“Cantare in coro”, un racconto di Yehoshua Kenaz

Da domani sarà in libreria un nuovo libro di Yehoshua Kenaz, la raccolta di racconti “Cantare in coro” (130 pagine, 15 euro), pubblicato da Giuntina. La traduzione dall’israeliano è di Elena Loewenthal. Per gentile concessione dell’editore anticipiamo il racconto eponimo

Non ho mai cantato in un coro e, con l’età che ho, non conoscerò mai più questo piacere per il quale tanto spasimavo. A scuola mi era stato negato in un modo misterioso. Come se tutti si fossero messi d’accordo per tenermi nascosta la formazione del coro, le date di iscrizione e gli esami per essere accettati. Avevo chiesto ai miei compagni di classe come mai nessuno mi aveva detto del coro della scuola, e loro mi avevano risposto: «Hanno messo un annuncio nella bacheca in corridoio, stava scritto tutto lì. Com’è che tu non l’hai visto?».
In effetti, com’era che non l’avevo visto, l’annuncio? E che neanche li avevo mai sentiti parlarne, neanche un accenno. Loro parlavano, come al solito, di calcio. Il segreto era rimasto tale per me finché non erano cominciate le prove in palestra, ma allora era ormai troppo tardi. Quanto meno stando alla maestra del coro.
Alla fine dell’inverno e al principio della primavera, nelle ore del pomeriggio, mi rivedo in pantaloncini beige, seduto sul gradino più basso della scala che porta alla palestra (che fungeva anche da rifugio in caso di emergenza bellica), le orecchie tese verso la porta chiusa: sto ascoltando la canzone che di tanto in tanto si interrompe e la voce della maestra che sgrida i cantanti e spiega che cosa bisogna correggere.
A volte però vanno avanti senza interruzioni, allora io canticchio con loro una delle voci che ho imparato a forza di ascoltare, e il mio cuore brucia di invidia, anche se l’arrangiamento per il coro, che la fa sembrare una vecchia canzone popolare, finisce per essere quello che si suol definire con un certo disdegno «musica moderna». I suoi bislacchi accordi mi stridono nelle orecchie, ma io mi sforzo di apprezzarla. Non lontano da lì, nel cortile della scuola, un gruppo di bambini sta giocando a calcio. Non li vedo da dove sono seduto, in fondo alle scale, ma le loro urla e il rumore dei calci sulla palla disturbano il mio ascolto. Non sto dalla
parte del calcio, mi dico, ma è proprio la mia parte che mi tradisce. Quando sento che la prova è finita, mi alzo. Fra poco si aprirà la porta, gli eletti saliranno per le scale e se ne andranno; io allora cercherò di nuovo di convincere la donna in nero a prendermi nel coro.
Lei si accorge della mia presenza e allunga verso di me, come per difendersi, la cartellina di spartiti che tiene sottobraccio, è di cartone nero con una lira classica disegnata sopra. «Non ho tempo» dice. «Sì, sì, so già che suoni il violino e leggi le note…».
«Ma non le ho ancora detto che conosco il solfeggio cantato…».
«Sì che l’hai già detto, l’hai detto eccome». Si fa strada fra me e i ragazzi che stanno uscendo. «E io ti ho detto che non prendiamo degli elementi nuovi nel coro. Per favore non venire più a molestarmi ogni volta che c’è una prova…».
«I giorni in cui ho lezione di violino comunque non potrei venire…».
«Che faccia tosta! Lo dico al preside!».
È magra, vestita di nero, i capelli avvolti in una crocchia sulla nuca. Grandi occhiali spessi con la montatura nera, sopra il naso adunco, le sopracciglia filiformi che disegnano una riga convessa. Fra me e me la chiamo barbagianni. Mi sposto di lato e la lascio passare.
I miei compagni di classe che escono di lì con un’aria tronfia, come se avessero un segreto, se la prendono con me: «Ma che hai? Tu hai i concerti, che te ne fai del coro?».
«Perché voi sì, perché altri sì?».
«Ma così, solo per curiosità» dice uno. «Comunque io voglio mollare».
«Chi ti disturba? Così si libererà un posto per me?».
«Non si può, l’impegno è di restare fino a dopo gli spettacoli».
«Spettacoli? Ci saranno degli spettacoli? Ma allora perché me lo avete tenuto nascosto? Tutta la classe è stata zitta».
«Ricominci? E basta, dai! Nessuno ti ha nascosto proprio niente. Come l’abbiamo visto noi l’annuncio per l’iscrizione, potevi vederlo anche tu. Ognuno si fa la sua vita» filosofeggia il ragazzo «e mica si corre a comunicare tutto a tutti».
Questa risposta mi ha convinto ancora di più che c’era effettivamente stata una congiura per nascondermi l’iscrizione al coro.
Y. B., amica d’infanzia dalla memoria rara e di grande competenza nel suo settore, è docente in una università. Abbiamo fatto insieme le elementari, le medie e il liceo, anche nell’esercito ci siamo ritrovati nella stessa caserma, e poi abbiamo frequentato l’Università Ebraica negli stessi anni. Da allora, non è che ci vediamo spesso, ma quando lo facciamo mi rendo conto che c’è ancora confidenza fra noi.
Qualche anno fa le ho chiesto di incontrarci per rievocare quei ricordi e chiarire insieme a lei alcuni punti oscuri. Doveva essere stato a casa sua, ma non ricordo nulla di quell’incontro.
Se pure si è svolto davvero, è impensabile che non sia stata rievocata la faccenda del coro, che mi cruccia da tanto tempo. Comunque, per quanto mi sprema le meningi, non trovo alcuna conferma in merito, neanche l’ombra di una immagine.
L’ho chiamata e le ho chiesto se si ricorda di un incontro avvenuto fra noi qualche anno fa.
«Se fosse stato un anno fa, potrei guardare nell’agenda dei miei appuntamenti. Ma trattandosi di qualche anno fa non ho modo di appurare».
«E la tua rinomata memoria?».
«Vattici a fidare ancora. Guarda, secondo me non c’è stato nessun incontro fra noi. Perché è così importante per te?».
«Ha a che fare con il coro».
«Quale coro?»
«Dai, vediamoci».
Ci siamo visti qualche giorno più tardi. Siamo andati in un bar e dopo brevi convenevoli sono andato dritto al sodo.
«Come ti ho accennato, si tratta del coro della scuola» ho detto.
Lei ha sgranato gli occhi.
«Ehi! Ci sei?» ho chiesto.
«Mica del tutto» ha risposto. «Lo sai che stai parlando di qualcosa che risale a più di cinquant’anni fa?».
«E allora? Non è forse arrivato il momento di risolvere l’enigma?».
«Quale enigma?».
«Voi mi avete tenuto nascosto l’annuncio per le iscrizioni al coro della scuola, negandomi la possibilità di parteciparvi. È stato tutto premeditato. E, dopotutto, ora ho il diritto di sapere la verità: cosa è successo allora? Perché mi avete negato l’accesso al coro? Perché mi avete escluso? Ti ricordi qualcosa in proposito?».
«No. Nulla».
«Te la ricordi la direttrice del coro? Accompagnava la canzone al pianoforte. Dicevano di lei che in passato aveva fatto l’insegnante di ginnastica in una scuola religiosa femminile. Era magra, vestita sempre di nero e con una faccia da uccello notturno».
«No, anzi io ricordo il direttore: un bel ragazzo, un musicista, che aveva fatto anche degli arrangiamenti per qualche voce. Le ragazze erano tutte innamorate di lui».
«Sei sicura che stiamo parlando dello stesso coro?».
«In tutti i nostri anni di scuola, sia alle elementari che alle medie che al liceo, non c’è mai stato nessun altro coro. Solo quello. L’hanno fatto solo una volta: per il giorno in memoria dei caduti. Credo che non sia mai più stato ripetuto».
«E tu dov’eri?»
«Non lontano da te» ha detto Y. B.
«Cioè?».
«Mi ricordo che stavi con i maschi».
«Ma perché io non ricordo niente di tutto ciò? Ne abbiamo mai parlato?».
«Per me non è stata un’esperienza così importante da parlarne dopo cinquant’anni…».
«Avete fatto degli spettacoli?».
«Quali spettacoli? Il giorno della commemorazione nel cortile della scuola abbiamo cantato quelle canzoni tristi, e Ruthi S., il cui fratello era caduto a Majdal, aveva l’assolo. E ha pianto tutto il tempo».
«Ma io non c’ero nel coro,» ho detto «né alle prove né nel giorno della commemorazione. Io stavo seduto in fondo alle scale, davanti alla porta della palestra, cercando di captare ogni nota e ogni parola. Speravo che acconsentissero una buona volta a farmi l’esame e lasciarmi cantare con tutto il gruppo».
«Ma dove l’hai pescata questa storia delle prove in palestra, nel sotterraneo?» ha chiesto Y. B.
«Era lì che facevano le prove».
«Non c’è mai stata nessuna palestra nel cortile della scuola,» ha detto Y. B. «né sopra né sotto terra. Ginnastica la facevamo fuori, in cortile. Le prove del coro le abbiamo fatte, anche tu ed io, in un’aula, nel pomeriggio».
«Confesso che mi sentivo offeso. E cercavo di nasconderlo».
«Secondo me dovresti fare un salto da uno psicologo» mi ha consigliato Y. B.
Mi sono reso conto che stava perdendo la pazienza.
«Se intendevi trovare conferma dei tuoi ricordi immaginari» ha detto «sappi che da me non l’avrai». Prima di scoppiare a piangere mi sono alzato e mi sono affrettato verso l’autobus.
Il dottor Nahum Goldmann, esponente sionista di primo piano in quell’epoca, avrebbe tenuto una conferenza nel circolo universitario gerosolimitano «Beit Hillel». Ci andai perché volevo chiedergli che bisogno c’era ancora del sionismo dopo la fondazione dello Stato ebraico indipendente. Non ricordo se ci furono domande dal pubblico al termine della conferenza; se ci furono, io avevo evidentemente deciso di lasciar perdere. Uscii dalla sala. Da una stanza provenne il suono di una canzone meravigliosa. Andai in quella direzione finché non mi ritrovai in un corridoio, davanti alla porta da cui sbucavano quelle note. Mi sedetti su una delle sedie disposte lungo il muro. Non lontano da me c’era un soldato biondo, con il quale avrei poi fatto conoscenza al corso di filosofia.  Si accese una sigaretta, tirò fuori dalla tasca dell’uniforme un taccuino e una penna a sfera, e annotò velocemente qualcosa. In fondo alla fila c’era invece seduta una ragazza che si stava asciugando gli occhi con un fazzoletto. Non avevo dubbi che piangeva perché non era stata presa nel coro. Mi sarei avvicinato volentieri per consolarla, ma come avrei potuto, io con la mia ferita nel cuore ancora aperta? Che cosa mi emoziona di più quando ascolto una creazione musicale che non conosco? Scopro che i passaggi da una scala maggiore a una minore e da minore a maggiore mi inondano di una specie di felicità intima, fisica, e il passaggio alla minore più dell’altro. La voce del maestro si sentiva di tanto in tanto dietro la porta chiusa mentre spiegava qualcosa al coro e la esemplificava con la propria voce. La canzone si ripeteva, il pianoforte di accompagnamento mi sembrava quasi un organo.
Lo sapevo che alla fine non mi sarei più tenuto e sarei andato dalla ragazza. Da vicino sembrava una liceale delle ultime classi. Non era particolarmente bella, ma aveva tanta dolcezza e una grazia timida, sulla difensiva.
Presi coraggio, mi avvicinai e le dissi sottovoce:
«Scusami se ti disturbo. È la prima volta che sento questa canzone che stanno cantando. Che cos’è?».
Lei si asciugò gli occhi, levò lo sguardo e rispose: «La Messa Tedesca di Schubert».
«Cioè protestante?» sfoggiai la mia cultura.
«Può darsi».
Tornai al mio posto. Dopo un po’ si udì di nuovo la voce del maestro che parlava ai cantanti, e adesso lodava l’esecuzione dell’ultima parte, prima di salutarli con un arrivederci al prossimo incontro. La prova era finita, la porta si aprì e alcuni membri del coro uscirono di ottimo umore. Il posto si riempì di risate e voci allegre. Non riuscivo a staccare gli occhi da loro. Per
me erano degli angeli.
Il soldato biondo si alzò ed entrò nella stanza del coro per incontrare il suo amico che non ne era ancora uscito. Poi i due mi passarono davanti e dal corridoio si diressero fuori. Pian piano il luogo si svuotò e calò il silenzio. La ragazza che piangeva era rimasta seduta, fissava di lontano un angolo della stanza, in attesa di qualcuno che venisse da lei. Ma non venne nessuno. Mi presi la libertà di tornare da lei.
«Avrei ancora una domanda soltanto» le dissi.
«Posso?».
Lei fece cenno di sì con il capo.
«Di chi è questo coro?».
«Cosa significa. È un coro studentesco».
«Cioè sono tutti studenti?».
«Sì».
«Anche io faccio l’università, non sapevo che ci fosse un coro».
«Perché non lo sapevi?» mi chiese.
«Nessuno me l’ha mai detto».
Si alzò e uscì anche lei dal corridoio.
Andai sulla soglia della stanza, feci capolino dentro. Alcuni componenti del coro stavano intorno all’autorevole maestro. Costui aspettava che tutti uscissero per poter chiudere la porta della stanza con una chiave che stava facendo girare con un dito. Per ultimi uscirono il maestro e la pianista. Lui le strinse calorosamente la mano e se ne andò in fretta. Una donna vestita di nero mi passò davanti uscendo, aveva sotto il braccio una cartellina di spartiti, di cartone nero con una lira classica disegnata sopra.
Aveva i capelli raccolti in una crocchia, degli spessi occhiali con la montatura nera sulla punta del naso adunco e sopra delle sopracciglia filiformi arcuate. Mi lanciò un rapido sguardo e proseguì. Un custode o un guardiano entrò nel corridoio buio, si guardò intorno, mi si parò davanti, mi puntò addosso il fascio della torcia che aveva in mano, accecandomi.
«Che ci fai qui?» urlò. «È tutto chiuso! Tutta la notte non si esce fuori! Veloce apro porta!».
Con una mano mi prese per le spalle e mi spinse nel corridoio buio, mentre con l’altra teneva la torcia che ci illuminò la strada fino alla porta – e fuori! Al freddo di Gerusalemme.

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