“I ragazzi”, il primo capitolo del classico di Edith Wharton

Pubblichiamo il primo capitolo del romanzo “I ragazzi” (320 pagine, 17,50 euro) di Edith Wharton, un classico che le edizioni Elliot riproporranno in libreria a partire da dopodomani, mercoledì 26. Per gentile concessione anticipiamo anche la copertina di questa nuova edizione. La traduzione è quella, storica, di Lucilla Jervis Rochat

Mentre il grosso piroscafo sovrastava il formicolio dei rimorchiatori che lo attorniavano, nella baia di Algeri, Martin Boyne guardò giù dal ponte scoperto verso la folla di passeggeri di prima classe che si accalcavano sulla passerella, coi volti inconsapevolmente esposti al suo esame.

«Come al solito, non c’è nessuno con cui avrò voglia di parlare!».

È inconcepibile la fortuna che alcuni hanno nei loro viaggi; basta che salgano su un treno o a bordo di una nave perché incontrino un vecchio amico o, quel che è meglio, se ne facciano uno nuovo. Capitano sempre nello scompartimento o nella cabina di qualche celebrità in viaggio, del possessore di un castello famoso o di qualche collezione rinomata, oppure di una personalità bizzarra e divertente. Quest’ultimo caso è naturalmente il più raro e il più prezioso.

Ecco, per esempio, il caso dello zio Edward, prozio di Martin. Le sue avventure di viaggio erano famose in famiglia. Quando tornava in America, alla sua casa di Boston dalla solenne mobilia, egli era il prototipo della benevola mediocrità; ma appena saliva a bordo di una nave o su un treno (o una diligenza nella sua lontana gioventù), il destino lo sceglieva quale protagonista di qualche magnifico incontro. Era la famosa Rachel durante il suo giro disgraziato negli Stati Uniti, Ruskin sul lago di Ginevra, l’arcivescovo di Canterbury mentre lo zio Edward stava ammirando con le dovute emozioni la tomba del Principe Nero, oppure il duca del Devonshire che gli parlava mentre stava facendo una domanda cortese (ma probabilmente insulsa) al maggiordomo che gli faceva visitare il castello di Chatsworth. Fatto sta che immediatamente Rachel gli mandava il biglietto per un palco di proscenio per la sua favolosa prima sera a Boston, Ruskin lo pregava di trascorrere con lui un mese a Venezia, l’arcivescovo lo invitava alla sua residenza e il duca a Chatsworth. Il risultato pratico di quelle esperienze era che lo zio Edward soleva rispondere alle eventuali domande con un sorriso mellifluo e gelido: «Sì, Rachel aveva molto talento ma nessuna bellezza», oppure «Nessuno poteva essere più semplice e alla buona del duca», o «Ruskin aveva realmente tutto l’aspetto di un gentiluomo».
Queste erano le impressioni lasciate allo zio Edward dai suoi successi senza pari nel gran mondo sociale, che aveva frequentato con benigna ottusità per più di sessant’anni.

Ben diverso era il caso del pronipote. In occasioni simili sarebbe certamente stato all’altezza della situazione e avrebbe apprezzato a dovere ogni opportunità, ma benché gli piacesse viaggiare e avesse viaggiato molto, condotto dalla sua professione di ingegnere in luoghi interessanti e poco conosciuti, e benché fosse sempre in cerca di incontri, non gliene capitavano mai. Le avventure gli sarebbero piaciute, ma un’avventura degna di questo nome gli era sempre sfuggita, e quando un uomo ha più di quarant’anni è probabile che non gli capiti più.

«Forse ne ha colpa la forma del mio naso» aveva detto fra sé quella mattina mentre si radeva nella spaziosa cabina di lusso del grande piroscafo che solcava il Mediterraneo.

Il naso in questione non aveva certo una forma avventurosa e non si protendeva in avanti come per ficcarsi nelle faccende altrui; gli occhi erano piuttosto distanti uno dall’altro, incavati, si socchiudevano quando guardavano da vicino ed erano di un grigio scuro che non dava alcun incoraggiamento al naso.

«Non c’è nessuno di cui valga la pena occuparsi, come al solito» brontolò. La giornata era splendida, il porto di Algeri sfolgorante di luce e di caldo, egli si sentiva disposto a godersi appieno le vacanze (le prime dopo molti mesi di un lavoro gravoso e assillante) e non poteva capacitarsi di essere considerato da tutti quale si era visto egli stesso quella mattina: un uomo di quarantasei anni, prudente e disposto a criticare ogni cosa, che a nessuno sarebbe venuto in mente di associare con un’avventura romantica o inaspettata.

“È la mia solita sfortuna; il meglio che mi potrà capitare sarà di poter serbare la cabina tutta per me sino alla fine del viaggio” rifletté filosoficamente rallegrandosi alla prospettiva di altri quindici giorni di solitudine sul mare prima… già, prima della tremenda incertezza di ciò che l’aspettava alla fine del viaggio.

“Non l’ho neppur vista da cinque anni!” pensò con quel senso di vuoto che dà la prolungata apprensione.
I passeggeri stavano ancora arrampicandosi sulla fiancata della nave, e si sporse e guardò di nuovo, ma questa volta aguzzò gli occhi e allargò leggermente le narici. La sua attenzione era stata attirata da una giovane donna, ancora quasi una ragazzina, che teneva in braccio un bel bimbo grasso e florido, evidentemente troppo pesante per la sua fragile corporatura; ma il bambino addormentato era avvolto da uno sguardo di così tenera sollecitudine che Boyne non poté reprimere un mormorio di ammirazione.

«Caspita! Se fossi più giovane!».

Gli uomini di quarantasei anni non si lasciano colpire da un bel volto con la stessa facilità di quelli di venti, ma quando capita la cosa è per loro molto più grave. Boyne non cercava facce belle ma facce interessanti, e fu quasi seccato di dover interrompere il suo esame per colpa di fattori così estranei al suo attuale stato d’animo quali un’estrema gioventù e una grazia quasi patetica.
«Diavolo! Quel bimbo è troppo pesante per lei; deve essersi sposata appena uscita dall’infanzia; brutto vigliacco, non aver…».
Il giovane volto che stava salendo verso di lui continuava a chinarsi sul bimbo, e le fragili spalle della fanciulla si piegavano sempre più sotto il peso, poiché l’affollamento davanti a lei l’aveva costretta a fermarsi in quella posizione, a mezza strada su per la fiancata del piroscafo.

Una balia in un’impeccabile uniforme le toccò la spalla, come offrendosi di alleggerirla del suo peso; ma la giovane donna strinse ancor più il bimbo a sé; la balia allora, chinatasi, si prese in braccio una bimbetta di quattro o cinque anni, coi capelli color carota e una vestina sgargiante che la faceva somigliare a una zingarella.

«Ma come, ne ha anche un altro? È una cosa da barbari e non dovrebbe essere permesso! Quella poverina…».

A questo punto l’attenzione di Boyne fu distratta dal passaggio di un cameriere che gli chiedeva dove dovesse mettergli la sedia a sdraio. Boyne si voltò per rispondergli e vide, sulla poltrona vicino alla sua, un’etichetta col nome: Mrs. Cliffe Wheater. Cliffe Wheater… Cliffe Wheater… Che nome ridicolo! Gli parve di ricordarsi di averci sorriso su allo stesso modo molti anni prima.
Ma sì, certo! Doveva proprio aver vissuto un secolo fuori del mondo, a causa del suo lavoro di ingegnere, prima in Argentina,
poi in Australia e, dopo la guerra, in Egitto, per essersi estraniato così completamente dal suo vecchio ambiente di New York, al punto di non ricordarsi subito di lui, del rubicondo Cliffe Wheater di Chicago, che gli era stato compagno a Harvard ed era poi diventato uno dei milionari più in vista di New York. Ma certo… Cliffe Wheater, il tipo d’uomo di cui si dice rispettosamente che ha “interessi” ovunque; Boyne si ricordò di aver incontrato gli “interessi” di Wheater perfino in Argentina. Però si diceva che dopo il suo matrimonio si interessasse specialmente agli alberghi di lusso e alle automobili di gran marca. E non aveva anche un panfilo? In ogni modo aveva moglie. Boyne ora ricordò tutto: aveva sposato, forse sedici o diciassette anni prima, quella bella ragazza di New York, Joyce Mervin, che Boyne stesso aveva corteggiato e con cui aveva ballato durante un inverno subito dopo aver finito l’università. Joyce Mervin; lei gli aveva scritto per renderlo partecipe del suo fidanzamento mandandogli una piccola istantanea di sé con “Addio, Martin” scritto su. “Forse aveva avuto una simpatia per lui?” si chiese Boyne. In quel tempo era troppo povero per potersene accertare, e ora lui e lei stavano per essere compagni di viaggio per quindici giorni, sui mari incantati fra Algeri e Venezia! Ripensò alla faccia che aveva contemplato quella mattina nello specchio mentre si faceva
la barba: “È probabile che essa non sia affatto cambiata, le donne di mondo si conservano in modo straordinario; ma non potrà certo riconoscere me” disse fra sé. Quell’idea era per lui umiliante e rassicurante insieme. Così avrebbe potuto osservarla e farsi portare la sedia a sdraio altrove, se il risultato non fosse stato soddisfacente.

La nave si era scossa via d’attorno alle murate palpitanti lo stuolo formicolante di rimorchiatori e di battelli, e si dirigeva verso Oriente, con l’ampia distesa azzurra davanti a sé. Boyne prese un libro, si calcò il cappello sulla fronte e si sdraiò aspettando Mrs. Wheater.

«Così va bene, sì, mi pare che vada bene» sentì dire accanto a sé da una voce limpida e ancora acerba, la voce di una ragazzina. Boyne tirò indietro la testa e vide, a pochi passi di distanza, la snella fanciulla che aveva portato su per la passerella il bimbo rubicondo.

La giovane tacque, dette un’occhiata lungo la fila di sedie a sdraio nella sua direzione, fece un cenno al cameriere e disparve per la porta di un appartamento di lusso un po’ più avanti. Nell’attimo in cui si era fermata, Boyne aveva potuto scorgere un piccolo viso pallido e inquieto con le sopracciglia aggrottate, immensi occhi scuri dall’espressione malinconica e una bocca con labbra piene e vermiglie che sembravano pronte a sbottare da un momento all’altro in un’allegra risata. Non gli venne fatto di chiedersi se quel volto fosse bello o no perché era rimasto colpito unicamente dalla sua espressione.
Mentre entrava nella cabina la sentì dire, con voce rapida e sicura, a qualcuno nell’interno: «Tata, Chip ha avuto il suo latte? Chi occupa la cabina assieme a Terry?».

“Che madre!” pensò Boyne chiedendosi di nuovo se quella giovane fronte non fosse stata oscurata troppo presto dalle preoccupazioni materne.

«Mi scusi, signore, ma c’è un nuovo passeggero nella sua cabina». Il cameriere stava passando con due eleganti valigie e un rotolo di coperte.

“Accidenti! Mi doveva capitare anche questa!”, Boyne si alzò con un sospiro e seguì il cameriere. «Chi è? Lo sa?».

«Veramente non saprei, signore. Si chiama Wheater». Ecco finalmente una coincidenza! La poltrona di Mrs. Wheater era accanto alla sua e il suo vecchio compagno di scuola avrebbe diviso la cabina con lui. Se non proprio soddisfatto, Boyne era però leggermente eccitato e interessato da quell’inaspettato concorso di circostanze.
Si voltò e vide un ragazzino sulla porta della cabina che lo stava esaminando con occhio critico. «Va bene, vada pure» disse il ragazzo tranquillamente. Aveva la voce piuttosto acuta, né lamentosa né effeminata ma soltanto sottile e un po’ stanca, come la sua esile figura. Boyne giudicò che potesse avere circa undici anni e fosse troppo alto e maturo per la sua età, il che confermava la fragilità fisica rivelata dalla voce. Era vestito accuratamente come uno scolaro inglese, ma non sembrava inglese; il suo aspetto era cosmopolita come se fosse stato affinato e levigato dal contatto con troppe civiltà diverse, o forse semplicemente con troppi alberghi diversi.

Egli continuò a esaminare Boyne con aria benevolmente critica, poi osservò: «Sto qui con lei, lo sa?».

«Ah, sì? Credevo si trattasse di suo padre».

«Davvero? Strano. Lei conosce mio padre?».

«Lo conoscevo, siamo stati insieme all’università».

Il piccolo Wheater parve interessarsi poco a questo fatto. «Le dispiace dirmi il suo nome?» chiese come per assolvere il suo dovere di persona bene educata.

«Mi chiamo Boyne, Martin Boyne. Ma è passato tanto tempo da quando suo padre e io eravamo amici che non è probabile le abbia parlato di me».

Il figlio di Mr. Wheater rifletté un momento. «Anche se avesse parlato di lei, difficilmente avrei potuto sentire; non siamo quasi mai con mio padre» aggiunse con palese amor di sincerità.

Una bimba della stessa età e statura, ma dalla bianca carnagione di bionda meno pallida di quella del ragazzo, entrò nella cabina e passò un braccio sotto quello del ragazzo.

«Ti ho cercato dappertutto» disse. «Mi manda Judith».

«Ero qui, con questo signore».

La bambina sollevò le palpebre ombrate da lunghe ciglia e guardò a lungo Boyne con due grandi e magnifici occhi grigi. Poi strinse le labbra scarlatte e disse al fratello: «Lo potrai sopportare, Terry, per quindici lunghi giorni?».

Il ragazzo arrossì e svincolò il braccio. «Stai zitta, stupida!» la sgridò.

«Lasciami andare a dire a Judith di dare una mancia al cameriere…».

Egli le scosse il braccio, adirato. «Vuoi una buona volta star zitta quando te lo dico io? Questo signore è amico del babbo».

La bambina mormorò un «Oh!…» quindi aggiunse, dopo un’altra rapida occhiata a Boyne: «Non si direbbe».

«Blanca! Vuoi andartene, per favore?».

La bambina vacillò, le sue labbra vivaci tremarono e si voltò confusa andandosene correndo sul ponte.

«Non capisce niente, è soltanto la mia gemella» disse Terry Wheater scusandosi.

Finì di esaminare la cabina, dette a Boyne un’occhiata un po’ malinconica, poi se ne andò lentamente in cerca della piccola colpevole. Boyne tornò sul ponte e riprese il libro che, pur interessandolo, non gli impediva di osservare con la coda dell’occhio la sedia vuota accanto alla sua, che portava il nome di Mrs. Wheater. Il desiderio di vederla era aumentato immensamente dopo l’incontro con suo figlio e sua figlia. Ora che il passato gli tornava chiaro alla mente, gli parve che quest’ultima somigliasse molto alla madre, pur essendo diversa. Joyce Mervin… sì, aveva le stesse labbra vermiglie nel volto pallido e quasi diafano, e muoveva i grandi occhi con la stessa maestria; ma sua figlia sembrava fatta di una sostanza più fine e più delicata, come se avesse ereditato soltanto una parte delle qualità di Mrs. Wheater e le si fosse invece aggiunta una goccia di qualche rara essenza. “Forse perché la bambina è una mezza individualità mentre sua madre lo era anche troppo” pensò Boyne ricordando
come Joyce Mervin abbondasse nelle sue caratteristiche. «In questi casi è meglio essere una gemella» concluse.
Ma com’era tutto complicato! Terry somigliava molto meno a Cliffe Wheater di quanto sua sorella somigliasse alla madre. Anche nel caso del ragazzo, anzi molto di più, la qualità sembrava aver sostituito la quantità. Boyne sentì, senza potersene spiegare il perché, che sotto il sussiego di Blanca poteva celarsi qualcosa di sfacciato e perfino volgare, mentre suo fratello era essenzialmente fine e distinto. Peccato che un ragazzo tanto attraente apparisse così delicato!

All’improvviso, la giovane donna col bimbo uscì dall’appartamento di lusso. Teneva per mano il cherubino mezzo addormentato e lo guidava sul ponte con attenzione materna. Si lasciò cadere sulla sedia a sdraio accanto a Boyne, si tirò il bimbo sulle ginocchia e fece un cenno al cameriere perché le mettesse una coperta sulle gambe. Poi si sdraiò con un sospiro di sollievo.
«Si sta bene così, vero, Chip?» disse con la sua voce allegra e argentina. Chip fece un risolino da bimbo soddisfatto e ben pasciuto e si baloccò col bordo del suo cappello. Era chiaro che quei due avevano un’alta opinione uno dell’altra.

I ragazzi

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