un esordio che non si dimentica.
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