Sebastien Dulude da scoprire, un’amicizia fra i cumuli di amianto

L’infanzia e l’adolescenza in una città del Quebec dalle miniere in dismissione sono al centro di “Amianto”, romanzo di Sebastien Dulude. Un’elegia più che un romanzo sociale, con una terribile e mortale malattia che incombe, l’asbestosi. Due ragazzini vivono in simbiosi, condividendo avventure, fughe, dolori, desideri e la scoperta della sessualità

Poeta, editore e infine romanziere. Sebastien Dulude, di lingua francese, è un autore sorprendente per quel che racconta e per come lo racconta. Ha scritto un romanzo, un’opera di finzione, ispirato però da alcune esperienze d’infanzia e da una cittadina in cui ha vissuto una decina d’anni, fino all’adolescenza, Thetford, nel Quebec, un luogo noto per le miniere d’amianto. Proprio Amianto (192 pagine, 17,50 euro) è il titolo del romanzo di Sebastien Dulude, tradotto in italiano da Camilla Diez e pubblicato da La Nuova Frontiera. Basta superare lo scoglio delle prime pagine, in cui qualcuno può smarrirsi, in cui possono sfuggire le coordinate spazio-temporali, per regalarsi poi un’esperienza di scrittura notevole, scoprire un nuovo mondo (è abbastanza inedito il Quebec alle nostre latitudini, giusto Louise Penny e Mordecai Richler ricordiamo come autori nati in quella terra) e vivere un’amicizia fra giovanissimi, ambientata fra il 1986 e il 1991, che lascia il segno nel lettore. Non è propriamente letteratura working class, quella a cui appartiene il romanzo di Sebastien Dulude, che a suo modo tratteggia più un’elegia dell’infanzia perduta. Il ritratto sociale c’è, ma resta un po’ sullo sfondo.

Esplosioni lontane e peggiori che in città…

Più di un terzo dell’amianto estratto a livello mondiale proveniva da Thetford, dove i padri spariscono «ogni giorno», per via delle polveri mortali del metallo, che spesso porta alla malattia letale, l’asbestosi. A Thetford Steve, nove anni, fa amicizia con il giovane nuovo vicino di casa, Charlélie Poulin, che ha un anno in più. Alle loro spalle famiglie diverse, affetta da mascolinità tossica quella di Steve (un piccolo sensibile, a disagio fra miniere e motori, a cui preferisce musica e libri), con un padre manesco e una madre depressa, a differenza dell’altra, in cui i genitori sono amorevoli e presenti. I due vivono in simbiosi, condividono le bici e una capanna su un albero, fuggono, diventano inseparabili e vivono avventure – di mezzo anche la scoperta della sessualità, forse una latente omosessualità – fra cumuli di scorie, e collezionano ritagli, in particolare Steve su un quaderno, che raccontano una serie di disastri verificatisi nel mondo in quel 1986: il dramma nucleare di Chernobyl, la tragedia dello stadio Heysel con decine di morti per una partita di calcio, l’esplosione dello Space Shuttle Challenger, disintegrato dopo una settantina di secondi di volo. Esplosioni lontane che fanno il paio con quelle che regolarmente si sentono, assieme alle sirene, dalle miniere di amianto.

Ombre e vulnerabilità di un’età di passaggio

Con una scrittura naturalmente figlia della poesia, Sebastien Dulude intreccia parole dalla grande forza immaginativa, che sanno rendere ed evocare, con le parole giuste, i dolori e i desideri, la rabbia e la vergogna, le zone di luce e le zone d’ombra di un’età di passaggio, con tutte le sue vulnerabilità. È una scrittura con tante sfaccettature, che ha ritmo, piena di aggettivi spiazzanti, precisa, che trasmette sensazioni vive, a partire dai dettagli sensoriali, dall’inquietudine, dall’ambiguità. Nella prima parte del romanzo, come nella seconda, nel 1986, come nel 1991, quando già molto è cambiato, con Steve che fa i conti con l’adolescenza e con una forma di alienazione, e la compagnia mineraria di riferimento sta dismettendo l’area d’estrazione: la fortuna dell’amianto è decisamente in declino, il minerale cancerogeno non è più legale, anche se gli strascichi dei suoi effetti propagano ancora dolore e morte.

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