Rinnegando il fascismo, lo “zibaldone” di Vitaliano Brancati

È possibile fare il pieno di sagacia e acume leggendo “Diario romano” di Vitaliano Brancati, che torna in libreria in un’edizione rinnovata e completa. È la raccolta degli interventi di una fortunata rubrica che lo scrittore siciliano portò avanti fino all’anno della prematura morte: dalle autocritiche per la sua adesione giovanile al fascismo, a giudizi su opere e scrittori, da scritti di costume e attualità, fino alla condanna e allo sberleffo dell’ottusità fascista…

I giornali fascisti chiamano traditori tutti coloro che quindici, dieci, cinque anni addietro, si sono convertiti dal fascismo alla libertà.
Il loro linguaggio è gesuitico: respingono la qualifica di fascisti come una calunnia, ma rinfacciano a molti italiani come un tradimento il non essere più fascisti; dicono di disprezzare il fascismo ma amano la coerenza (sia pure nell’errore), in nome della quale l’Italia dovrebbe essere ancora e per sempre tutta fascista.

È il febbraio 1947 e Vitaliano Brancati verga una sua fortunata rubrica sul settimanale Tempo, “Diario romano”, che in varie forme e per più testate si concluderà solo nel 1954, anno della sua tragica e prematura morte. Le critiche, ora spietate, ora amaramente ironiche, ora circostanziate, al Ventennio, puntellano buona parte dei suoi interventi su quotidiani e riviste, corpus giornalistico ricco, interessante, appassionante.

Equidistante, contro ogni tirannide

Intellettuale immenso, di cui sono debitori tanti scrittori posteriori, siciliani e non, per troppo tempo imbottigliato nelle facile e stereotipata definizione del “gallismo” della provincia siciliana, Vitaliano Brancati è stato un grande anticonformista, amatissimo, fra gli altri, da Leonardo Sciascia, e da Alberto Moravia che lo definì in fretta un “classico”. Nel tempo Vitaliano Brancati seppe allontanarsi dalle giovanili infatuazioni di destra, senza cadere nelle braccia della sinistra, equidistante, molto distante, da qualsiasi forma di regime fu laico, inorganico, liberale, indipendente, in largo anticipo su moltissimi intellettuali e compagni di strada che si resero conto tardi, o addirittura, non compresero mai, che chi aveva combattuto il totalitarismo in casa propria, non poteva gettarsi fra le braccia di un sistema politico e di una cultura che, sebbene in Italia non violenta e dominante un certi ambiti della società, altrove, a est, impediva a uomini e donne di vivere un’esistenza degna d’essere vissuta. Per Vitaliano Brancati la cultura è libertà contro tutte le tirannidi.

Farsi un regalo, fare un regalo

Raccolta postuma di suoi scritti, dalla travagliata vita editoriale, Diario romano (349 pagine, 22 euro) torna in grande spolvero in un’edizione della collana “E noi sull’illusione” del Palindromo, a cura di Massimo Schilirò, di cui si deve lodare il lavoro puntiglioso e una partecipazione amorosa al testo, oltre che il recupero di alcuni articoli che non erano stati precedentemente inclusi. Pubblicare un libro così bello consentirebbe a moltissimi editori di farsi perdonare nefandezze come la pubblicazione di qualsiasi cosa di improponibile esca dalla penna di attori, sportivi, giornalisti, comici, personaggi televisivi. La casa editrice palermitana Il Palindromo non deve chiedere scusa per niente di tutto questo, ha una coerenza che la porta su altri mondi. Accogliere nel catalogo questo libro di Vitaliano Brancati, col sui rigoroso ricorso ad un’amara vis comica, con la sua lucidità, con la sua orgogliosa libertà, con la sua statura europea, significa farsi un bel regalo e farlo ai lettori che amano gli stimoli, che coltivano la passione, che si fanno domande.

Politica, cultura, jet-set

Esame di coscienza: ecco tre parole gravemente discreditate in Italia. Il solo sentirle pronunciare dà fastidio e suscita una smorfia di ripugnanza come se alludessero a un’operazione immorale e leggermente disgustosa.

C’è un percorso personale, sebbene non intimo, c’è tanta politica, certamente, in queste pagine, ma anche uno sguardo al costume, all’antropologia e alla letteratura, alla sua vocazione alla letteratura, sempre con punti di vista originali e con sprazzi e inni all’immaginazione («La fantasia, pur nella sua innocenza, nasconde sempre un’involontaria protesta, in quanto è insofferente degli schemi e dei limiti del reale»). Scrive di Stalin, scrive di Nietzsche («… oltre che uno degli ingegni più vasti e umorosi, è uno degli stupidi più sconcertanti… Chi aspira ad essere forte, e si contenta poi di essere stupido, vada a scuola da lui»), spesso con giudizi tranchant, e perfino di gossip, del jet-set e del cinema, come della fuga dall’aitante e giovane marito svedese di Ingrid Bergman, per raggiungere Roberto Rossellini: «La più bella e più famosa donna del mondo preferisce un italiano geniale e con la pancetta, luccicante di calvizie tra i capelli oleati…». Finisce per essere questo corposo volume una sorta di magico “zibaldone” di Vitaliano Brancati, pieno di sagacia, acume e sapienza.

Viva la letteratura francese, ma non Sartre…

Il «genio» di Flaubert, l’amore per Stendhal, l’idolatria per Gogol, l’interesse per il metafisico e storico Manzoni, piuttosto che per il Manozni realista, un parallelo tra il Diario di Pavese e il Journal di Gide, parallelo impietoso per lo scrittore delle Langhe, bacchettate in serie al «grafomane» Sartre, la cui prefazione a un’opera di Baudelaire («Una lettura che gli sarebbe stata utilissima, egli l’ha rovinata perdendo il tempo a scrivere») indispettisce Vitaliano Brancati. Diario Romano è anche un godibile, indimenticabile osservatorio sulla letteratura.

Fascismo, materia putrefatta

Il fascismo non è un partito né una morale; è ormai una materia putrefatta. E veramente antistorico, un corpo estraneo.

Ma è infine, e a lungo, il perentorio distacco dal fascismo che domina tanti dei suoi articoli. Il fascismo di Vitaliano Brancati, accolto da giovanissimo con entusiasmo, si esaurì ben prima che il fascismo finisse, già nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento.  Il suo sguardo e la sua narrativa ne guadagnarono in ghigno sprezzante e malinconico, libertà da ogni pregiudizio e ideologia. Niente restò del diciassettenne dannunziano che aveva aderito al partito nazionale fascista, che aveva lavorato nel quotidiano del fascistissimo, e conterraneo, Telesio Interlandi, che estasiato aveva incontrato il duce; al suo posto un fustigatore, che faceva tanta autocritica senza cercare alibi, che si faceva beffe di fascismo e postfascismo, del loro conformismo e della loro indolenza, della loro mancanza d’ironia; ed ebbe come nemici anche gli antifascisti che censurarono la sua commedia La governante, impendendone la rappresentazione, perché parlava di omosessualità.

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