La spina dorsale di “Su Kafka e l’ebraismo” è la corrispondenza, prima e dopo la seconda guerra mondiale, fra Max Brod e Hans-Joachim Schoeps, primi curatori della pubblicazione degli inediti di Franz Kafka. La distanza, o meno, dello scrittore boemo, da ebraismo e sionismo è al centro del carteggio, in cui emergono le divergenze fra Brod e Schopes, le loro difficoltà a imporre sul mercato quello che sarebbe diventato un classico per eccellenza, dubbi e paure sotto il regime nazista e dopo il conflitto bellico. Nuovo appuntamento con Area 22, la nostra rubrica dedicata alla letteratura e alla cultura ebraica (qui tutte le puntate)
Alla fine degli anni Trenta Max Brod lasciò Praga per la Palestina e Hans-Joachim Schoeps riparò in Svezia, mettendosi alle spalle la Germania. La violenta morsa del nazismo stava per allargare il proprio raggio d’azione, oltre i confini tedeschi. Max Brod è l’eroe di tutti i kafkiani del mondo. L’uomo, impareggiabile ed entusiasta operatore culturale, senza cui poco o nulla sui saprebbe di uno dei più influenti geni dell’umanità, Franz Kafka, di cui fu amico negli ultimi vent’anni di vita dell’autore de La metamorfosi. Hans-Joachim Schoeps, ben più giovane di Brod, una decina d’anni prima che entrambi, di famiglia ebraica, lasciassero le proprie terre, collaborò proprio col più grande amico di Franz Kafka, alle prime pubblicazioni degli inediti che il grande scrittore praghese desiderava che fossero distrutti. Una collaborazione inizialmente fruttuosa, che andò in pezzi per le inconciliabili visioni su ebraismo e sionismo di entrambi, visioni che finirono in qualche modo per influenzare l’interpretazione di Franz Kafka – peraltro inimitabile e inclassificabile – agli occhi del mondo. Il loro carteggio è la spina dorsale di uno splendido volume, Su Kafka e l’ebraismo (237 pagine, 23 euro), curato da Julius Hans Schoeps, giurista e storico, e nella versione italiana, pubblicata da Marietti, curato e tradotto dal fine germanista Vito Punzi. Volume molto interessante su un un campione e simbolo della modernità come Franz Kafka, in cui naturalmente, c’è del sacro, per citare una fortunata rubrica di questo sito.
Franz Kafka più ebreo di quanto lui creda…
Nonostante la portata universale della letteratura di Franz Kafka, l’assenza della parola “ebreo” nelle sue opere principali e l’ateismo a più riprese dichiarato, nonostante l’allegoria e l’ambiguità dei suoi capolavori, il suo rapporto con l’ebraismo è ineludibile, complesso, problematico, talvolta contraddittorio, ma ineludibile, come emerge principalmente in lettere (in quella al padre si lamenta dell’assenza di un’educazione ebraica), aforismi e diari, dove la tematica ebraica è palese; fin dalla più tenera età visse in una famiglia che non disdegnava il ricorso all’yiddish, abitò nella Città Vecchia e nell’ex ghetto ebraico di Praga; frequentatore saltuario della sinagoga, outsider in mezzo ai correligionari, Kafka conosceva l’opera di Martin Buber, ed era affascinato dalla spiritualità chassidica e dal teatro yiddish e – in contrapposizione agli ebrei assimilati d’Occidente, di cui egli stesso pensava di far parte, sradicati e senza futuro, mai davvero accettati in Europa – dall’ebraismo orientale, dai suoi miti e dalle sue leggende, dalla sua incontaminata e fresca spiritualità, dalla sua spontaneità e immaginazione. Franz Kafka è più ebreo di quanto la critica (e lui stesso) creda. Riferimenti e allusioni al mondo ebraico, addirittura alla mistica e al pensiero cabalistico, sono stati ignorati o minimizzati dagli studiosi di germanistica, ma da quando grandi nomi (da Gershom Scholem a Walter Benjiamin) li hanno messi a galla, non è stato più possibile ignorarli.
Un punto di rottura
Negli ultimi mesi di vita, al fianco di Dora Diamant, studiò yiddish ed ebraico, arrivando a sognare di trasferirsi in Palestina, un desiderio legato però più alle ragioni di salute, alle necessità di curare la tisi che lo corrodeva, che all’adesione agli ideali sionisti. Più difficile ritenere che Kafka fosse vicino al sionismo o addirittura un sostenitore, non lo riteneva Hans-Joachim Schoeps, al contrario di Max Brod, fervente discepolo del sionismo culturale (per cui letteratura e sionismo erano una cosa sola) che probabilmente proiettava i suoi desideri sull’amico geniale. Ma nell’orizzonte di Franz Kafka il sionismo fa molta fatica a entrare, i pensatori sionisti non sono suoi punti di riferimento, a cominciare dal “politico” Theodor Herzl, le cui idee comunque studiò. È un punto di rottura fra Brod e Schoeps, che in una lettera dell’estate 1933 non usa eufemismi: «considero il sionismo un crimine contro l’ebraismo». La corrispondenza fra i due curatori dell’opera di Franz Kafka è comunque appassionata, racconta le difficoltà e gli sforzi fatti per consentire la pubblicazione degli inediti, svela dettagli sulle tante interpretazioni dello scrittore praghese e riflette nelle controversie tra due forti personalità, quella di Brod e quella di Schoeps, la contrapposizione tra assimilazione e sionismo nell’ebraismo tedesco, negli anni Trenta del Novecento. È un volume denso, che non lascia respiro e trasmette in egual misura le paure e i dubbi prima e dopo la seconda guerra mondiale, quando non sembrava esserci futuro, prima del 1945, e chiedendosi se ci fosse ancora un futuro per gli ebrei in Germania, dopo il 1945.
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