Puglisi e “Centootto volte più grande del sole”

Sarà presentato in anteprima, domani alle 20.30, alla chiesa di Cristo Re di Paternò, “Centootto volte più grande del sole” (678 pagine, 25 euro) il primo romanzo di Nuccio Puglisi, firma di LuciaLibri, pubblicato dalla casa editrice catanese Carthago. Pubblichiamo un estratto, il primo capitolo, per gentile concessione dell’editore.

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Il primo capitolo di un libro è come il primo sguardo rivolto a qualcuno. Se ne osserva qualche tratto, più o meno interessante, e poi ci si chiede se è il caso di avvicinarsi a questa persona e domandare “come ti chiami?”. La risposta a questa domanda è tutto il resto del libro. E dopo questa risposta vengono fuori altre mille domande. E alla fine si capisce che abbiamo fatto bene a chiedere quel nome.
Una partita importante, un’assenza insopportabile, una ragazza forte e determinata.
Nei segni e nei colori di questo capitolo, dove la scena è solo un argomento transitorio, sono custoditi i semi di tutta la storia. Dove altra sarà la partita, dove un’assenza diventerà presenza, e dove la forza e la determinazione della protagonista si trasfigureranno in una forma impensabile, in uno slancio eroico tirato fuori dal più arduo dei campi di battaglia: la clessidra dei giorni. Dove essere eroi significa essenzialmente una cosa: essere se stessi. (np) 

CAPITOLO I
Una partita difficile

Nonostante ci fosse tanta gente, tutto era fermo. Tutto era fermo e teso. E nell’aria si percepiva solo il fruscio continuo e ritmico di quel vento estivo di scirocco, che creava solo fastidio e certamente non serviva a placare l’insopportabile calura.
Per gli spettatori, per lo più papà e mamme sparsi sugli spalti come ufficiosi protagonisti dell’evento, quello era solo un pomeriggio come tutti gli altri. Nessuno di essi riusciva a sentire quel silenzio lì… Nessuno di loro aveva la percezione che tutto fosse così fermo e così teso. Perché non erano loro a dover giocare quella partita, non erano loro a dover vincere il nemico, né a doversi misurare con se stessi.
Per i ragazzi, evidentemente, era tutta un’altra storia.
Ognuno di essi si sentiva in balia di forze contrastanti, e forse l’esito finale dello scontro rappresentava solo l’ultima delle loro preoccupazioni. Prima del punteggio che alla fine avrebbe decretato la vittoria di una squadra sull’altra, sarebbero stati ben altri i demoni da dover inseguire, e le piccole battaglie da dover combattere senza esitazioni e rilassamenti!
C’era un primo nemico da dover sconfiggere: la maledetta ansia da prestazione! La paura di essere tecnicamente inferiori, e quindi fondamentalmente inadeguati al confronto con una squadra più forte. Ma il coach aveva detto che in un vero confronto, tanto nello sport quanto nella vita di tutti i giorni, si poteva risultare talvolta inferiori ma in nessun caso inadeguati. Chi avesse deciso di confrontarsi, avendo dalla sua le giuste premesse e le giuste motivazioni, non sarebbe mai stato inadeguato! Se vi sforzerete di non essere mai inadeguati dinanzi a voi stessi, non lo sarete dinanzi a nessuno!
E questa frase, ripetuta mille e mille volte come un mantra, intonacava la mente confusa e spaventata di quei ragazzi con una mano bianca di fiducia in se stessi.
C’erano poi le aspettative dell’allenatore. O meglio, quelle che essi credevano essere le sue aspettative. Di quest’uomo che spendeva gran parte del suo tempo a trasformare degli alunni di liceo in veri giocatori, e che cercava in tutti i modi di convincerli che le regole fanno il gioco, ma mai il giocatore! Il giocatore, di regole, ha le sue!
Questo però quei ragazzi non sempre lo capivano fino in fondo, e non avevano il tempo di spingersi così in fondo dentro l’anima del coach, fino al punto di comprenderne i fini. Gli bastava sapere che quell’uomo credesse in loro, e ovviamente non avrebbero voluto deluderlo per nulla al mondo. Erano però già capaci di concepire un’idea autenticamente umana: “vincere” non serviva a renderlo contento e soddisfatto, ma soltanto felice. E quindi cercavano di ripagare la sua dedizione dando il meglio.
Erano presenti anche i tanti genitori che, con le loro mani alzate in aria in improvvisate tifoserie da stadio, spuntavano da tutte le parti. Nella maggior parte dei casi, parteggiavano per i loro figli, e non per la squadra dei loro figli… Non era la squadra a vincere o perdere, ma i loro figli, carne della loro carne e ossa delle loro ossa.
Se il loro bambino di diciott’anni faceva guadagnare un punto alla squadra, il più delle volte l’evento veniva trasformato in un orgoglio familiare, domestico, che con ogni certezza non avrebbe avuto nulla da dover condividere con l’intero team, e non si sarebbe convertito in una riconoscente stretta di mano con degli estranei. Se però il loro figlio falliva, e magari veniva eliminato per uno strike out, allora in una qualche maniera la squadra avrebbe avuto ogni ragione per fare il computo delle proprie responsabilità in tanta ingiustificabile tragedia; perché se un ragazzo così intelligente, sveglio e pieno di riflessi, praticamente un asso, non era riuscito a battere neanche una palla su tre, allora qualcuno doveva per forza averne colpa…
Ora, non che la categoria dei genitori fosse costituita da vanitosi imbecilli, per carità… Erano semplicemente genitori, e in quanto tali era difficile farli entrare nell’idea che lo sport è utile soprattutto quando per mezzo di esso un ragazzo impara a confrontarsi con le proprie sconfitte, e contemporaneamente ti insegna che mai, mai e in nessun caso, devi rinunciare a vincere!
Così, mentre su quel campo a diamante si giocava una partita, sulle tribune e sugli spalti se ne giocava un’altra: genitori contro genitori. E gli inconsapevoli figli troppe volte diventavano, in un inconscio gioco di rivincite generazionali, delle sospirate corone d’alloro di cui fregiarsi con amici e colleghi. La possibile vittoria di molti di quei ragazzi era votata fin dall’inizio a trasformarsi nel non meglio identificabile alibi di decennali frustrazioni in famiglia e al lavoro di qualche insoddisfatto genitore.
Naturalmente, però, c’erano anche nobili eccezioni.
Padri e madri che avevano anch’essi praticato qualche sport, o che semplicemente ne comprendevano pienamente l’essenza, e che sapevano che i loro figli dovevano innanzitutto imparare a contendere con se stessi, a vincersi piuttosto che a vincere, a spingersi più avanti di quelli che ritenevano i loro limiti naturali, a guardare sempre oltre, anche quando credevano che l’oltre fosse stato ormai raggiunto da un pezzo. Questi papà e queste mamme osservavano la partita dalle gradinate, senza troppi inni da stadio, e gioivano in cuor loro non tanto per un buon lancio andato a segno, ma per il fatto che tra il loro ragazzo e il compagno che aveva intercettato la palla c’era stato un evidente feeling! Quell’intesa, formatasi dopo ore ed ore di allenamenti pomeridiani, avrebbe messo loro figlio nella condizione di saper trovare, in ogni altra circostanza della vita, in ogni altro momento, l’opportunità di saper comunicare e di saper riconoscere un’occasione quando ne avesse incontrata una. Sì, per quei genitori così rari anche il baseball avrebbe avuto il merito di preparare quei figli ad interpretare la realtà.
Ma naturalmente, e in modo assolutamente speculare, per quei giovani giocatori il pensiero dei loro genitori che li osservavano dall’alto doveva rappresentare una preoccupazione abbastanza consistente. Quale che fosse stata la maturità sportiva di un papà o di una mamma, ogni figlio sperava di tornare a casa con la vittoria sotto il braccio.
E in fondo, chi avrebbe potuto biasimare i ragazzi per una tale e innocentissima speranza di vittoria?
In quella stagione meravigliosa dell’esistenza in cui tutto è splendidamente verde e non ancora corrotto, ed ogni sogno è votato alla celebrazione della vita anche se sbatte sempre contro i primi fallimenti di anime candide che tentano di diventare grandi ed autonome, e che tentano di rialzarsi sempre alla conquista del mondo, quale criminale e corruttore della gioventù avrebbe avuto mai il coraggio di istillare in loro il più odioso e pusillanime dei proverbi?
L’importante è partecipare…
Forse, in un guizzo di giovanile fortuna, si sarebbero trovati accanto chi avrebbe speso del tempo a spiegargliene l’essenza, piuttosto che buttarglielo lì, come una vile prudenza, come un sapienziale camerino oscuro in cui rifugiarsi da perdenti.
E loro lo sentivano. Lo capivano bene che, più di ogni altro, c’era da sconfiggere il nemico numero uno, che non era affatto la squadra avversaria. Quella semmai diventava lo strumento per poterlo annientare. Era il “se stesso” di ognuno di quei ragazzi. Ognuno di essi, o col guantone, o con la mazza, avrebbe dovuto piegare alla propria volontà di vittoria quella parte di coscienza ancora avvinta dal terrore dell’inconosciuto.
Ancora non sapevano chi fossero, non si conoscevano nel dispiegarsi della loro giovinezza, e non avevano capito nulla del sogno di Icaro! Vedevano il sole brillare nel cielo, in quel pomeriggio terribilmente infuocato, e si lasciavano ardere senza neanche sapere che quel sole avrebbero potuto conquistarlo in qualunque momento, anche a rischio di precipitare. Non erano consci del fatto che, alla loro età, tutto era potenzialmente possibile, poiché le promesse dell’Infinito non erano ancora state aggredite dai “no” del mondo. Non lo sapevano ancora, e tremavano; giovani e indifese creature.
Da un lato volevano vincere, dall’altro avevano il terrore di non riuscirci, e questa paura la sentivano nascere dentro di loro come un insieme di cellule impazzite, che invadeva il midollo della loro innocenza. Non gliene fregava niente in fondo del giudizio degli altri, anche se ciascuno avrebbe razionalmente affermato il contrario. Il tribunale più feroce si ergeva dentro di loro.
Se avessero perso la loro occasione, se in quella partita qualcosa fosse andato storto e si fossero ritirati a casa con le facce macchiate di terra e di sconforto, in fondo, un abbraccio di mamma non gli sarebbe stato negato. E alla fine della partita il loro allenatore li avrebbe comunque rincuorati con mille ragioni, spiegando loro che chi ha fatto del proprio meglio ha già vinto. E la folla? Oh… La folla avrebbe applaudito senz’altro quei ragazzi, perché avevano celebrato uno spettacolo di tenerezza, perché avevano comunque donato alle tribune una pubblica esecuzione di giovanile splendore.
Sì, le masse applaudono sempre sull’operato dei fanciulli e degli adolescenti. C’è una sorta di ingiustizia anagrafica che si mescola quasi invisibilmente, e con la più normale naturalezza, alla pedagogia spicciola di tutti i giorni, come quando due bimbi all’asilo bisticciano, e la maestra intima loro ad un certo punto di stringersi la manina e di fare la pace, senza però che si cerchi di entrare in quel microcosmo dove, magari, uno dei due ha in fondo più ragione dell’altro.
E così il bambino cresce pensando che la giustizia degli adulti sia in fondo una “pace senza giustizia”, e quando vive gli anni dell’inquietudine adolescenziale lo avvilisce terribilmente scoprire ancora una volta come la sua interiore sete di essere capito sia poi ridotta, molte volte, ad un affettuosissimo: lascia stare, in fondo sei ancora un ragazzo.
E gli applausi del mondo adulto esaltano troppe volte così l’adolescenza, senza sostenerla, senza volerne diventare parte! Applausi che rimangono spesso in superficie, inventando una comoda realtà secondo la quale un ragazzo, solo perché tale, non possa vivere veri e propri drammi. Quanto è raro trovare un applauso che gli scenda dentro, che sappia abbracciare le sue sconfitte, e che celebri non il suo “aver partecipato” ma il suo “aver voluto vincere”!
Forse, in realtà, questo implicito mettersi d’accordo sul fatto che una partita di baseball fosse solo una cosa da ragazzi, e che dunque non fossero possibili delle piccole tragedie al livello di quelle anime, era per tutti come una specie di sadica eutanasia, come una specie di inconfessata vendetta… Perdano pure, loro che possono! Tanto sono giovani! Hanno tutta la vita davanti!

Alessandra non pensava certo a tutto questo… o almeno non in questo modo.
I pensieri le si accavallavano nel cervello senza poter creare spazi ulteriori di riflessione, anche perché sulla sua relazione con se stessa c’aveva riflettuto già tante volte ed era certa di essersi già confrontata con le zone più scomode della sua interiorità, riuscendo però, dopo tanti sforzi, a capire di che materia fosse fatta la sua anima. Era, e sapeva di essere, una ragazza forte e decisa!
Questo le bastava, in generale, come piattaforma quotidiana, come qualcosa che faceva da cornice alle sue azioni, alle sue decisioni. Ma in quel pomeriggio così caldo non poteva certamente bastarle! Durante quella partita non era sufficiente la consapevolezza di essere padrona di se stessa e delle proprie scelte; una partita non era fatta per improvvisare soliloqui e passeggiate davanti allo specchio dell’anima, ma per lottare e fare un culo così agli avversari.
E poi… non c’era nessuno a guardarla dalle panche della tribuna. A cosa sarebbe servito impegnarsi per dare il meglio di se stessa, per doverlo poi consegnare ad un’assenza biondo platino, come se fosse un atto dovuto e devoto? Tanto valeva combattere per se stessa e per gli altri che come lei si erano conquistati faticosamente quel campo, quell’opportunità, e che ora dovevano dar prova di averlo meritato.
Anche se giocavano in casa…
E questo nel baseball non è sempre una buona cosa…
Gli ospiti cominciano sempre per primi, aprono il sipario e la scena, mettono in campo il loro primo attacco, fin da subito, e se sanno il fatto loro e si aggiudicano bene la prima parte dell’inning, allora già qualcosina comincia a non andar bene per l’altra squadra. Sì, perché esattamente come a scacchi, anche a baseball le prime mosse hanno il magico potere di determinare gli eventi successivi, almeno a livello psicologico, e soprattutto se la squadra in difesa è fatta da ragazzi più giovani e meno esperti.
La situazione, praticamente, era proprio questa.
La squadra che aveva cominciato in attacco, e che in pochissimo tempo si era già aggiudicata i primi due inning, era formata da ragazzi già da tempo appartenenti ad una società sportiva. I Winders, tutti giovanotti sui quindici, sedici anni, si facevano strada alla grande tra le giovanili. Giocavano da quand’erano bambini, ed era evidente che il loro stile e la loro preparazione non erano affatto di tipo dilettantistico.
La squadra di Alessandra, invece, anche se era costituita da ragazzi di un paio di anni più grandetti, era un insieme di liceali messi insieme dal loro professore di Educazione fisica, un inguaribile appassionato di baseball che, oltre al solito calcio, aveva provato a far gustare a quegli studenti qualcosa di nuovo, facendo sperimentare loro il brivido di uno sport che a Catania era conosciuto e giocato da pochissimi.
Così, tre anni prima, passando per le varie sezioni delle prime liceo, aveva reclutato ragazzi interessati a farsi coinvolgere da questo esperimento sportivo, e il tentativo era riuscito abbastanza bene.
Aveva in squadra una ventina di elementi maschi, e una sola ragazza. Alessandra non avrebbe mai potuto giocare insieme ad una squadra maschile, se non si fosse trattato di un team scolastico. Per le ragazze, infatti, era stato inventato il softball, una sorta di baseball più femminile, col campo da gioco più piccolo e la palla più grande, e qualche altra notevole differenza.
Per il prof. Di Guardo, naturalmente, questi erano solo dettagli. Alessandra era stata l’unica della scuola a voler entrare nei Greenrays, e lui non le aveva certo detto di no, tanto più che col tempo si era anche dimostrata piuttosto brava. Certo, era l’unica studentessa in campo; ma a quei livelli così scolastici di gioco, dove oltretutto non c’era nessuna società sportiva a dover porre regole e controlli, nessuno si sarebbe messo a sindacare sulla situazione. Anzi, era bello e sorprendente, ad un certo punto, veder spuntare in campo, con quella sua divisa a righe verde Irlanda e il cappellino dello stesso colore, quel ragazzo un po’ più bassino degli altri, con quei codini neri. Beh… quel ragazzo di un metro e cinquantatré coi codini neri era proprio lei. La gente normalmente ci metteva un po’ a realizzare, ma poi partiva sempre uno scrosciante battimano e qualche gridolino qua e là. E Alessandra diventava feroce quando capiva di essersi trasformata nel fenomeno di turno. Le dava un fastidio tremendo quel “benvenuto” così discriminante. Avrebbe preferito semmai meritarsi qualche applauso dopo un bel lancio, questo sì.
I suoi compagni di squadra, che ormai ne conoscevano bene il caratterino, ridevano di gusto quando si arrabbiava, e volentieri si mettevano ad applaudire insieme al pubblico se questo poteva significare farsi mandare a quel paese dalla loro amica. Poi finiva che a ridere era anche lei. E la partita poteva cominciare. E ogni volta il coach le diceva: «E tu tagliati i capelli, Ale, così non se ne accorgono che sei femmina».
«E poi cosa mi darebbe il gusto di umiliarvi sul campo, a voi maschi?»
«Non provarci neanche per scherzo!» le aveva risposto una volta Riccardo, un ragazzo della sua squadra, che era anche suo compagno di classe.
«A fare cosa? Ad umiliarvi?»
«No, a tagliarti i capelli.»
Era il suo momento. Finalmente.
In soli tre anni, Alessandra aveva dimostrato di essere davvero un talento, un lanciatore potente e preciso! Tutto, ovviamente, rimaneva proporzionato alla sua età e alla sua esperienza. Non aveva ancora né la resistenza, né il braccio di un vero e proprio starter, capace di reggere due terzi di gioco lanciando almeno un centinaio di palle senza fermarsi; era però, a detta del suo professore, già ben oltre il ruolo del closer: non veniva messa in campo solo alla fine, quando c’era bisogno di qualcuno che desse il colpo di grazia alla squadra avversaria. Non era affatto una di quelle brave che però durano pochissimo.
Al contrario, Ale era forte e resistente, e per essere in fondo niente più che una dilettante aveva anche una buona tecnica. Qualunque manager, con un po’ di allenamento in più e qualche anno ancora di campo, l’avrebbe certamente voluta come partente. Di Guardo lo credeva sul serio, e coltivava dentro di sé il desiderio di consegnarla prima o poi, magari dopo il diploma, a qualche vera squadra di softball.
In questa particolare partita, dove i Greenrays stavano già in netto svantaggio, con due soli punti contro i nove degli avversari, il professore aveva deciso di farla giocare a partire dal terzo inning e, se lei ci fosse riuscita, fino alla fine. Per quanto i Winders fossero dei veri e propri giocatori, nessun battitore avrebbe mai potuto sospettare che una ragazza come quella sarebbe stata capace di far raggiungere alla palla gli ottanta chilometri orari, riuscendo peraltro a giocarsi degli effetti niente male. E poi… poi c’era l’aspetto psicologico, che non era certamente l’ultimo da considerare… Alessandra era una ragazza… Cosa mai ci sarebbe stato da temere?
Il coach, mentre lei era ancora nel bullpen, affondò il suo sguardo in quegli occhietti verdi come il cappellino che li riparava dal sole, e le fece capire che era giunto il momento di tirar fuori l’asso nella manica, e l’asso doveva essere lei.
Alessandra raccolse la sfida con incredibile gioia, come una bimba di otto anni a cui viene chiesto di andare in missione nello spazio; erano così rare per lei le occasioni in cui qualcuno la faceva sentire importante…
Dopo aver sentito dentro di lei il caldo brivido della soddisfazione, iniziò a sentirsi smuovere le viscere da un fremito incontrollabile, e subito dopo venne la paura, la grande e insostituibile compagna dei veri eroi. Se non ci fosse stata questa paura, che le faceva battere tre volte più forte il cuore, avrebbe avuto la certezza di essere una presuntuosa e una folle, e di non avere alcun rispetto per la sua squadra, per il suo coach e per se stessa in generale.
La paura, che pure tante volte ci costringe a guardare in basso, sa anche essere una buona alleata se ci ricorda di che cosa siamo fatti e quali sono i nostri limiti.
Con gli occhi rivolti alla punta delle sue scarpette nere e battendosi il palmo della mano destra sulle gambe, come faceva sempre quando sapeva che tutti avevano gli occhi puntati su di lei e lei, invece, non aveva proprio alcuna intenzione di guardare nessuno, Alessandra si mosse saltellando velocemente verso il monte di lancio, immaginandosi per un momento completamente sola dentro quel campo così grande.
Poi… alzò lentamente lo sguardo dalla microscopica parte di universo attaccata ai suoi piedi, e il suo orizzonte visivo cominciò ad allargarsi sulla realtà che la circondava.
Attorno a lei c’era la rossa terra battuta che, vista ogni volta così da vicino, le dava l’impressione di trovarsi ferma sulla superficie di Marte; alla sua sinistra e alla sua destra, in una rigorosa e protettiva equidistanza, stavano la prima e la terza base, difese rispettivamente da Gianluca e da Salvo.
Con la coda dell’occhio sinistro riusciva a scorgere anche i lenti movimenti di Marco, il difensore della seconda base, quella invisibile ad ogni lanciatore.
Con l’altro occhio, spostando un po’ la testa verso destra, ecco Giancarlo, l’interbase, che doveva cercare di saltare in alto, col suo guantone, proprio in quella parte di campo dove arrivavano la maggior parte delle palle battute.
Dietro tutti questi suoi amici, che attorno alle tre basi sembravano formare una piccola e simpatica guardia pretoriana, stavano gli altri tre difensori della sua squadra, gli esterni, che si perdevano nello sconfinato e verdissimo spazio dell’outfield.
Lei non li poteva vedere, ma c’erano anche loro: Andrea a destra, Matteo al centro, e Riccardo esterno sinistro; sì, proprio quel Riccardo che le aveva intimato di non tagliarsi i capelli, e che in squadra era certamente uno dei giocatori più promettenti; dava il meglio di sé correndo e saltando sulle palle in volo come un leone su prede impossibili.
Dopo aver familiarizzato con le misure che la distanziavano dai suoi compagni, e aver realizzato che in quella sfida, fortunatamente, non sarebbe stata sola, Ale guardò finalmente avanti. Diciotto metri davanti a lei stava il suo obiettivo più sensibile, così notoriamente grande eppure sempre troppo piccolo per un lanciatore: il guantone.
Dietro, e dentro quel guantone, c’era il catcher, il difensore stratega, quello che stava accovacciato sui polpacci tutto il tempo, e aveva la visione di tutto lo spazio di gioco; quello che manteneva il contatto visivo con i difensori vicini alle basi, e che mentre impugnava il guantone con una mano, con l’altra tracciava in mezzo alle gambe dei segnali che riceveva dal coach e che il pitcher, il lanciatore, avrebbe dovuto a sua volta interpretare in un istante.
Si trattava di segnali riguardanti il tipo di lancio che egli consigliava e proponeva all’altro, in base alla strategia che pensava di adottare facendo leva sugli angoli morti, o sui talloni d’Achille, del battitore di turno.
Fabio, questo era il nome del catcher, guardava Alessandra da dietro la mascherina metallica, con quegli occhi sottili e attenti, dando le ultime istruzioni prima di chiamare il lancio. Lei, naturalmente, poteva obiettare sulla strategia proposta dal suo compagno e fargli capire che avrebbe realizzato un tiro diverso da quello che lui riteneva il più indicato. L’importante era, in ogni caso, che tra i due ci fosse un’ottima intesa; pitcher e catcher dovevano lavorare infatti con una sola testa.
Una cosa che aveva sempre costituito per Alessandra un certo limite, e la condizionava terribilmente nel momento in cui doveva dare il meglio di sé, era la possibilità che la palla potesse colpire in faccia il ricevitore. Certo, la pettorina e la maschera, che sarebbero state in grado di ammortizzare lanci molto più potenti di quelli che Alessandra avrebbe potuto eseguire, erano concepite proprio per evitargli danni qualora fosse stato beccato dalla palla, che era leggermente diversa, come peso e dimensione, da quella usata nel ping-pong…
Tuttavia, alla ragazza questo non bastava ancora. In quella meticolosa attenzione che faceva da preludio ad ogni suo lancio, una grande percentuale di concentrazione era costituita proprio “non” dal fare arrivare la palla nel guantone, ma dal non farla arrivare sulla faccia del suo compagno. E comunque, non le era accaduto neanche una volta di colpire la mascherina di un catcher. Ma l’aveva visto succedere, e non avrebbe mai voluto che accadesse a lei.
La zona di strike era lì: pronta a farsi attraversare da un meteorite infuocato come se fosse stata l’intera volta celeste, ma tutta riassunta in un’area rettangolare che aveva come lunghezza la stessa che vi era tra il petto e le ginocchia del battitore, ovvero tutto lo spazio in cui questi avrebbe potuto colpire la palla con la sua mazza.
In realtà, un batter avrebbe potuto eseguire un colpo sulla palla anche se questa non fosse stata perfettamente in zona di strike, e talvolta un lanciatore esperto sapeva approfittare anche di questo.
Osservare con attenzione, nel baseball, è una formula vincente! Se ti accorgi che un batter non riesce ad eseguire una battuta lunga, quando la direzione della palla lo costringe a colpire con la punta e non con l’interno della mazza, e sei veramente un asso, allora potresti anche decidere di sacrificare una possibilità di strike e, dando alla palla una traiettoria più laterale, mandargliela proprio lì, su quel punto della mazza che lui non riesce a controllare al meglio, sperando così che lui possa batterla malissimo e la palla sia subito intercettata da uno dei tanti difensori presenti in campo.
Ma è sempre un rischio. Poteva capitare esattamente il contrario; che quello cioè, proprio con la punta della sua mazza, dove si raccoglie e si condensa tutta la forza e l’energia della battuta, ribattesse la palla talmente forte da mandarla in fuori campo. In quel caso i difensori difficilmente avrebbero potuto fare qualcosa, e il batter avrebbe fatto la sua tranquillissima passeggiatina da una base all’altra, fischiettando come se non esistesse un domani, fino a casa base, facendo guadagnare un bel punto alla sua squadra.
Per questo occorreva non spingersi troppo avanti con l’immaginazione, se non si voleva correre il rischio di spianare la strada agli avversari.
Ma come si può giocare a baseball senza che il rischio dia sapore a tutto? Non è mica dietro un pallone che devi correre! Qui ci vuole originalità, prodezza! È una scommessa continua e devi entrare nella testa di ogni giocatore, compagno o avversario, facendoti interprete praticamente di tutto e di tutti! Se c’è un gioco veramente (e tragicamente) di squadra, è proprio questo!
Alessandra mise infine gli occhi dentro quelli del battitore, un ragazzo che magari, in un altro contesto, avrebbe osservato in un altro modo… E invece, lì sul campo, quello era uno da dover mandare in out, e bisognava subito impegnarsi a trovare la maniera più adeguata per farlo.
Il batter, che teneva stretta la sua mazza e aspettava il lancio, sembrava in qualche modo aver colto la tensione della ragazza che gli stava davanti, e per quanto sapesse che rispetto a lui era una novellina, non per questo aveva la benché minima intenzione di sottovalutarla. Dopotutto era entrata adesso in campo, non l’aveva vista ancora giocare mentre lei aveva visto giocare lui; e poi… poi era una ragazza. E ci si poteva aspettare di tutto dalle ragazze. Se non fosse stato costretto a fissarla per motivi di gioco, non sarebbe riuscito a sostenerne lo sguardo.
Fabio, coprendosi col guantone attaccato al ginocchio, aveva mostrato bene l’indice della mano destra, consigliando ad Alessandra una palla veloce.
«Sarebbe proprio quello che si aspetta il battitore!» pensò lei. «Devo servirgliene una che non si aspetta!»
Fece a Fabio un segno di diniego e, dopo aver trovato dentro di lei una soluzione che credeva adatta a poter cominciare lo scontro, iniziò a caricare il colpo. Guardò il battitore, trasformando il proprio volto in una maschera da guerra, come a volergli dire: Preparati a prendere questa!
Poi cominciò a flettere il busto nella tipica torsione di caricamento, solo che lei lo faceva in una maniera tutta sua, come se in mano avesse avuto una palla da cinque chili. I movimenti del corpo sembravano come rallentati da un peso enorme che, ovviamente, non poteva essere quello della palla.
Il battitore non poté fare altro che interpretare quell’evidente sforzo anatomico come l’intenzione, da parte della ragazza, di consegnargli una palla veloce e diretta, una di quelle fast imprendibili. Lui non sapeva di che cosa quella ragazza fosse davvero capace. E l’unica ragione per la quale una femmina potesse far parte di una squadra di maschi era che doveva essere davvero molto in gamba.
Così si preparò a battere, sapendo che di palle come quella ne aveva beccate a centinaia…
Quando la palla si staccò dalla mano di Alessandra, nessuno si aspettava di vederla cadere, subito dopo, un metro prima dell’area di battuta. Non se l’aspettava neanche il battitore, che fece il suo bello swinging and missing, battendo a vuoto una palla che non sarebbe mai arrivata.
Strike! E uno!
Alessandra si ricompose in posizione eretta, appoggiandosi i polsi ai fianchi, e guardando il batter con un sorriso beffardo di evidente soddisfazione. Un sorriso che, ben inteso, era totalmente costruito.
Lei non era il tipo, durante una partita, da mettersi a sbeffeggiare gli avversari; anzi, il suo contegno era una delle sue più tipiche caratteristiche. Ma lì bisognava metterci un po’ di psicologia… Quel battitore doveva convincersi, in quel preciso istante, di avere dinanzi a sé un’avversaria perfettamente alla pari. Così, Alessandra aveva composto quell’espressione sprezzante apposta per lui, per intimidirlo, per fargli capire che quello era stato solo il primo dei suoi lanci. E lui si era fatto fregare come un pollo.
In effetti, lui pensava proprio questo. Da come lei si era disposta a lanciare la palla, nulla avrebbe potuto fargli immaginare che la sua intenzione sarebbe stata quella di farlo battere a vuoto! E ora? Ora cos’avrebbe sperimentato?
Era il momento del secondo lancio, ed Alessandra aveva chiara, in mente, una sola cosa: l’eliminazione dell’avversario.
La sua squadra stava già perdendo 9 a 2, e gli organizzatori dell’incontro, ovvero il suo professore e l’allenatore dei Winders, trattandosi di un’amichevole (anzi, diremmo proprio che si trattava di un’amichevolissima), e per non mettere i Greenrays in una situazione di ingovernabile disagio, avevano deciso di abbassare la soglia della “manifesta superiorità” al quarto inning. Ciò significava che se durante il terzo inning la squadra di Ale non avesse totalizzato alcun punto, e l’altra ne avesse fatti almeno altri due, i Greenrays sarebbero stati eliminati ed avrebbero perso la partita senza bisogno di giocare tutte e nove le riprese.
E perdere per manifesta superiorità è la cosa peggiore che possa capitare a dei giocatori di baseball, fossero anche degli studenti dilettanti.
No. Non poteva permetterlo. Se proprio dovevano perdere, lei avrebbe fatto di tutto perché ciò avvenisse alla fine dei nove inning, anche se proprio non riusciva ad immaginare come la sua squadra avrebbe potuto resistere fino a quel punto. Ma questo non era un suo problema.
Bisognava prima di tutto eliminare il battitore, e cioè servirgli tre strike uno dopo l’altro! E il primo già c’era stato. E poi, continuando a lanciare come una forsennata, eliminare allo stesso modo anche gli altri due che sarebbero venuti dopo. E così i Greenrays sarebbero passati all’attacco, e a quel punto lei avrebbe solo potuto sperare che i battitori della sua squadra facessero bene il proprio dovere.
Ma bisognava fare una cosa alla volta. E cioè aggiungere innanzitutto altri due strike a quello che lei aveva già effettuato.
Fabio continuava a comporre i suoi segni, sperando di suggerire ad Alessandra qualche buona idea, ma non riusciva proprio a convincerla con le sue proposte tattiche. Lei aveva capito che il battitore a quel punto si sarebbe aspettato di tutto, e non voleva certo accontentarlo con una banalità. Se quel primo avversario, infatti, fosse stato eliminato con tre lanci da manuale, quelli dopo di lui avrebbero avuto ancora più paura, ed era proprio ciò che voleva lei!
Ale pensò: «Dopo la finta che gli ho fatto, la prima cosa che quello penserà è che adesso io gli mandi una vera palla veloce, dritta dritta nel guantone… Povero scemo…»
Cercò quindi di riassumere mentalmente tutti gli allenamenti più importanti, quelli in cui il coach le aveva spiegato i vari tipi di lancio, e quelli che lei era riuscita a riprodurre con maggiore successo. E ad un certo punto le venne in mente un’entusiastica esclamazione del suo allenatore risalente a qualche settimana prima: «Ma guardatela, la nostra Marianina Riverina! Sei grande, Alessandra!»
Sì, ok, ma se poi avesse sbagliato? Se quel lancio così difficile non fosse andato a segno? Nessuno tra il pubblico, certamente, avrebbe capito quale sarebbe stato il suo tentativo… Non sapevano neanche le regole del baseball, figuriamoci se sarebbero stati capaci di riconoscere le differenze tra un lancio e un altro. No, nessuno tranne il suo coach avrebbe potuto capirlo. Ma lui che ne avrebbe pensato? L’avrebbe presa per pazza? Una dilettante di diciott’anni che prova a fare un lancio di quel tipo! Oppure, per la stessa ragione, l’avrebbe stimata ancora di più? Non poteva saperlo, ma la seconda possibilità la entusiasmava oltre ogni misura.
E poi… perché dare per scontato che sarebbe stato un fallimento? Magari ci sarebbe anche riuscita! E così, senza staccare un attimo gli occhi dal batter, che a questo punto accettava di fissarla con molta più convinzione di prima, cercò in tutti i modi di riprodurre quel grip d’oltreoceano così miracoloso, un po’ più decentrato rispetto a quello di una normale four seam, dal quale sarebbe potuto venir fuori un lancio coi fiocchi; e ripercorreva velocemente in testa anche tutti i passaggi del caricamento, cercando nella memoria la fotografia in cui si mostrava l’istante esatto nel quale la sua mano avrebbe dovuto lasciar partire la palla.
E in pochi secondi quella palla prese il volo, sfrecciando come un razzo verso la zona di strike, dritta come una cannonata!
E il battitore, in una di quelle frazioni di secondo che a baseball fanno tutta la differenza, capì che un lancio come quello era troppo ben allineato per lasciarselo sfuggire! Ed era oltretutto così meravigliosamente forte da potersi trasformare in uno spettacolare fuori campo!
Ma nell’ultimo impensabile istante, quello in cui un batter sente vibrare la sua mazza come se avesse già sferrato il colpo, la palla si abbassò come spinta da una volontà propria, passando due centimetri sotto la mazza, ed andando a finire dritta nel guantone di Fabio, che in quel momento era il catcher più felice del mondo! Non solo per il fatto che il lancio fosse andato a buon fine, ma perché da quel giorno avrebbe potuto raccontare a tutti che Alessandra Bentivegna era una sua compagna di squadra!
Strike! E due!!
Dalla tribuna si udì l’applauso di rito, composto dagli inconsci battimani di chi, in quel lancio, aveva visto solo un buon lancio e niente più, senza cogliere nessuna sfumatura tecnica… La vera ovazione fu quella che si udì in campo, quando tutti i Greenrays, contemporaneamente, si misero a gridare travolti da un nuovo furore che forse, a quel punto, sarebbe stato davvero capace di portarli al nono inning!
Di Guardo era fuori di sé per la soddisfazione! Alessandra aveva eseguito una cutter, una palla veloce con taglio finale, che era un lancio difficile anche per i professionisti. Come diavolo aveva fatto quella ragazzina dai codini neri, con quella faccia da bambina, a tirar fuori tanta abilità e precisione?!
Tutti saltavano, esultavano e battevano le mani senza fermarsi un attimo, anche alcuni ragazzi dell’altra squadra; e persino l’allenatore dei Winders applaudiva convinto, mostrando sulla faccia un sincero sorriso di approvazione. Solo Alessandra rimaneva immobile, questa volta senza neanche provare a confezionare un sorrisino canzonatorio. Era lì, ferma, con gli occhi in avanti, fissi su un battitore che aveva ormai capito con chi aveva a che fare, e che si sentiva a questo punto davvero nel mezzo di una bella sfida.
«Non ti rido più in faccia!…» cercava di dire Ale con quel suo sguardo che ricordava quello di Clint Eastwood nella famosa scena del triello.
«Adesso non c’è più bisogno che io rida! Ora lo sai che sei fuori! Ora lo sai che la prima base non sarà mai tua! Ora lo sai chi hai davanti, bello!»
«Avanti, bellezza! Sono qui! Vediamo se duri fino a tre! Vediamo se sei davvero così brava oppure hai avuto solo fortuna!» pensava l’altro, di rimando.
Si può comunicare così, senza parlare? Con la totale certezza di sapere ciò che l’altro sta pensando? Chiedetelo a chi gioca a baseball…
Adesso, in effetti, Alessandra non poteva permettersi di sbagliare. Era così determinata ad eliminare quel batter, che per lei la partita sarebbe potuta finire anche lì. Avrebbe anche potuto rinunciare per sempre al baseball, ma non ora, non in quel momento! Bisognava portare a compimento ciò che si era iniziato. E lei aveva cominciato bene, e doveva finire in un modo migliore.
Avrebbe voluto che ci fosse con lei quella stupida di sua madre, quell’eterna adolescente che pensava solo alle sue frivolezze, e che secondo lei aveva il cervello piccolo come quello di un’oca. Sulle dimensioni del cuore non si era mai voluta pronunciare… Chissà, magari sarebbe stato anche più piccolo del cervello. E lei non voleva neanche pensarlo. Preferiva illudersi del fatto che sua mamma stesse sbrigando qualcosa di realmente importante, di così importante da farla mancare ad una partita come quella, la prima in cui sua figlia stava scontrandosi con dei giocatori professionisti. E stava vincendo!
Ma tra due illusioni, Ale scelse di consegnarsi a quella più rischiosa, quella che se non fosse diventata realtà le avrebbe causato più dolore. Girò così lo sguardo a destra, quasi a centottanta gradi, oltre la foul line, sgranando gli occhi sulle tribune, per vedere se c’era… quella che non c’era.
(Che scema che sono…)
Anche se ormai era certa che sua madre fosse assente, volle comunque togliersi lo sfizio di spendere due secondi in più del suo tempo da poterle rinfacciare in seguito, quella sera stessa; e così, in pochi istanti, passò in rassegna tutti i gradoni degli spalti, fino alle scalette bianche e rosse che coi loro gradini di cemento, partendo dall’ultimo terrazzamento degli spalti scendevano dritte proprio fin dentro al campo, e precisamente all’interno dell’outfield, dove in quel momento si trovavano i difensori esterni.
Alessandra non poté evitare di incrociare lo sguardo con il difensore esterno sinistro. Ancora galvanizzato per la cutter di prima, Riccardo in un primo momento accolse gli occhi di Alessandra solo come un dono inaspettato. Poi, riconoscendo subito tutta la geografia di quel faccino, capì che lei voleva dirgli qualcosa, qualcosa di importante. Alessandra era una pazza. E come tutte le pazze si affidava all’istinto, al genio, al mito dell’impossibile non ancora compiuto.
Aveva diciott’anni. Chi avrebbe pensato che questa follia fosse una disfunzione?! Forse, chiunque ne capiva un tantino di quello sport, sarebbe giunto alla conclusione che Alessandra volesse rischiare un po’ troppo oltre i limiti di ciò che il buon senso consentiva; ma in fin dei conti, in quel momento, la partita era tutta sua, e poteva permettersi anche il lusso di passare alla storia come il pitcher dai codini neri che aveva tentato di superare le Colonne d’Ercole del baseball!
Riccardo era a disagio. Ale non l’aveva mai guardato così ostinatamente. Bisognava raccoglierne i pensieri, a qualunque costo. Se fosse riuscito a capirla adesso, avrebbe avuto forse, in seguito, la fortuna di essere capito…
Lei gli mandava i suoi pensieri come se stesse chattando direttamente col suo cervello, fidandosi di un wi-fi telepatico nel quale, in quell’attimo, credeva con tutte le sue forze. Poi il tempo si accorciò anche per lei, e dovette rigirarsi verso casa base, riprendendo la sua polemica di sguardi con il battitore, lasciata interrotta qualche istante prima, e concedendo qualche occhiata anche a Fabio. Aspettò che il catcher le desse un segnale, come aveva fatto le due volte precedenti. Il difensore, da dietro la sua mascherina, cercava anch’egli di capire quale strategia volesse adottare Alessandra, rinunciando ormai a proporgliene una, dato che fino a quel momento non era stato ascoltato. Vedendo però che lei rimaneva immobile, e di tanto in tanto lo guardava con aria interrogativa, Fabio infine si decise.
Mise il pollice dentro la mano destra, e stese in fuori le altre quattro dita.
«Una change up?!» interpretò bene Alessandra. Poi fece no con la faccia.
(Fabio, non me la sento di dargli una palla a cambio di velocità. Quello ormai da me se le aspetta tutte queste cose! Vai! Dimmene un’altra!)
Fabio ritirò due dita, lasciando fuori solo l’indice e il medio.
(Una breaking ball? No, amico mio. Questa volta non posso. Non è il caso di far girare le palle! Dai! Questo è il momento! Chiedimi la cosa più semplice, forza! Quella che lui non si aspetta!)
Il catcher, senza ormai la benché minima speranza di essere ascoltato, mostrò solo l’indice, come aveva fatto la prima volta. «Ecco, bravo! Bravissimo!» disse lei sottovoce, muovendo la testa in un cenno di assenso.
(Ma purtroppo questa palla non è per te, Fabio!)
Era il momento di lanciare. Le era venuto un forte mal di testa e sentiva dentro come una specie di stordimento generale. Sentì un rivolo caldo gocciolarle sul labbro superiore, e si accorse che stava perdendo sangue dal naso.
«Maledetto caldo del cavolo! Pure il naso mi hai fatto schiattare! È che sono emozionata, accidenti. No, niente… sono una pazza!»
Si passò velocemente il polsino della maglietta sul muso, senza neanche guardare la macchia rossa che certamente sarebbe stato difficile lavare… Poi, un ultimo sguardo al battitore, e finalmente la si vide roteare e caricare il lancio.
(Volevi una fast ball, giusto? Una bella palla veloce per la tua mazza? Eccola, bello mio! Fammi vedere dove sai farla arrivare!!)
Negli ultimi istanti di caricamento le passarono davanti tutte le moviole di quel battitore e dei fuoricampo che aveva già effettuato negli inning precedenti! E i suoi fuoricampo andavano sempre alla sua sinistra! Sempre!
Via! La palla era in aria!
(No! Non è un’altra cutter! Non se la può giocare due volte di fila! Ma guarda! Dopo aver fatto cose da pazzi ora mi rifila una fast ball! E questo sarà il tuo errore, bella! Non me la toglierai la prima base!)
Paolo, così si chiamava il batter, beccò la palla a tre quarti di mazza, moltiplicandone la potenza e la velocità, e lanciandola oltre tutta la schiera dei difensori. Per i Winders doveva essere l’ennesimo fuoricampo! Alessandra non ebbe neanche il tempo di girare la faccia indietro, perché un grido fortissimo la raggiunse prima!
«Fly ooooooout!!!» gridava il coach!
Quell’altra testa pazza di Riccardo aveva capito tutto!
Dopo lo scambio di sguardi con la sua compagna aveva cominciato a camminare all’indietro, fino a posizionarsi sotto le scalette di cemento che portavano in tribuna. E lì, fremente come un fuoco d’artificio nel mortaio, aveva atteso la battuta dell’attaccante! Quella folle di Alessandra, memore del fatto che il battitore rovesciasse a sinistra tutti i suoi fuoricampo, gli aveva servito una palla geniale, perfetta per essere battuta in quel modo, e in quella direzione, e sperava che Riccardo compisse il miracolo. E il miracolo ci fu, eccome!
Era uscito di corsa dall’outfield, salendo velocemente per le scalette di cemento e saltando tre gradini prima di buttarsi in aria e intercettare, non si sa ancora come, quella palla imprendibile! Poi si era fracassato il sedere cadendo sui sedili di plastica, ma la palla era salva, e quello sbruffone era fuori! Strike out! Eliminato! Fanculo! Avanti un altro! E il battitore, che avrebbe avuto tutto il tempo di conquistare la prima base mentre la palla era in aria, non si era mosso affatto, dando per scontato che nessuno di quei difensori sarebbe riuscito ad intercettarla.
Imperdonabile errore. Proprio l’ennesima trappola in cui, per la terza volta, Alessandra l’aveva fatto cadere.
Le grida della squadra arrivavano agli orecchi della ragazza in modo confuso, insieme agli applausi che questa volta lei avrebbe dovuto condividere col difensore esterno; tra tutte le acclamazioni e le urla, riusciva bene a sentire la voce del suo coach, che però, si faceva sempre più strana, diversa, terribile, come se continuasse sì a gridare, ma per altri motivi.
Ale non riusciva più a comprendere quello che lui diceva, non capiva più nulla. Non sentì più niente.
«Un’ambulanza, presto! Maledizione!! Sbrigatevi!! Chiamate un’ambulanza!!!»
Paolo, che fino a quel momento avrebbe desiderato correre verso la prima base, fu il primo ad arrivare invece al monte di lancio, per soccorrere la ragazza.
Alessandra era per terra, in una posizione scomposta, pallidissima, con il terriccio rosso tutto sulla faccia, e il sangue che continuava ad uscirle copiosamente dal naso. Il suo cappellino verde le era caduto via, ed uno dei suoi codini neri le copriva gli occhi.
Tutto si fermò.

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