Torino scoperta e rifugio, Pierre Adrian nel segno di Pavese

“Hotel Roma” di Pierre Adrian è la storia dell’incontro fra l’autore e Cesare Pavese, nella cui scrittura il francese si riconosce. Lui e una ragazza speciale si muovono nei luoghi torinesi di Pavese, anche in quello del suo suicidio, una stanza d’albergo. Ma questo libro, che oscilla fra saggio e romanzo, non ricama e non fa pettegolezzi…

Sulla copertina del libro, pubblicato da Atlantide, la scritta è inconfondibile: Hotel Roma, nei suoi eleganti caratteri corsivi, riprende l’insegna iconica dell’Hotel Roma di Torino, quello che si incontra uscendo dalla stazione ferroviaria di Porta Nuova e procedendo verso il centro su piazza Carlo Felice. Quello dove, il 27 agosto del 1950, fresco di Premio Strega e con il manoscritto dei Dialoghi con Leucò terminato, si suicidò Cesare Pavese. A scrivere Hotel Roma è Pierre Adrian, giovane autore francese molto legato all’Italia e ai suoi scrittori del Novecento. Suo l’esordio fortunato La pista Pasolini, ma suo anche I giorni del mare, una storia che si alimenta della speciale malinconia dell’estate e dell’infanzia e ne coglie con rara maestria le sfumature impercettibili, inafferrabili.

Sarà per questa sensibilità che Adrian ha incontrato nella scrittura di Pavese le tracce di qualcosa che lo chiamava, in cui si riconosceva. Parte da qui questo libro che è un po’ saggio, un po’ romanzo, un po’ nessuno dei due, fuori da etichette di sorta. È la storia di un incontro tra chi scrive e Cesare Pavese, lo scrittore einaudiano torinese, uomo delle Langhe, intellettuale di rigore, personaggio tormentato, dalle grandi voragini. Una storia che si avvia nell’oggi della pandemia a partire da una rilettura pavesiana e dal desiderio geografico di inseguire il fantasma dello scrittore in quella Torino anni Cinquanta dove si tolse la vita. Solo, in una fine estate desolata, in una piccola stanza di un hotel divenuto oggi luogo letterario tra i tanti di una città che, dietro la sua mappa reale, ne svela anche una, fittissima, letteraria.

“Torino è il più bello di tutti i paesi”

Pierre Adrian decide dunque di esplorare una Torino un po’ vera, un po’ scritta, e in Hotel Roma (160 pagine, 24 euro), tradotto da Maria Sole Iommi, racconta la storia di un incontro amoroso che tra Parigi e Roma porta lui e una ragazza speciale a percorrere portici sabaudi e rettilinei tra nobili palazzi e tram. Inevitabile, scoprendo Pavese, scoprire anche Torino, il suo fascino discreto, i suoi angoli meno noti, non per questo meno evocativi. Accanto ai grandi viali nobili – corso Umberto, la attigua via Lamarmora con la casa della sorella dove Pavese abitò, o la redazione dell’Unità di corso Valdocco -, ci sono angoli della Torino pavesiana che spesso portano lontano dal centro. Ecco dunque l’ultima spiaggia, che è il metaforico nome dell’osteria dove amava ritrovarsi con gli amici Pavese: un trattato di piemontesità d’altri tempi, con i suoi agnolotti, il bicchiere di barbera che ha il colore del Grande Torino entrato nella leggenda a Superga. C’è Superga perché in Pavese c’è anche tanta collina, e Adrian prende tram, funicolari, cammina tanto, proprio come lo scrittore amava fare, tra scrivanie e caffè storici. Incontrando lo scrittore, incontra anche qualcosa di sé, proprio a Torino, e qualcos’altro costruisce. Nel magico intreccio di questa storia, la Torino di Pavese è anche la Torino di oggi dove far sbocciare una storia d’amore. Sfondo per un’altra vicenda che non sia quella della fine tragica dello scrittore, Torino diventa una scoperta, un rifugio. Si trasforma in un ricordo, segno di un indissolubile legame con una città, allora come oggi, tanto forte da riparare, aggiustare, spiegare. Torino come soluzione geografica per guarire anche i guasti di Pavese, per cercare di capirli.

Costruire un atlante pavesiano

Hotel Roma è un viaggio cronologico tra la vita e le opere di Cesare Pavese e si mescola alla storia della voce narrante, dei suoi viaggi, senza soluzione di continuità. Diventa così un racconto che, traccia dopo traccia, fa sue visioni, sensazioni, istanti. Quasi un diario che insegue un altro diario, quello di Pavese. Ma anche un atlante fatto di luoghi che la voce narrante raggiunge, prendendo treni, inseguendo il filo di una ricerca che parte da quella Torino deserta di agosto, quasi una città invisibile di Calvino, che non offriva nessuno a cui appellarsi. Ecco allora apparire le Langhe, la dolcezza delle colline che per Pavese sono infanzia, ricordo, inevitabilmente mito, intriso di nostalgia. Di contro c’è poi il mare, mai raggiunto e ostile a Pavese persino a Brancaleone, il paese in Calabria dove fu mandato al confino, così come nei soggiorni liguri. Bisogna mettersi in movimento cercando Pavese, quel Pavese che di viaggi ne aveva fatti pochissimi, e Hotel Roma diventa un pellegrinaggio sui luoghi che sono stati dello scrittore. Luoghi vissuti che, a volte, hanno avuto un’influenza e un ruolo tale da diventare luoghi letterari, ed entrare così nella poetica di Pavese. È la geografia del rimpianto per aver lasciato Santo Stefano Belbo, è un litorale in inverno, sono le atmosfere desolate di quegli ultimi giorni di agosto a Torino che Pierre Adrian coglie in maniera limpidissima. In questa ricerca di corrispondenze con la realtà, lo colpiscono spesso le cose fuori posto: Pavese doveva sentirsi così.

La ricerca di un riflesso

Il racconto di Hotel Roma si concentra su una domanda: cosa ha portato a quella stanza di albergo nel 1950? Era inevitabile, forse. Capitolo dopo capitolo, conoscendo Torino e gli altri luoghi pavesiani si incontra lo scrittore: un uomo triste, che il suicidio l’ha probabilmente sempre pensato, fino a realizzarlo in quell’atto scenografico e immensamente desolante. «Non fate troppi pettegolezzi», scriveva Pavese sul manoscritto che lasciò nella stanza di hotel. Questo libro non ricama, non fa pettegolezzi. È una specie di “patologia”, la malattia di un lettore sulle tracce di un Pavese letto e riletto in diverse stagioni della vita. Un incontro da un punto di vista lievemente obliquo, che arriva dalla Francia, una distanza pur compartecipe che nota dettagli piccoli, decisivi. Ed è l’abbraccio di un amico a un amico con cui la sintonia si è creata attraverso le parole: quelle del diario, “Il mestiere di vivere”, quelle di tanti personaggi che hanno dimora nei romanzi, e coloro che Pavese lo hanno conosciuto, ne hanno visto lo sguardo, gli hanno stretto la mano per davvero. Trovare i contatti è la parte più complessa di una ricerca che sembra vana: e allora ci sono i ricordi degli altri, ci sono le parole dello stesso Pavese che fa da filtro per spunti, letture, visioni, con la sua «filosofia dell’autunno». Era triste, Pavese, respingente persino, cinico nelle sue annotazioni sul diario, estremamente solo, come rivelano gli ultimi giorni e le ore che hanno preceduto la decisione dell’Hotel Roma. Tutti erano in vacanza, era fine agosto, lo scrittore aveva dato le spalle al mare per tornare in una città vuota. Non ce la faceva più. C’è questo dietro al gesto, alla persona, inevitabilmente anche dietro allo scrittore che ancora oggi parla ai suoi lettori con così tanta forza, così tanta vita. “Alcuni scrittori ci danno quello che non hanno più – scrive con molta profondità Adrian citando i libri letti e riletti – C’era tutto quello che Pavese mi offriva e che l’aveva abbandonato: la spensieratezza, la gioia di essere al mondo, lo spirito dell’infanzia, la fede, la consolazione”.

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