A lunga conservazione. L’insostenibile vaghezza della Provvidenza

Un breve memoriale di Stefano Di Lauro sul suo precoce impatto col celebre romanzo manzoniano. Fatalmente, l’ineffabile concetto di Provvidenza sbaraglia la mente del ragazzino, portando a galla anche divertenti digressioni sul concetto di “familiarità”. Non è mai troppo presto?
Il racconto è incluso in una prestigiosa collettanea di ricerche e testimonianze su “I promessi sposi”, a cura di Pasquale Guerra per i tipi di Morlacchi editore (2021)

Ci volle del tempo perché capissi che i miei genitori Manzoni l’avevano conosciuto di sfuggita sui banchi di scuola, ma proprio di sfuggita, eppure non smisero mai di decantarmi I promessi sposi sin dalla mia infanzia, e con grande convinzione.

Il primo a parlarmene con debita cognizione fu uno dei fratelli di mia madre, lo zio Ciccio: pastore evangelico della Chiesa Avventista, aveva lasciato il meridione natio per studiare teologia in Francia e all’epoca viveva a Mestre, dove esercitava il ruolo di presbitero della comunità veneziana. Cambiò tante città e regioni, ma restò sempre legato alla sua terra; ogni estate non mancava di venire a trovarci. Il suo attaccamento lo notavi anche dal fatto che non prese mai l’accento dei luoghi dove ebbe dimora; né quello di sua moglie, emiliana purosangue. Di norma parlava un italiano attoriale, senza accenti, ma in famiglia talvolta sfoggiava argute espressioni nel nostro dialetto d’origine, quello d’un ridente paesello delle Puglie, ridente per davvero, non come suol dirsi anche di certi borghi inanimati. Ne taccio il nome per un pudore tutto personale che riguarda una vecchia storia di schiatta, storia di cui vado molto fiero. E giacché, al contrario di come usa, tendo a proteggere proprio ciò che mi inorgoglisce, dirò il necessario, serbando l’appropriata discrezione. Nel ridente paesello correva l’anno 1886 quando la lotta tra i due schieramenti politici cittadini, il partito dei Galantuomini e il partito della Piazza, s’inasprì al punto che il nonno materno di mio padre, verdumaio, fu artefice d’una rivolta popolare tesa a distruggere gli archivi dell’esattoria, ossia a scardinare, ahimè solo provvisoriamente, l’impero del male dei gabellieri. Il tumulto degenerò: oltre l’esattoria andò a fuoco anche il Municipio e il circolo dei galantuomini. Al mio bisnonno, già garibaldino e poi volontario nell’Esercito Meridionale nel 1860, fu comminata una pena di sette anni sette mesi e sette giorni di reclusione, scontata per intero nelle patrie galere di Gaeta. Confesso, alla luce della Questione Meridionale e della dissennata politica post-unitaria che orripilò lo stesso Garibaldi, che l’ammirazione per il mio avo si deve per lo più al suo trascorso di rivoltoso.

Nell’estate del 1971 avevo undici anni. Zio Ciccio e consorte arrivarono al paesello prima del solito, in giugno, e m’invitarono a stare da loro a Mestre per un po’, tanto a settembre sarebbero scesi nuovamente per la vendita di una piccola proprietà e mi avrebbero riconsegnato a babbo e mammà, come fu. Non tornai incolume, tornai molto cambiato, ma i miei non se ne accorsero: del resto anche prima del viaggio i miei caroselli interiori li avevo sempre tenuti per me. Li sentivo incondivisibili, non foss’altro perché non avrei saputo cosa spiegare. Eppoi da figlio unico ero abituato ad almanaccare da solo.

La casa di Mestre era in campagna e odorava di fieno tutt’intorno, lo zio possedeva una caterva di libri e zia cucinava divinamente. Mi adoravano, forse anche in ragione del non aver avuto figli. La sua biblioteca mi era pressoché incomprensibile e l’incomprensibilità, è noto, decuplica il senso dell’arcano. Un giorno zio Ciccio cavò da uno scaffale alto un libro spesso e vecchiotto, dai bordi barbuti e spartano nella copertina – come ancora oggi i tomi della Gallimard. Era un’antologia di passi scelti da I promessi sposi. Mi disse di averlo comprato tanti anni prima da una bancarella sul Lungosenna, quando studiava in Francia; il testo era l’originale italiano, pubblicato a uso scolastico da un editore milanese nel 1901.

Eccolo, pensai, ricordando le precoci perorazioni genitoriali.

Non è mai presto per leggere un bel libro, il vero personaggio di questa storia è la Provvidenza, mi disse. Forse sgranai gli occhi chiedendo cosa fosse la Provvidenza. È un suggerimento del Signore, una strada che Lui ti offre affinché tu la imbocchi, e si precipitò a chiosare: ma va riconosciuta per tempo. Aggiunse che era un regalo per la mia crescita e che se lo avessi letto nel corso di quelle vacanze ne avremmo potuto parlare.

Lo divorai, ma lessi un’opera altra, e non solo per la dismisura fra il testo e la mia modesta enciclopedia di ragazzo; anche perché feci esperienza di ciò che più avanti, tanto da essere umano che da autore, sarebbe diventato il mio più grande cruccio: scongiurare la familiarità.

Provo a spiegarmi. Tranne che per il libro di lettura delle elementari, zibaldone di autori italiani, e di Pinocchio, sino ad allora avevo letto solo romanzi di autori stranieri: I ragazzi della via PálIl vecchio e il mare, la Tetralogia della Alcott, I lavoratori del mare, l’integrale di Mark Twain, Il piccolo principe e cose così.

Tutto mi sembrava lontano, e lo era, a cominciare dai nomi dei personaggi. Oggi come ieri, con accresciuta consapevolezza, sono ancora persuaso che occorrerebbe vivere e leggere da stranieri, in uno stato di alterità permanente; e che la virtù di un autore consista nel trattare il presente instaurando comunque una sorta di distanza, onde evitare che il lettore abusi dell’esplicita familiarità col suo tempo. Trovo che il “riconoscersi” debba essere un punto di arrivo e non il punto di partenza. Riconoscersi troppo presto, a ben vedere, può avallare pre-giudizi, autoassoluzioni e talvolta cecità. Autori come Saramago, Marquez, Buzzati, Calvino, Kafka, la Allende, ad esempio, ci hanno spiegato senza spiegarlo che basta un paradosso, un’ambiguità, un’omissione, una locazione incerta, un nome inusuale o bislacco per spostare l’asse della lettura, ma non quello della storiané, ove ve ne sia l’intento, dell’engagement. Piccoli espedienti per innescare una lettura più curiosa e divertita; conta, per il lettore, che l’atto del riconoscersi proceda per ghirigori e non secondo la distanza più breve tra due punti.

A proposito delle Mille e una notte, Jorge Luis Borges osservò che a rendere questo libro un repertorio di meraviglie sono state le traduzioni. E aggiunse: “Gli arabi tengono in scarsa considerazione l’originale: essi già conoscono gli uomini, i costumi, i talismani, i deserti e i demoni che quelle storie rivelano a noi”. Insomma, dov’è eccesso di confidenza, dov’è familiarità, non v’è stupore possibile né spazio per l’altro da sé.

 

I promessi sposi, per me, fu esattamente il primo dramma della familiarità. La familiarità coi nomi italiani, con certi nomi che nel mio vissuto non erano solo nomi: erano titoli di vite, di facce, di voci, di odori e molto altro. Tanto per cominciare, il mio bisnonno rivoluzionario si chiamava proprio Renzo; ne conoscevo anche le fattezze grazie al solo ritratto fotografico sopravvissuto: aitante, fiero, occhi di carbone, baffi a manubrio e due cerchi da pirata ai lobi delle orecchie. Figurarsi la rivolta del pane: leggevo di Renzo ma vedevo il mio avo, l’uno malaccorto e improvvidamente loquace; l’altro che capeggiava la rivolta a suon di banda. Sì, avevo dimenticato di dire che il mio Renzo convinse la banda del ridente paesello a scendere in piazza con la sua ciurma di straccioni vessati. Se Manzoni avesse confermato il nome di Fermo Spolino della prima redazione non avrebbe portato scompiglio nel mio bendisposto immaginario.

Fra le istituzioni familiari c’era poi un’Agnese: una ragazzotta mora incinta da sempre, inceppata in una gravidanza senza fine, che veniva chiamata da mezzo paese per aiutare a far taralli bolliti e dolci di mandorla e biscotti ricoperti di giulebbe.

Per contro, la Lucia par excellence della mia infanzia era la comare Lucia, una signora (o signorina, non saprei) un po’ in avanti con gli anni, capelli grigi accrocchiati, sempre nerovestita, procace come un personaggio felliniano ma senza il diavolo in corpo. La montatura dorata dei suoi occhiali la rendeva vieppiù distinta. Non si perdeva una veglia funebre, sempre composta, misurata, notti di braccia conserte e sospiri e piedi incrociati sotto le sedie intorno al feretro. Le adornava il mento un porro dal quale sporgeva un ciuffetto di peli irti, anch’essi imbigiti.

Ma sull’intera locandina mentale campeggiava l’incarnazione della sfuggente Provvidenza: la signorina Felicita Provvidenza, proprietaria del Gran Caffè ubicato nella piazza del ridente paesello. Oltre che sdrammatizzare per un bel po’ il vuoto semantico di un undicenne alle prese col concetto di Provvidenza, la signorina Felicita Provvidenza ebbe una vita che merita qualche cenno in più. Ereditò il Gran Caffè da suo padre verso la metà degli anni Cinquanta, essendo morti entrambi i suoi fratelli maschi nell’occupazione militare italiana in Albania, un’occupazione risolta in una manciata di giorni senza quasiincontrare la resistenza albanese. Due fratelli su due su un totale di una novantina di vittime su un totale di oltre 20.000 soldati inviati. Fu caso o necessità?

Gestire il bar del paese, a quei tempi, non era affare da donne; ma bisognava andare avanti e occuparsi d’una madre malconcia; eppoi, l’attività era florida e si distingueva per qualità, il Gran Caffè preparava spumoni principeschi. Alla fin fine c’era solo da indossare un bel paio di pantaloni e ostentarli a clienti e dipendenti.

Negli anni, la signorina Felicita Provvidenza ricevette numerose domande di matrimonio che restarono inascoltate. Forse perché, nel crocevia del suo salone, aveva modo di sapere tutto di tutti, e anche un po’ di più.

Era comunista, ma anche cattolica, proprio come la buonanima di suo padre; e come lui, strattonata a destra e a manca dai compagni di partito come dai democristiani. Ma riuscì a non farsi stracciare la giacchetta e a restare nel mezzo, anticipando i dibattiti sul Compromesso Storico e sull’unità politica dei cattolici.

In occasione delle elezioni politiche del 1976, il ridente paesello ospitò un comizio elettorale di Aldo Moro. Il palchetto era a due passi dal Gran Caffè, sicché al termine della manifestazione i maggiorenti della Democrazia Cristiana locale lo condussero nel locale. Moro prese solo dell’acqua e poi strinse le mani a tutti i presenti. Quando fu il suo turno, la padrona di casa non gli strinse la mano, ma gliela prese fra le sue e gli fece: “Presidente, lei è l’uomo della Provvidenza”. Si dice che lui si rabbuiò un istante e le rispose con un “Volesse il Cielo”.Due anni dopo, l’uomo della Provvidenza fu rapito e abbandonato alla sua sorte tanto dai comunisti che dal suo partito; la sola compagine parlamentare a guidare un fronte della trattativa fu il Partito Socialista. Furono giorni di rabbia e di paura per tutti gli uomini di buona volontà. La signorina aveva cambiato viso, quasi invecchiò d’un colpo, compresa in un’amarezza che la sciupava dalle viscere. Era sempre al suo posto, nel vano angusto della cassa che pareva uno stallo staccato da un coro liturgico; ma in realtà non era più lì, non era più lei, era sul piano inclinato della tragedia annunciata.

Poi l’assassinio, e la famiglia Moro che si chiude nel silenzio e chiede allo Stato silenzio, e l’omelia di Paolo VI col papa che accusa Dio di non aver esaudito le nostre suppliche.

 

Anni dopo quella precoce lettura, ripresi a frequentare I promessi sposi tanto a scuola che per diletto, godendo in particolare della straordinaria finezza linguistica e dell’acume dei suoi celebri aforismi.Per amor di completezza, aggiungo che sono tra coloro che nella sua conversione ravvisano un sofferto anelito, e non già il dono compiuto d’una grazia luminosa. Ma tornando alle massime, ce n’è una che ancora mi accompagna e sempre mi dissuade dallo sforzo di mitigare l’insofferenza del mondo. A un dipresso, dice che gli uomini non son grandi abbastanza per provare compassione senza disprezzo.

Quanto alla Provvidenza, andò poi che la signorina Felicita Provvidenza vendette il Gran Caffè e perse ogni fede.

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