“L’ordine apparente delle cose” di Lara Fremder, inizia così

Lasciare andare il passato senza perderne la memoria. È quello che prova a fare Rachele Zwillig, guida turistica a Gerusalemme, che inventa storie per sé e per i visitatori che accompagna in città: nel cassetto della sua credenza ci sono alcune vecchie foto, che nascondone storie e un segreto; lei è la protagonista del romanzo “L’ordine apparente delle cose” (161 pagine, 18 euro) della milanese Lara Fremder – sceneggiatrice e regista – che sarà in libreria a partire da domani. Per gentile concessione di Gabriele Capelli editore e dell’autrice pubblichiamo un’anticipazione delle prime pagine del volume

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Dodici giapponesi non sono uno scherzo. Solitamente si portano la loro guida ma si è ammalata e così Shlomo Lebens, il mio capo, me li ha affidati. Prima lavoravo con Michelson e prima ancora qualcosa smise di funzionare nella mia testa.

Tutto mi sembrava molto più semplice allora. Se avevo voglia di un pezzetto di mondo aprivo la finestra e se quel pezzetto di mondo mi disturbava la richiudevo.

Basta poco a Gerusalemme per sentirsi padroni del mondo e del tempo, è sufficiente attraversare una strada o affacciarsi a una finestra. Mi chiamo Rachele Zwillig, sono nata a Gerusalemme, ho quarantuno anni e faccio la guida turistica. Lavoro otto ore al giorno raccontando le storie che i turisti desiderano ascoltare, battaglie, disfatte, miracoli che si ripetono da secoli, storie che non fanno più paura e raramente commuovono, inganni di cui non si può fare a meno.

«Deve imparare a credere a ciò che racconta, signorina Zwillig, che sia vero o no» mi dissero alla consegna del diploma.

E così faccio.

A volte mi invento una data, un imperatore mai nato, luoghi e genealogie inesistenti, nomi e date che sfuggono al controllo della storia e della memoria, in fondo piccoli e innocenti attentati alla realtà.

Non lo faccio sempre, di mentire, non gioco d’azzardo, valuto con attenzione chi ho di fronte e scelgo il momento.

Lo faccio anche con me stessa, me la racconto la vita, nel bene e nel male, la dipingo dei colori che voglio, la riempio di storie di amore e di odio e spesso ci credo.

Li ho lasciati in albergo, li recupererò domani. I dodici giapponesi intendo.

Mi hanno proposto di cenare con loro, ma professionalmente parlando è preferibile non frequentarsi fuori orario e poi questa sera c’è Beitar Jerusalem-Maccabi Haifa e ho scommesso con Yossi dieci shottini sulla vittoria del Beitar.

Non potendo garantire sobrietà e puntualità per il tour di domani mattina, mi sono inventata possibili tensioni in città e avvisato i giapponesi che ci potrebbero essere cambi di programma.

Millanto conoscenze nel Mossad, del resto in un paese come questo una buona guida turistica deve avere i suoi contatti.

O fingere di averli.

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Il Beitar ha vinto e io sono arrivata al lavoro puntuale e sobria. Kenta è rimasto sorpreso dal fatto che nessuno in albergo era a conoscenza di possibili tensioni.

«Se tutti sapessero tutto, in questo paese si fermerebbe ogni cosa» ho risposto, decisa.

Kenta si è scusato come solo i giapponesi sanno fare, mi è sembrato sincero, ma i turisti d’Oriente sono impenetrabili. Di certo durante le visite ti ascoltano con estrema attenzione, non esiste cellulare che squilli, qualcuno che ti sbadigli in faccia o che sgranocchi qualcosa davanti a una reliquia.

Molte fotografie, poche parole.

Li ho portati al Quartiere Armeno, il mio preferito, là dove tutto rallenta. Ogni volta che varco quel confine per me è come giocare a “Rialzo!” . Ci vado spesso e non solo per lavoro. La taverna di Havik è aperta anche durante Shabbat e la sua cucina è ottima.

Di fronte alla chiesa di San Giacomo – inizio e fine della vita per ogni armeno di Gerusalemme – Kenta mi ha chiesto della testa del Santo il cui luogo di sepoltura resta storicamente incerto.

Mi spiace deludere le aspettative, così un paio di anni fa ho inventato un luogo, una piccola nicchia seminascosta dal portale di un antico ingresso in cui:

Si dice, si narra, si mormora… che la testa del Santo vi sia stata conservata per secoli ed è straordinario come, ogni volta, tutti siano disposti a crederci e, a loro volta, farsi passaparola del falso.

Mi capita di trovare fiori e lumini nella nicchia in cui:

Si dice, si narra, si mormora…

Non faccio nulla di male, in fondo si tratta di storiche consuetudini. Nel Medioevo erano sparse per l’Europa sessanta dita di San Giovanni, tre teste di San Giorgio e almeno tre chili e mezzo di denti di Sant’Apollonia. Non faccio altro che partecipare alla grande illusione, consapevole che esistono storie con cui non si compete:

In principio Dio creò il cielo e la terra.

 Usciti dal Quartiere Armeno ho ributtato i giapponesi nel mondo imboccando la Via Dolorosa.

«Non perdiamoci!» ho gridato in mezzo alla folla.

«Non si perda lei» ha sussurrato al mio orecchio Kenta scattandomi una foto.

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Non amo essere fotografata, evito che ciò accada ma al lavoro è impossibile sottrarsi.

Sono conservata in scatole di ogni tipo, ordinata in album fotografici, catalogata in cartelle virtuali. Decine e decine di foto, nel mondo, mi ritraggono insieme a gruppi sorridenti.

Il mio volto riconosciuto fra volti che non riconoscerei.

Da ragazzina mi infilavo volutamente dentro fotografie di sconosciuti. A volte uscivo di casa apposta. Era un gioco di cui solo ora riconosco la malinconia, trovare un modo per esistere nel mondo, essere al tempo stesso visibili agli altri e invisibili a sé stessi.

Possiedo solo cinque fotografie, non ne ho e non ne ricordo altre. Sono sparse nel cassetto della credenza fra vecchie posate, elastici, tappi e ricevute di pagamento.

 

La prima fotografia

 

Ritrae me e Dahlia, mia madre, cinque giorni prima della sua morte. È il 1981, il 6 marzo. La data è scritta sul retro.

Mia madre si impiccò nella doccia del nostro piccolo bagno, la cui finestrella si apriva su Haye Olam street, la Via della Vita Eterna.

«I piedi della mamma non toccano terra» dissi. Avevo solo quattro anni.

Tiro fuori quella foto una volta all’anno, il giorno della morte di mia madre e ogni volta che lo faccio trovo un elemento sfuggito allo sguardo e al dolore dell’anno precedente, come se lo smarrimento di allora si rinnovasse svelando un nuovo dettaglio, la fibbia slacciata di uno dei miei sandali, per esempio, o la treccia non perfettamente in ordine di mia madre.

Volute imprecisioni nell’ordine apparente delle cose.

Dahlia e io siamo sedute su un muretto che corre, oltre i margini della fotografia, fino alla fine del mondo.

Nella foto la mamma sorride.

Come si possa sorridere a pochi giorni dalla propria morte è la domanda che mi insegue, feroce, da sempre.

 

La seconda fotografia

 

È in bianco e nero, non è perfettamente a fuoco e non ha né luogo né tempo.

Una casa con un giardino incolto, una sedia rovesciata fra l’erba alta e una donna davanti alla porta d’ingresso che guarda verso l’obiettivo. Una freccia rossa, marcata con forza sulla foto, la indica con l’iniziale T.

Ogni volta che quella foto mi capita tra le mani, sento un dolore sottile che mi attraversa e mi porta in un giardino in cui non sono mai stata. Non so il perché di quella foto, non so chi sia quella donna, non so dove si trovi quella casa, in quell’istante di tanti anni fa.

Non so cosa c’entri con me ma di sicuro c’entra qualcosa e di sicuro fa male.

 

La terza fotografia

 

È l’estate del 1983 e io sto correndo.

La foto è stata scattata due anni dopo la morte della mamma, in Gali- lea, nel kibbutz vicino a Safad, dove ho trascorso parte della mia infanzia e della mia adolescenza. Quando non vivevo lì stavo con Rina Blum, la madre di mio padre, Samuel Gerwerz, suo secondo marito, e l’insopportabile Ruth, sua figlia. Dan, mio padre, si faceva vedere poco. Di me si occupava Brigid l’irlandese, donna dai fianchi larghi e le gambe muscolose. Esisteva una fotografia all’ingresso del kibbutz che la ritraeva, giovanissima, in pantaloncini e maglietta con un fucile fra le braccia.

Da piccola volevo essere come lei da giovane.

Di Yossi mi occupavo io, così come lui si occupava di me. Io do- vevo stare attenta a che si lavasse i denti e si cambiasse le mutande, lui che io non fossi troppo triste.

Nella foto Brigid l’irlandese è vicina al pollaio, ma la si vede appena. Lo ricordo bene perché un attimo prima dello scatto aveva gridato:

«Hey! C’è da tirare il collo a un paio di galline!». Io e Yossi ce l’eravamo date a gambe.

È per questo che nella foto sto correndo.

Di quel momento ricordo lo scatto che portò in un attimo dall’im- mobilità al movimento, come un colpo di vento forte e improvviso che impedisce il respiro.

Se una fotografia non è soltanto un’interpretazione del reale, allora quella foto parla della mia anima. Mia e di Yossi.

 

La quarta fotografia o Ritratto della famiglia Zwillig prima della tempesta

 

Parigi 1940, così è scritto non so da chi, non so quando.

Lui è Oscar Zwillig, ha trentaquattro anni ed è mio nonno, il padre di mio padre.

Accanto a lui Rina, sua moglie, mia nonna.

Alle loro spalle uno scenario su cui sono dipinte cime di alberi su un cielo cupo, uno sfondo di quelli da vecchio studio fotografico.

La giovane coppia sorride appena, probabilmente su richiesta del fotografo.

Oscar veste un completo troppo grande che pare in prestito. Rina ha i capelli raccolti, indossa un tailleur e una camicia bianca.

Dan non si vede, lo nasconde sua madre, nel suo grembo, alla vigilia dell’occupazione nazista.

 

La quinta fotografia o Ritratto della famiglia Reutzer dopo la tempesta.

 

È il 1946, così ipotizzo.

Sembra una foto segnaletica, di quelle che non contemplano contesti. Una bambina, di più o meno sei anni, sola, al centro di una stanza vuota. Guarda verso l’obiettivo come se avesse ricevuto un ordine.

Quella bimba smarrita è Dahlia Reutzer, mia madre, ciò che resta di una famiglia di ebrei ungheresi.

 

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