Daniele Mencarelli: “Il successo? Ho ancora infelicità e stupore”

“Ho fatto talmente tante cose negli ultimi sette anni – racconta in questa intervista Daniele Mencarelli – che mi sembra ne siano trascorsi trenta. Pensavo che se mi fossi affermato la mia vita sarebbe stata più statica, e, invece, continuo a essere un produttore di rabbia e meraviglia e a inseguire questi sentimenti. Non è cambiato il mio rapporto rispetto al libro e alla scrittura“. L’autore di “Brucia l’origine” debutta anche nella narrativa per ragazzi (“I giovanissimi sono l’unica speranza, è una storia che raccontavo ai miei figli”) e indica Pasolini come nume tutelare del più recente romanzo: “Le grandi differenze sociali continuano ad esistere, hanno creato falsi problemi per non farci vedere quelli veri. Pasolini non si faceva fuorviare dalle sirene della narrazione, guardava i problemi veri, questo deve fare un intellettuale”

Da poeta per pochi a romanziere per molti, nel giro di un pugno d’anni, costellati anche dalla vittoria al premio Strega giovani, e dalla serie tratta dal suo Tutto chiede salvezza (ne abbiamo scritto quiqui e qui), che l’ha reso popolare, nel senso che questa parola può avere nel 2025, sebbene lui sia totalmente estraneo all’universo parallelo dei social media. Non si è ancora spenta l’eco del suo ultimo romanzo, Brucia l’origine (ne abbiamo scritto qui), che Daniele Mencarelli (nella foto di Claudia Sforza) torna in libreria con una storia per ragazzi, Adelmo che voleva essere Settimo. A Palermo ha fatto tappa a “Una marina di libri” ed è stata l’occasione per riflettere sul percorso vissuto in ambito editoriale, sul senso del successo, sull’ultimo romanzo, in cui ragiona attorno alle periferie, e non solo.

Daniele Mencarelli, quanto è cambiata la sua quotidianità a partire dal 2018, anno di pubblicazione del suo primo romanzo, La casa degli sguardi, edito come i successivi da Mondadori?

«Sono trascorsi sette anni, ma la percezione del tempo è bizzarra, nel senso che a me questi sette anni sembrano durati trenta, perché ho fatto talmente tante cose… Ho pubblicato cinque romanzi, ho scritto due stagioni di una serie, anche uno spettacolo teatrale. Sono passato da una professione che mi metteva nelle condizioni di leggere la scrittura degli altri, in Rai Fiction facevo l’editor per i prodotti altrui, alla possibilità di vivere della mia scrittura. Era un po’ il desiderio che avevo a diciassette anni, quindi ho impiegato trentatré anni, ma l’ho realizzato, con grande soddisfazione».

L’ultimo passo di questa metamorfosi è Brucia l’origine. Esaurita la trilogia personale, l’approdo dell’esplorazione di nuovi territori è una storia in cui il protagonista è un designer romano che s’afferma a Milano e torna nella capitale, fra sensi di colpa e di vergogna, nel confronto con la famiglia d’origine e con gli amici di un tempo. Da dove saltano fuori questo personaggio e questo tema?

«Già il romanzo precedente, Fame d’aria, sanciva formalmente questo passaggio da quella che oggi viene definita autofiction alla narrativa, anche se, per me che vengo dalla poesia, questo passaggio ha poco valore, nel senso che il vissuto dell’autore, in una chiave più o meno traslata, c’è sempre. In Brucia l’origine racconto un passaggio che ho vissuto quando nel 2001, all’epoca ero un operaio, facevo le pulizie in un ospedale, mi sono ritrovato a lavorare nella più grande azienda culturale italiana, che è la Rai. Come Gabriele, il protagonista di Brucia l’origine, ho scoperto che sopra il mio mondo ce n’era un altro che non conoscevo, ed era il mondo borghese; questo mondo aveva una serie di regole, di riti, di meccanismi molto diversi e questo all’inizio mi ha messo molto in crisi, poi man mano mi sono abituato. Nel romanzo sono tornato a questi mondi sovrapposti, perché a me sembra che oggi questa lettura per classi sociali, questa lettura che, se vogliamo, ha animato e sorretto la storia dell’uomo, sia totalmente sparita dai radar della contemporaneità, non c’è più. E invece le classi sociali continuano ad esistere, continuano ad esistere i ricchi e i poveri, anzi oggi questa forbice è tornata ad allargarsi. Gabriele è il classico prototipo di chi vive dentro questi due mondi molto diversi, tra quelli che non arrivano a realizzare i propri sogni, che spesso neanche arrivano a conoscere qual è il sogno della propria vita, e il mondo dei ricchissimi, dove realizzare i propri sogni spesso è fin troppo semplice, fin troppo normale. Gabriele parte dal primo mondo, popolare, e scoperto il proprio talento si ritrova nel secondo mondo. Le persone che vivono dentro mondi così diversi stentano a trovare una propria collocazione dentro la propria vita. Gabriele non è più il Gabriele del quartiere Appio Tuscolano di Roma, perché si è dotato di strutture, si è elevato culturalmente, economicamente, socialmente, ma non sarà mai il Gabriele del suo nuovo mondo, perché non appartiene, per ceto, per status, al mondo che lo ha accolto, e quindi vive un po’ da disintegrato, non sta bene a Milano, non sta bene a Roma».

Gabriele vive il successo con un certo senso di colpa, racconta frottole ai suoi genitori, si vergogna dell’ambiente da cui proviene, ma anche di quello in cui è approdato, grazie al proprio mentore, che è il suocero, il marito della fidanzata…

«Senso di colpa e vergogna sono i due sentimenti più diffusi nel libro. Gabriele torna nella capitale, dove non metteva piede da prima della pandemia del Covid, per l’anniversario di matrimonio dei genitori. Succede che tutte le sovrastrutture che lui ha acquisito al nord, la crescita sociale, culturale ed economica, nel momento in cui torna a casa sua si fanno sentire; si confronta con i suoi amici che sono rimasti fermi, cristallizzati dentro quella vita di cui lui si vergogna, sente il senso di colpa per essere diventato qualcosa d’altro, di superiore. Accade spesso così, chi se ne va e torna nella sua terra d’origine quando incontra di nuovo i genitori, gli amici e sente di essere cresciuto rispetto a quello che era in passato, vive tutto quasi come un tradimento, con grande sofferenza».

Gran parte del romanzo si svolge nel quartiere Appio Tuscolano di Roma, Brucia l’origine è un libro su una periferia e, in generale, sulle periferie. In questo senso Pasolini è un po’ un nume tutelare. Da Pasolini a oggi non sono tanti gli autori che hanno affrontato la questione delle periferie…

«In passato le grandi trasformazioni che hanno vissuto le periferie, come luoghi di confronto con le élite, con certi meccanismi di confronto di punti d’osservazione sono stati, secondo me occultati, per volontà d’autore, nel senso che oggi nei quartieri poveri il problema non è il ricco, ma che il ricco sia diventato l’individuo da imitare e da raggiungere. Non c’è più quella che una volta veniva chiamata, anche in maniera pacifica, anche solo dialettica, lotta di classe e che prevedeva la redistribuzione della ricchezza come strumento di giustizia sociale. Nel secondo Novecento, in Italia, c’è stata una grande redistribuzione di ricchezze, che ha permesso a questo Paese di pacificarsi da un punto di vista sociale. Checché ne dicano le grandi sirene della gran cassa politica e destrorsa di governo, l’Italia è un Paese che vive un periodo di grande sicurezza proprio perché per tanti anni c’è stata questa redistribuzione. Oggi, invece, ci sono questi quartieri poveri che guardano al più povero come alla zavorra che non permette il salto sociale, e viene dato ai poveri questo strumento micidiale che è il camuffamento sociale, cioè oggi il povero può giocare, un po’ come si fa a carnevale, a camuffarsi, a far finta di essere ricco, con le scarpe tarocche, con la maglietta tarocca, può andare in giro, nel centro di Palermo come in quello di Roma e imitare, in maniera assolutamente credibile, il ricco soltanto. C’è solo un problema, in Italia, in questo momento, esistono luoghi dove il ricco è ricco e ha la possibilità di affermare il suo stato sociale, il povero, invece, resta povero. Valga un luogo per tutti, l’ambiente della sanità, in Italia, è quello dove sta esplodendo la nostra guerra civile cellulare. Il ricco non fa nemmeno la fila perché oltre al capitalismo di relazione noi abbiamo inventato la sanità di relazione e, quindi, alza il telefono e chiama il primario, chiama il direttore sanitario. Il povero fa due, tre giorni di pronto soccorso, soltanto per essere visitato. Quindi le grandi differenze sociali continuano ad esistere, hanno creato falsi problemi per non farci vedere quelli veri. Pasolini era quel paradigma di intellettuale che provava a non farsi fuorviare dalle sirene della narrazione, e che badava a guardare i veri problemi, per come erano. Questo, secondo me, è il vero ruolo dell’intellettuale».

Anche i ricchi piangono, però. In Brucia l’origine si fanno anche i conti con i problemi di chi problemi non dovrebbe averne, o almeno con chi non ha problemi di natura economica…

«Questo è forse l’elemento più controverso del romanzo, di un romanzo molto controverso. Rispetto alla ricchezza come fai a mettere d’accordo persone che vivono una condizione economica totalmente diversa? Non c’è niente di più relativo della propria condizione economica e della percezione che si ha del denaro, perché chi è ricco e ricchissimo sa perfettamente che quella condizione lo eleva, lo salva da tante problematiche, ma non è conditio sine qua non per essere in automatico felici. Evidentemente chi è meno abbiente, o totalmente povero, corre il rischio di rendere il denaro il grande veicolo di ogni sua difficoltà, ma non è così e Gabriele in qualche maniera è proprio la prova provata: c’è un individuo che si afferma anche economicamente, che supera senz’altro certi problemi che afferiscono alla ricchezza, fare la spesa o curare un problema di salute, ma non ottiene la felicità, che è una parola che odio, ma non raggiunge il benessere interiore».

La sua ultimissima pubblicazione, in libreria da pochi giorni, è un romanzo per ragazzi, edito ancora da Mondadori, Adelmo che voleva essere Settimo. Ha incontrato tante scolaresche in questi anni e, controcorrente, ha mostrato fiducia nelle nuove generazioni, questo volume resterà un unicum o è una nuova strada da percorrere? È un padre che raccontava storie ai figli prima che s’addormentassero?

«Il libro è nato proprio da un racconto fatto ai miei figli, l’idea di proseguire, di continuare a raccontare ai giovanissimi mi attrae molto, ho una stima enorme nei loro confronti, mai come in questa fase storica sono loro a rappresentare l’unica speranza…».

Chiudiamo il cerchio, tornando a ragionare su quanto ha vissuto negli ultimi sette anni. Rispetto al 2018, a un esordio da narratore senza particolari pressioni, dopo aver stabilito un rapporto importante con il pubblico ed essere dietro a una serie di successo, sente il peso della responsabilità?

«Partirei da un dato generale e non esagero, definendolo terrificante. Mi viene da dire che ho debuttato in un’epoca molto diversa da questa. In mezzo c’è stata una pandemia, un evento globale, il primo grande evento globale non bellico, che ha per certi aspetti, per la prima volta, unificato e livellato l’umanità, dimostrandole che possiamo morire tutti allo stesso modo e per lo stesso motivo. Sono esplosi, riesplosi, bisogni primari come la letteratura, che era ridiventata appunto un bene di prima necessità. Penso poi alla fine della pandemia, grosso modo al 2022, e poi all’invasione della Russia, ai danni subiti dall’Ucraina, a quel che è successo e sta succedendo in terra palestinese, alla rielezione di Trump, all’imbarbarimento linguistico che c’è stato nel giro di qualche anno, e ritorno a quel che dicevo prima, mi sembra che sono trascorsi trent’anni e non so fra trent’anni dove saremo. Questa è la premessa generale. Un paio d’anni fa pensavo che la famosa affermazione fosse una specie di traguardo che, una volta raggiunto, avrebbe reso la mia vita più statica, e, invece, continuo a essere nel bene e nel male un grande produttore, ma a livelli industriali, di rabbia, infelicità, stupore, meraviglia e continuo a inseguire questi sentimenti. Nel profondo, dunque, non è cambiato nulla, è cambiato tanto il mondo, io sono invecchiato indubbiamente, ma il rapporto rispetto al libro non è cambiato e spero sempre che il libro più bello che scriverò nella mia vita è ancora quello che non ho scritto».

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