Alfred Döblin, la Berlino criminale annuncia il Male che verrà

È un monumento della letteratura, un’esperienza di lettura unica, uno dei grandi romanzi del modernismo europeo, “Berlin Alexanderplatz” di Alfred Döblin, che torna in libreria in una nuova traduzione. Si segue l’ex detenuto Franz Biberkopf lungo strade e bettole, fra malviventi, donne e angeli custodi. Ambientato tra le due guerre mondiali, il libro tragicomico e picaresco preconizza nazionalismo, ingiustizie sociali e civiltà di massa

Non semplicemente un capolavoro, ma un’opera d’arte, che i lettori italiani per circa novant’anni hanno potuto leggere nella storica traduzione del germanista Alberto Spaini, per la prima edizione Corbaccio e per la successiva Rizzoli, poi finita nella Bur. Era tempo di fare rivivere il testo in una versione più al passo con i tempi (è successo con tanti altri classici) ed è Mondadori a pubblicare una nuova splendida edizione, con irreprensibile traduzione in italiano di Giusi Drago, che è anche poetessa con il culto della parola, e deve fare i conti con una lingua tutt’altro che raffinata, quella dei bassifondi di una capitale. Il polifonico romanzo metropolitano Berlin Alexanderplatz (499 pagine, 20 euro) di Alfred Döblin, volume di giallo vestito, arricchisce il catalogo degli Oscar e promette un’esperienza di lettura unica. Questo romanzone modernissimo nelle idee e nel montaggio si regge sulle spalle di un ex galeotto, il proletario Franz Biberkopf, uscito di galera, che si muove nella Berlino di inizio Novecento, città che vorrebbe rinascere e per cui questo volume è una specie di inno, nella consapevolezza che, umiliate nella Grande Guerra, la capitale e la Germania intera, a cominciare dalla cosiddetta borghesia, stessero precipitando molto in basso, in caduta libera, in fondo al burrone nazista. Lo stesso Alfred Döblin abbandonò il Reich nel 1933 – le sue opere erano state messe al bando – per riparare prima a Parigi, poi in Spagna, Portogallo e Stati Uniti, dove sarebbe diventato cattolico, prima di tornare in Europa, dove morì nel 1957.

Rifarsi una vita

Con Franz Biberkopf – veterano della prima guerra mondiale, piccolo criminale che ha lasciato la prigione dopo quattro anni e che, strada facendo, perderà anche il braccio destro – Alfred Döblin, tedesco di modesta famiglia ebraica, cresciuto dalla madre, che gli permise di laurearsi in medicina, ha creato uno dei personaggi immortali della letteratura e uno dei grandi romanzi del modernismo europeo. Siamo negli anni Venti (il romanzo fu pubblicato nel 1929) e sono più i pensieri che le azioni a reggere i capitoli. Franz prova a rigar dritto, vorrebbe rifarsi una vita, cerca di redimersi con qualche lavoretto onesto, come vendere i giornali, ma suo malgrado finisce ancora nel cono d’ombra di personaggi loschi ed eventi ambigui. La storia in sé non è così effervescente o all’avanguardia, ma il modo in cui è concepita, scritta e montata fa la differenza, spiazza, con i suoi collage narrativi accostati l’uno all’altro, con una formula mutevole, avvitata, affascinante e, talvolta, contorta. Può regalare estasi pura, quando si entra in connessione con le pagine.

Dove il banale e l’incredibile convivono

Nonostante certe premesse e le apparenze, non siamo dinanzi a un romanzo sociale e non ci sono nemmeno spazi per il melodramma. È più una storia picaresca, fra caos, colori, rumori. Tragicomicamente Franz Biberkopf – che si muove tra malviventi e angeli custodi, cade e prova a rialzarsi, conquistandosi in qualche modo la simpatia di chi legge. Gli occhi sono puntati su di lui, naturalmente, ma è un luogo in fondo a prendersi la scena, la piazza del titolo, che permette all’autore di agganciare storie su storie, vorticose ed eccessive, di divagare e deviare dal punto di vista narrativo e anche sul piano stilistico, alternando prima e terza persona, discorso diretto e indiretto, cambi di punti di vista, monologo interiore. Con la piazza sono Berlino e l’intera Germania a emergere ali occhi del lettore, terra dove il banale e l’incredibile convivono in equilibrio, e dove sono altissimi il tasso alcolico e quello di un generale risentimento, dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale, fra disordini politici e rivendicazioni della classe operaia.

L’insignificante che diventa epico

È un romanzo che si divora e in cui ci si perde, che può fare pensare a Ulisse di Joyce, ma più per l’apparenza che per la sostanza, più per lo stile che per il contenuto. Trascina per le strade e le bettole di una Berlino criminale (tra i frastuoni della folla e un caos irresponsabile e irrazionale, tra canzonette, slogan e cronache quasi giornalistiche), e nella mente del personaggio principale, un’odissea di ansie, soddisfazioni, aspirazioni, e in quella di altre figure (a cominciare dal criminale Reinhold, il “cattivo”) che in altri libri sarebbero poco più che insignificanti, compiendo azioni pressoché banali, e invece nel volume di Alfred Döblin si trasformano in epica, non quella degli eroi nelle mani e in balia delle divinità ma di un antieroe che allo stesso tempo sconvolto e disperato gira per la metropoli, si muove in un microcosmo anarchico, subisce gli eventi, spesso sottomesso e passivo, commette sbagli e non riesce neanche a riconoscerli. È un modo – attraverso un brioso fiume di parole, un tumulto verbale – di annunciare il male che verrà, ingiustizie sociali, nazionalismo, capitalismo, l’alba di un sistema che stritolerà gli individui, preludio della moderna civiltà di massa. C’è tutto questo nel confuso ed errabondo, contraddittorio e irrequieto cammino che costituisce Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin.

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