Un grande scrittore come George Bernanos e una quindicenne alle prese, in parallelo, con le repressioni franchiste benedette anche dal clero. Sono i protagonisti di “Non piangere” di Lydie Salvayre, memoir, romanzo politico, saggio storico, coraggioso atto d’accuso contro i fascismi. La ragazzina è Montse, catalana esule in Linguadoca, madre novantenne dell’autrice, che ha quasi perso ogni ricordo ma non quelli relativi al 1936. E si esprime in una lingua meticcia, un francese intarsiato dallo spagnolo
Una matrioska. Un grande romanzo al cui interno batte il cuore di un altro importante libro. È Non piangere (225 pagine, 18 euro) di Lydie Salvayre, una delle voci letterarie più note della Francia, che in Italia è stata pubblicata da vari editori, ma solo l’anno scorso sembra averne trovato uno disposto a scommettere sulle sue opere; il libro è stato ripubblicato lodevolmente da una casa editrice, la Prehistorica, che in Italia è un avamposto della cultura transalpina, e tradotto da Lorenza Di Lella e Francesca Scala, una coppia di professioniste che negli ultimi anni ha reso in italiano alcuni più che pregevoli testi di Teresa Cremisi, Inès Cagnati ed Emmanuel Carrère, e che, in questo lavoro, si è confrontata con una lingua francese speciale e contaminata, «un idioma misto e trasnpirenaico», quello in cui si esprime Montse, novantenne madre dell’autrice, di origine spagnola. Questo romanzo, vincitore del premio Goncourt dieci anni fa, nel 2014, vive una seconda vita in Italia, dove era stato proposto già da L’asino d’oro edizioni. Prehistorica lo rispolvera, con una bella prefazione di Marcello Fois, in un tempo come il nostro in cui la guerra non è una realtà lontana né nello spazio né nel tempo. E in cui donne e uomini in fuga, come Montse, da guerre e persecuzioni non in tutto il mondo sono accolti come vorrebbe anche solo l’umanità, senza alcun tipo di sovrastrutture ideologiche o religiose.
I passi indietro di Bernanos
Animato com’è dalla lettera e dallo spirito di quello che lui chiama «il suo catechismo elementare», Bernanos non può che provare nausea e disgusto di fronte a tutti quegli omicidi commessi in nome della Sacra Nazione e della santa Religione da un gruppetto di pazzi fanatici prigionieri del folle fanatismo dei loro dogmi […] Agli occhi di Bernanos la Chiesa spagnola, prendendo in subappalto dai nazionalisti la gestione del Terrore, ha definitivamente perso ogni dignità.
Dentro Non piangere di Lydie Salvayre ci sono I grandi cimiteri sotto la luna e il suo autore Georges Bernanos, cattolico, monarchico, con un figlio arruolato nella falange, eppure incredulo e ferito a morte dopo aver assistito, a Palma di Maiorca, alla repressione franchista di una rivolta con la complicità del clero. Quelle atrocità gli lasciarono segni addosso, facendogli rivedere alcune posizioni ideologiche e politiche: si allontanò dalle posizioni dell’estrema destra dell’Action française, contrapponendosi ai nazionalismi e al franchismo. Il risultato letterario fu I grandi cimiteri sotto la luna, la cui lettura Lydie Salvayre affianca ai ricordi dell’anziana madre, scrivendo parallelamente una specie di memoir, in cui rabbia e tragedia hanno un ruolo determinante, ma sono talvolta annacquate da una sottile forma di ironia. Da una parte un grande intellettuale, dall’altro una povera ragazzina catalana, in mezzo dolori e nefandezze, fatti indelebili per entrambi.
L’esilio e il “fragnol”
In “fragnol”, sua lingua meticcia Montsita, seduta su una sedia a rotelle, racconta alla figlia l’unica cosa che riesce a ricordare del passato, i suoi quindici anni e le violenti contrapposizioni tra i libertari repubblicani e i nazionalisti di Franco e le colpe di quest’ultimi “benedette” da sacerdoti e religiosi. Parallelamente Bernanos condanna gli alti prelati che assolvono autori di torture e massacri, sostenendo come la Chiesa spagnola sia «diventata la Puttana dei militari epuratori». Nell’estate 1936 in mezzo a violenze e delazioni impossibili da perdonare, la giovanissima Montse, figlia di contadini in balia di latifondisti, madre dell’autrice, visse un breve e appassionato amore, a Barcellona, con un bellissimo francese, André; lui, però, dopo una sola notte d’amore, si arruolò con i partigiani, lasciandola incinta e costringendola a un matrimonio riparatore con Diego, nemico di suo fratello, il bolscevico José, fin dall’infanzia e oltre; quella madre che fu costretta a lasciare la Spagna della guerra civile e a riparare in Francia, «in un paesino della Linguadoca».
Il 28 marzo 1937 Montse partorì una bambina.
Erano successe così tante cose in paese da quando era scoppiata la guerra che nessuno si preoccupò del fatto che Montse avesse messo al mondo una bambina che si pretendeva prematura e che pesava 3,820 chili ed era una bellezza.
La chiamarono Lunita.
Lunita è la mia sorella maggiore. Oggi ha settantasei anni. Io ne ho dieci meno di lei. E Diego, mio padre, è il suo patrigno.
La vita contro il culto della morte
Il risultato di Non piangere è di rara bellezza, in certi passaggi commovente. È la storia di una vita che non vuol mollare e che va avanti, quella della quindicenne Montse, rievocata settantacinque anni dopo; c’è la voglia di contrapporsi al culto della morte dei clerico-fascisti spagnoli, l’amore e la libertà della madre vissuti pienamente – nonostante la guerra civile e i lutti da contrapporre a un’ottusa arcaica società patriarcale e maschilista. Lydie Salvayre mette in gioco se stessa e tutta una vita, con un libro intimo e politico che ha stralci anche da saggio storico, col racconto della nascita delle comuni anti-franchiste in Spagna. Un fortissimo atto di denuncia, quelli che solo la letteratura riesce a fare con potenza e grazia.
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