Angelique del Rey, docente di filosofia, è autrice de “La tirannia della valutazione”, un’indagine storico-filosofica sull’argomento. L’onnipresenza della valutazione tarata sul mercato e non sulla realizzazione del sé, ha ridotto l’essere umano in una somma di prestazioni quantificabili che compongono l’homo oeconomicus, per cui esistere è sinonimo di funzionare
Ho tra le mani questo libretto, La tirannia della valutazione (189 pagine, 15 euro) di Angélique del Rey edito da eleuthera nel 2018. Lo sfoglio, lo leggo, lo trovo interessante, ha a che fare con il mio lavoro, l’insegnamento, e con una prassi che mi riguarda direttamente, valutare; approvo l’impianto critico e come al solito, di fronte a letture di questa natura, mi rivolto nel sottobosco dell’ipocrisia, perché valutare è momento imprescindibile dell’azione didattica da cui non posso esimermi eppure… “I would prefer not to”. Attribuire un valore nell’hic et nunc di una prestazione, di una performance, ad un individuo che devo considerare ab origine partito dal grado zero della conoscenza, dell’abilità, delle competenze al pari di tutti gli altri, artefice ed imprenditore di se stesso in una condizione di primigenia, rousseauiana uguaglianza e democraticità dell’apprendimento, e decretare successi e fallimenti, riconoscere i meriti come espressione di impegno e responsabilità meramente individuali senza considerare il contesto culturale, socio-economico, politico-ideologico che genera invece individui a differenti velocità, diritti, opportunità, che solo un sistema compiutamente democratico quanto utopico potrebbe garantire, mi imbarazza e mi costringe ad interrogarmi costantemente sulla necessità, sulla opportunità, sul senso e le finalità del valutare. L’opera di Angelique del Rey, docente di filosofia nel liceo francese di Morteau e autrice di diversi saggi di critica alla meritocrazia, fornisce delle risposte in questo senso così come lascia aperta la strada ad interrogativi che rimettono anche, ma vorrei dire soprattutto, a noi docenti “valutatori” – nonostante il clima di inerte assuefazione e ligia, ortodossa esecuzione dei diktat ministeriali nelle aule scolastiche – l’urgenza della ricerca di alternative de-ideologizzate a ciò che oggi definiamo come valore, merito, valutazione.
Le tre E
Il saggio è una indagine storico-filosofica sulla valutazione che si dispiega dai presupposti ideologici che l’hanno generata ai sui risvolti in termini di condizionamenti sociali e antropologici che ne garantiscono la sua tirannica pervasività e permanenza. La valutazione è stata, a partire dall’età moderna, ancella del sistema capitalistico, ed è diventata vieppiù nella società post-moderna un dispositivo di assoggettamento e controllo delle masse ed entità socio-aziendali alla logica utilitaristica della produttività e del profitto a tutti i costi. Si è valutati sin dai banchi di scuola e successivamente nel mondo del lavoro sulla base della capacità di adattarsi ad un sistema economico in continuo divenire che richiede un costante aggiornamento dello skill set e seleziona, in nome di un presunto merito, i migliori, i più competitivi, ma anche i più flessibili, quelli più permeabili ad un processo di formattazione antropologica, di normalizzazione e artefattualizzazione dell’esistenza che inchioda ad una condizione di unidimensionalità, di uomini senza qualità.
Ma perché demonizzare tout court la valutazione? Non è forse garante di un sistema meritocratico che premia l’impegno e favorisce l’efficacia, l’efficienza e l’equità, le tre “E” su cui si regge la società consumistica al di fuori della quale è impensabile immaginare la vita?
Innanzitutto è necessario chiarire la natura e l’oggetto della valutazione in cui è il capitalismo cognitivo a svolgere un ruolo determinante: le imprese investono sul capitale umano, capitale immateriale, per innovare ed essere competitive perciò l’individuo è obbligato ad ampliare il suo patrimonio delle competenze per avere successo nei processi di selezione e valutazione nel mercato del lavoro. In questo regime di prostituzione del sapere alle logiche neoliberistiche imprenditoriali, non si valuta la conoscenza, ma la competenza, ossia la mercificazione della conoscenza, la sua spendibilità e strumentalità, il saper fare in situazione, la capacità di adattarsi ad ogni circostanza con livree e identità cangiabili, la prontezza nel problem solving a garantire la propria zona di interesse e quella dell’impresa in un clima di sospensione dall’imperativo morale che predispone ai ricatti impliciti della banalità del male.
Un’ottica di darwinismo sociale
Secondo Angelique del Rey, l’onnipresenza della valutazione delle competenze in tutti i settori di formazione, produzione e selezione del capitale umano produce effetti contrari alle promesse della meritocrazia (EEE): inefficienza delle prestazioni e disuguaglianza sociale, una efficacia perversa dai risvolti escludenti omologanti e alienanti. Premiare il merito infatti significa porre l’individuo di fronte alla responsabilità del suo successo grazie ai suoi sforzi e alle sue performance e al contempo condannare il fallimento facendo credere a chi viene escluso che se lo è meritato. In questa ottica di darwinismo sociale, che mistifica il cinismo e l’ingiustizia del potere economico, ciascuno si auto-disciplina, introietta la norma performante della competitività, accrescendo il capitale umano innato con acquisizione di competenze spendibili in un mercato del lavoro sempre più deregolamentato, destabilizzante e precarizzante secondo i tempi di obsolescenza programmati indistintamente e per uomini e per merci e che costringe ad investire e reinvestire in uno spersonalizzante, liquido-itinerante lifelong learning. Si tratta pertanto di una valutazione tarata sulle esigenze del mercato e non sulla realizzazione del sé, che ha ridotto l’essere umano, la sua interiorità e organicità nella reificazione in una somma di prestazioni quantificabili che compongono il surrogato, l’artefatto uomo, l’homo oeconomicus, per il quale esistere è ormai sinonimo di funzionare.
Un potere tirannico
La valutazione, con la pretesa della misurazione oggettiva, esercita sugli individui un potere tirannico, è il panopticon, spiega del Rey, riprendendo e riadattando un concetto foucaultiano in versione post-moderna: è la paura di essere visti da una onni visibilità che spinge a stare in riga e auto-disciplina e modellizza il vivente; costringe ad uniformarsi agli standard competitivi; non tiene conto della molteplicità, complessità del reale ma agisce in un’ottica di unidimensionalità e deterritorializzazione di individui e cose obbligandoli ad adattarsi e a far coincidere l’ordine esteriore del potere sorvegliante con il desiderio interiore della realizzazione nella formula morale normante e adattiva del “saper essere”. Valutato ergo sum!
In questo regime di sorveglianza costante, in questa società dello spettacolo che non lascia spazio all’intimità e tutto riduce in volontà di riconoscimento e approvazione su piattaforme reali e virtuali, solo chi è visto, chi è valutato esiste, chi arranca, invece, chi resta al di fuori dell’obbiettivo, chi insoddisfatto resiste passivamente ad un allineamento con la logica performante, come lo scrivano Bartleby, rivendicando anche attraverso il suicidio la propria libertà, coerenza e missione, chi è travolto dalla f iumana progressiva e rampante della competizione capitalistica e verghianamente “resta per via, si lascia trapassare dall’onda” non esiste, perché la sua esistenza sfugge agli indicatori che fanno entrare forzatamente fino a sua deformazione solo ciò che docilmente si lascia costringere entro le grate di una griglia utilitarista del funzionamento.
Una possibilità di uscita
In questo quadro piuttosto desolante, Del Rey delinea una possibilità di uscita che può e deve passare attraverso un ripensamento della valutazione che tenga conto della complessità dei rapporti sociali, della dimensione locale, territoriale e non solo globale dell’esistenza, della sua relazione contestuale con i rapporti di lunga durata, delle singolarità come attori di una «valutazione partecipativa basata sul riconoscimento di una pluralità di valori coesistenti nell’ambito della società» (p, 180). Non è l’individuo che deve adattarsi, modellandosi e disumanizzandosi, al potere valutante, ma è la valutazione che deve procedere dalla elaborazione organica, particolare, conflittuale e irriducibile del reale: la sua natura, sostiene Del Rey, dipende dall’istanza che la genera: «se l’istanza è conflittuale promuoverà la vita, se è unidimensionale ne ridurrà la potenza» (p. 181).
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Forse è davvero tempo di pensare una valutazione che riconosca la pluralità dei percorsi e non solo l’aderenza agli standard 😉