Un incidente scatena una serie di eventi inaspettati e deleteri in “Alabama Hunt” di Silvia Giagnoni, romanzo che mostra una società e una terra – un pezzo di States – che sanno essere tanto buone quanto crudeli. Dal peccato originale dello schiavismo ai giorni nostri, un resoconto del Male…
Tra il romanzo e l’America esiste un nesso intimo e tutto particolare. Nuova forma letteraria quello, nuova civiltà questa. I loro inizi coincidono con gli inizi dell’epoca moderna e invero contribuiscono a definirla.
Che essere uomo, donna, bambino di colore negli stati schiavisti americani del diciannovesimo secolo equivalesse a occupare l’ultimo gradino della scala sociale dell’epoca è cosa certa. Ciò che non è poi così scontato è la condizione di questi schiavi: sia la letteratura che la cronaca dell’epoca abbondano di testimonianze che mostrano le differenze nel loro stile di vita a seconda di numerosi fattori, tra cui lo stato in cui risiedevano, le mansioni a cui erano addetti e la bontà, o crudeltà, dei loro padroni. Il romanzo americano che, forse più di tutti, analizza le mille sfaccettature dei padroni buoni e di quelli crudeli è l’opera di Harriet Beecher Stowe, La capanna dello zio Tom.
In Alabama Hunt (280 pagine, 18 euro) di Silvia Giagnoni, edito da Alter Ego, il periodo dello schiavismo, almeno sulla carta, è ormai lontano. Eppure l’America raccontata da Giagnoni mostra tutti i nodi ancora irrisolti di una società che sa essere tanto buona quanto crudele, esattamente come i suoi padroni.
Oltre 150 anni dopo che il 13° emendamento abolì la schiavitù negli Stati Uniti, la maggior parte degli adulti statunitensi afferma che l’eredità della schiavitù continua ad avere un impatto sulla percezione della comunità afroamericana nella società di oggi. Erede del colonialismo europeo, il razzismo degli Usa nasce anche da una volontà di separazione identitaria e culturale con il Vecchio Continente. Lo schiavismo viene da sempre definito il “peccato originale” degli Stati Uniti, un peccato che gli deriva certamente dall’Europa, ma di cui il Vecchio Continente si è purificato molto prima e che, negli Usa, una volta dichiarato illegale, è comunque continuato in altre forme, prima con la segregazione, poi con l’attuale situazione delle comunità afroamericane, che continuano a vivere in ghetti dove il tasso di criminalità è altissimo, come pure quello della disoccupazione, e dove i problemi abitativi e di salute pubblica restano gravissimi.
Lo stato bifronte
L’Alabama è lo Stato simbolo della nascita della battaglia per i diritti civili ma è, al contempo, dove storicamente si è fatta la storia dello schiavismo dei neri dall’Africa e del razzismo più feroce. Ed è proprio in Alabama che, forse simbolicamente, Silvia Giagnoni sceglie di ambientare il suo romanzo il quale non solo tocca ma approfondisce tematiche quali razzismo e xenofobia.
L’incipit del libro è un trauma, un incidente di caccia che scatena una serie di eventi inaspettati e deleteri, non solo per la vittima diretta ma anche per il cugino, vero protagonista dell’intera vicenda.
È proprio nel momento dell’impatto traumatico che la realtà si dà al soggetto esperiente prima di qualsiasi tipo di concettualizzazione. Il discorso della letteratura oggi riflette e al contempo costruisce nuovi modi di percepire ed esperire una realtà tardo-postmoderna che spesso è “realfittizia” a causa dell’osmosi di realtà e fiction ma che comunque non si lascia ridurre a rappresentazione o a schemi simbolici e interpretativi. In tale prospettiva, non sorprende che il focus sull’esperienza traumatica e sulla sua trasposizione estetica costituisca, a partire dagli anni Novanta, uno dei filoni maggiormente produttivi della letteratura e della teoria letteraria vicina a quei Cultural Studies entro cui si posiziona sempre più saldamente lo studio della letteratura. Un filone che Silvia Giagnoni sembra aver pienamente abbracciato, cercando, con risultati soddisfacenti, di non precipitare nel paradigma vittimario che caratterizza molta letteratura contemporanea.
L’idea di trauma oggi gode di una fortuna senza precedenti. L’epoca in cui viviamo è segnata da una contraddizione paradossale: da un lato le vite scorrono senza alcuna reale possibilità di esperire il trauma, dall’altra, al contempo e proprio in ragione di questa condizione, le persone sembrano non riuscire a occuparsi d’altro. Non vivendo traumi, li immaginiamo ovunque. Come se l’assenza di traumi reali traumatizzasse al punto da costringere a inseguirli in ogni situazione immaginaria possibile. Il punto è che dal trauma immaginario (ovvero dall’immaginario traumatico) attingiamo incessantemente le categorie con cui dar forma a un’esperienza, che in generale di traumatico ha ben poco. Rappresentiamo il non traumatico sotto le spoglie del trauma.
La speranza? È un mondo immaginato
In Alabama Hunt il trauma rappresenta l’innesco per la serie concatenante di eventi che andranno a determinare non soltanto l’esistenza del protagonista ma anche e soprattutto il suo essere interiore.
Il trauma diventa violenza e la redenzione si pensa debba venire attraverso di essa. È questa la vicenda narrata da Silvia Giagnoni ma è questa, in sostanza, la storia americana e, in particolare, quella dell’Alabama dove religione e segregazione su base razziale continuano ancora oggi a essere tratto distintivo. Sono queste tematiche particolari e, a tratti, particolarmente ostiche. Temi sensibili che l’autrice ha cercato di trattare in maniera il più aderente possibile alla realtà eppure traspare, soprattutto nella parte finale del libro, una vena di speranza sul futuro ma anche sul presente. Una nota di ottimismo che si sparge lungo tutto il mare di pessimismo ingenerato dal racconto e dal resoconto del Male, di tutto il male che gli umani riescono a perpetrare ai propri simili, appartenenti alla medesima razza – umana. Operati e posti in essere proprio in nome di questa razza. Della classificazione su base razziale della società. In passato come adesso.
La speranza di Silvia Giagnoni sembra quasi la visione di un mondo quale potrebbe essere la Terra. Ma si tratta pur sempre di un mondo immaginato. Immaginario.
E se è vero che l’immaginazione non è reale lo è pure che non si riesce proprio a pensare una realtà senza immaginazione.
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