Piperno: “Flaubert, gli editor e il mio prossimo romanzo”

Intervista ad Alessandro Piperno, che da due anni lavora al successore di “Dove la storia finisce”: “Emma Bovary? Non si sa quanto possa essere l’eroina delle eroine o la scema delle sceme. Col mio esordio ho un rapporto bello e risolto, nonostante le critiche. Lasciare la Mondadori? Sono abitudinario e leale, mi manca l’irrequietezza. Non vivo come un dramma i cambi di editor al timone. Lavoro a una storia dalla struttura complessa e in cui torno alla prima persona”

Da quattordici anni è nell’agone letterario italiano e internazionale, tradotto all’estero, amato, odiato, invidiato. Primo protagonista, al museo Salinas di Palermo, della rassegna «Donne in amore – Women in love», ideata dalla giornalista Sara Scarafia, Alessandro Piperno torna in Sicilia, nella città in cui ha conseguito il dottorato in Francesistica. «Lavoravo con il professore Giovanni Santangelo – ricorda lo scrittore, che insegna Letteratura francese all’università di Tor Vergata – scomparso da pochi mesi. Era anche prorettore, mi riceveva allo Steri e alle sue spalle aveva quel magnifico quadro di Guttuso. Con lui correggevo la mia verbosissima e noiosissima tesi sui simbolisti. Conosco abbastanza bene Palermo, anche se non ero esattamente un turista…». Ai suoi lettori palermitani Piperno proporrà un focus sulla creatura per eccellenza di uno degli autori che ama di più, Gustave Flaubert (protagonista del suo ultimo libro, Il manifesto del libero lettore), ovvero Emma Bovary.

Piperno, perché a oltre un secolo e mezzo dalla pubblicazione di Madame Bovary, Emma continua a esercitare un fascino, anche perverso, sui lettori?

«Molto del merito sta nella formidabile capacità flaubertiana di evocarla, capacità che è fondamentale in ogni opera letteraria. Flaubert, poi, ha lavorato molto sull’ambiguità di Emma, non ideando ma mettendo in atto ad alti livelli la tecnica del discorso indiretto libero, simulando una sorta di impersonalità, entrando nella testa del personaggio, senza però dare l’idea che i pensieri fossero dell’autore, creando una favolosa ambiguità».

La provinciale che sposa un medico e si stufa in fretta del matrimonio e della vita di coppia colpisce l’immaginario?

«L’ambiguità funziona alla perfezione con la Bovary che è scandalosa, anche per il presente. Non certo per gli adulteri, per i quali oggi non ci formalizziamo, anzi quasi auspichiamo (ride, ndr), semmai per il suo rapporto esclusivo con il piacere, per il suo essere una pessima madre, che maltratta la figlia Berthe. C’è chi ha visto in lei la prefigurazione di modello femminista, un’eroina sovversiva, e chi ritiene che abbia idee convenzionali, coi suoi amoretti, e perfino un atteggiamento maschilista, che sogna uomini forti e che la portino via, che abbia un’idea ingenua del partire, della felicità altrove. È un personaggio in cui possono identificarsi tanto certe mie studentesse quanto i lettori più avvertiti. Non si sa quanto possa essere l’eroina delle eroine o la scema delle sceme».

Flaubert sembra trattarla con sufficienza, spesso con sarcasmo…

«Vargas Llosa dedicato un intero saggio a Emma Bovary, il ritratto di una grande pasionaria, la prima vera donna emancipata della letteratura mondiale. Nabokov pensa l’opposto, crede sia una donna ordinaria, superficiale. Forse hanno ragione entrambi».

Nei romanzi odierni è difficile rintracciare personaggi del genere?

«Non ho una conoscenza così approfondita della letteratura contemporanea per dirlo con certezza, ma posso assicurare, anche per esperienza personale, che per uno scrittore scrivere di un personaggio femminile è un esercizio estremamente difficoltoso, che presta il fianco al cliché, al ridicolo, talvolta all’inverosimile, è complicato, soprattutto per gli uomini cimentarsi in modo credibile con figure femminili. Un personaggio femminile che ho amato tantissimo è la protagonista de La ragazza cattiva di Vargas Llosa, ambigua, forte e consapevole, con la fortuna rispetto a Emma. In questo romanzo la vera Bovary sembra il narratore, preso dai suoi sogni romantici, che si incarnano di volta in volta in quel bellissimo personaggio femminile. Poi ci sono anche altre donne notevoli nei romanzi contemporanei, Drenka Balich de Il teatro di Sabbath di Philip Roth, molte protagoniste di Abraham Yehoshua, Iris di Dolore di Zeruya Shalev, che però è una donna…».

Nel 2005 ha esordito con il romanzo Con le peggiori intenzioni, romanzo spregiudicato, cinico, iconoclasta, che riempì le pagine di molti giornali, fra controversie e paragoni eccellenti. Come guarda a quel giovane scrittore e a quel debutto di successo?

«Sicuramente con un misto di tenerezza e distacco, nel modo in cui guardiamo le cose che non ci riguardano più. È un libro che, forse, oggi scriverei in modo diverso, però riflette la freschezza dei miei ventinove anni e ha avuto una certa fortuna perché è scritto in un certo modo. Finché si è nel fuoco della controversia c’è un atteggiamento dubbioso di fondo, ti inizi a chiedere se hai sbagliato mestiere, se stai facendo la cosa giusta. La cronaca cinica e mondana, elogi e critiche non lasciano traccia, non hanno molto senso, ma si comprende col senno di poi, non quando si è lì in mezzo. La consapevolezza arriva dopo tanti anni, non quando ci si sente vittime di eccessi di entusiasmo o di persecuzione. Alla fine resta il libro con cui adesso ho un rapporto bello e risolto, se resiste da un po’ di anni non è poi così brutto come qualcuno pensava, è un ottimo esordio, ha avuto epigoni, segnando in qualche modo una stagione letteraria».

I giudizi negativi arrivarono per invidie o posizioni ideologiche?

«Un exploit letterario, piccolo o grande, effimero o duraturo suscita sempre odio. Con l’odio hanno fatto i conti scrittori molto più importanti di me. Un mio amico mi disse che il successo è qualcosa di disgustoso vissuto dall’interno e contemplato dall’esterno…».

Forma e contenuti nel tempo sono inevitabilmente mutati, la cattiveria e il veleno dell’esordio si sono stemperati, le frasi si sono asciugate, più essenziali, con meno avverbi e aggettivi. Cosa è successo?

«La vita di chi scrive e trascorre quattro, cinque anni per finire un libro è diversa da quella del lettore che in compagnia di quel volume trascorre un paio di giorni, una settimana o dieci giorni. È anche una questione di qualità della vita. Il romanzo più recente, Dove la storia finisce, è stato un esperimento. Ero reduce da un dittico (composto da Persecuzione e Inseparabili, ndr), che avevo però vissuto e percepito come un libro unico (riunito poi sotto il titolo Il fuoco amico dei ricordi, ndr), gigantesco, non nella qualità, ma per il numero di pagine, che sfiorava il migliaio, e per lo sforzo intellettuale e di abnegazione. Un’opera, con difetti, discontinuità, ripetizioni, in cui lavoravo per accumulazione. Dopo un’esperienza del genere avevo bisogno di un libro che mi distendesse un po’, che mi desse il senso della misura, senza i miei stilemi, in cui non affondare troppo il colpo. Non ho un grande rapporto con i lettori, nel senso che non mi muovo molto, non sono sui social, ma c’è chi mi scrive all’email dell’università. Questa novità è stata naturalmente notata e molti piperniani doc l’hanno vissuta come un’abiura e un tradimento, ritenendo che la struttura di Dove la storia finisce potesse meritare la lunga distanza. Una lettrice mi ha scritto che ho chiuso il libro quando lei cominciava a divertirsi. Io però avevo bisogno di qualcosa che mi servisse da decongestione. È un romanzo estremamente lavorato, se mi è permesso dirlo in modo flaubertiano, un lavoro di fino sulle frasi, sull’indiretto libero, sulle ellissi».

Nella scrittura non hanno inciso minimamente i cambi della guardia – da Franchini a Francesio, passando per Carabba – al timone della narrativa italiana di Mondadori?

«Ho la massima stima per il lavoro degli editor, che molti miei colleghi ritengono sia un lavoro che tende alla normalizzazione, magari per scopi mercantili. Non c’è niente che non sia migliorabile, forse anche Flaubert, con l’aiuto di un professionista, avrebbe scritto meglio Madame Bovary. Oggi, comunque, non credo che un editor abbia il potere di condizionare un narratore consapevole e io credo di essere un narratore consapevole. Franchini è uno dei più grandi editor in assoluto, con Carabba il rapporto è stato completamente diverso, visto che ha dieci anni meno di me, l’ho conosciuto quando è arrivato da collaboratore nella redazione di “Nuovi Argomenti”. Francesio lo conosco da poco, ma mi ha dato la sensazione di essere una persona forte e un professionista leale. Io, però, fin dagli esordi, ho un piccolo entourage con cui lavoro, che mi ha consentito di non vivere come una frattura drammatica i cambi alla Mondadori».

Casa editrice che non lascerà mai?

«Sono leale e abitudinario. La mia carriera è stata scandita da quell’esordio controverso, non ho idea di cosa significhi fare promozione, quasi me ne infischio dell’ufficio stampa. Se un libro va sono contento, se non va lo sono meno, ma di certo non me la prendo con l’editore, semmai con me stesso. Ammesso che un libro che venda meno valga meno. In definitiva non ho quella irrequietezza che porta altri miei colleghi alla ricerca di nuovi editori».

E per Mondadori cosa sta scrivendo? Un ritorno all’antico?

«Spero di no, nel senso che guardo avanti. Da due anni però sono alle prese con un romanzo di nuovo piuttosto esteso, dalla struttura complessa, in cui torno alla prima persona come per Con le peggiori intenzioni, anche se quello che scrivo c’entra poco con la mia persona, come nel caso del mio debutto».

Torna in Sicilia, ma raramente si è pronunciato o ha scritto di autori dell’Isola…

«Cosa dire che non sia stato già detto della letteratura siciliana? Ha dato un contributo impressionante a quella italiana, che ha qualche altro ceppo importante, quello ebraico-triestino, quello milanese, quello fiorentino. Nei siciliani c’è un intreccio affascinante fra incanto e sensualità, ci sono interrogazione filosofica e un rapporto privilegiato con l’esoterismo, con l’illuminismo, con la Francia, contiguità che non saprei a cosa attribuire esattamente. Nel mio cuore c’è Pirandello, certamente tra i più grandi scrittori italiani del Novecento, al pari di Svevo e Gadda. Quando ero ragazzo nutrivo un certo amore per la parola forbita e morbosa, quindi per i libri di Bufalino. Ho anche avuto una sbandata per Consolo, di cui mi persuadeva meno l’aspetto civile, mi persuade meno di ogni letterato. Leggo con più interesse De Roberto che Tomasi di Lampedusa, che mi sembra un epigono di De Roberto, ma di Tomasi ammiro molto la saggistica. Il siciliano che più mi piace per le cose che pensava, per il disincanto e per l’idea libera della vita che aveva, è Sciascia, che però mi interessa meno come scrittore, cioè nella famosa isola deserta difficilmente leggerei un suo libro…». (Questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta sul Giornale di Sicilia)

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