Consolo e Sciascia, scriversi (scrivere) come non si fa più

Il carteggio lungo un quarto di secolo fra i due scrittori siciliani in “Essere o no scrittore”. Tra gioie e dolori privati, chiacchiere letterarie e una profonda riflessione sul senso della scrittura

Consolo e Sciascia, Enzo e Leonardo, dialogavano attraverso le lettere, manoscritte o dattiloscritte, come gli scrittori d’oggi non fanno più. Si incontravano a casa dell’uno a Sant’Agata di Militello, o dell’altro, Caltanissetta, o s’incrociavano a Palermo («albergo Mediterraneo, Caprice, Flaccovio sono i luoghi in cui puoi trovarmi», raccomanda Sciascia a Consolo, amico e collega in un tempo in cui la telefonia mobile non era certo contemplata), o anche a Milano, quando il più giovane dei due si trasferì lì, iniziando a lavorare come addetto ai programmi culturali della Rai.

L’ammirazione del più giovane

Si confidavano gioie e dolori privati, si concedevano chiacchiere letterarie (da Addamo a Piccolo, da Vittorini a Crovi, da Gadda a Morante, gli scrittori inevitabilmente sono protagonisti fra le righe), mai pettegolezzi, e riflessioni sulla ragion d’essere della scrittura. Un po’ più trattenuto, come da carattere, Leonardo Sciascia, più espansivo e audace, Vincenzo Consolo che non esita a scrivergli nel 1967, dunque ad amicizia consolidata: «A ogni tua nuova “cosa” provo sempre lo stesso piacere di tanti anni fa, quando, chiuso fisicamente e di “testa” nel mio natio borgo scipito, leggevo i tuoi primi libri e mi aprivo e apprendevo da questo mio scrittore e siciliano ideale del cuore della Sicilia. Non sorridere – nel tuo modo agghiacciante – di questa dichiarazione d’amore. La quale ora, del resto, si confonde tra quelle di chissà quanti altri».

Una duratura amicizia

Una corrispondenza, nata da un approccio iniziale del debuttante Consolo: nel 1963 aveva inviato al maestro di Racalmuto il suo primo libro, La ferita dell’aprile, che aveva suscitato sincero interesse in Sciascia. Corrispondenza che adesso è diventata un prezioso libretto, da centellinare, Essere o no scrittore. Lettere 1963-1988 (84 pagine, 14 euro). Le cinquanta missive (meno frequenti negli ultimi anni, quando s’infittirono le conversazioni telefoniche) provengono dall’archivio di Vincenzo Consolo e sono state messe a disposizione dalla sua vedova, Caterina Pilenga, e dalle figlie di Sciascia, Laura e Annamaria. Il volume è pubblicato dalla raffinata casa editrice Archinto, specializzata in epistolari, che ha affidato la curatela del carteggio fra Consolo e Sciascia a Rosalba Galvagno, saggista e docente universitaria (insegna Letterature comparate e Teoria della letteratura nell’ateneo di Catania), autrice anche dell’interessante introduzione, che spiega tutto il contesto di una duratura amicizia, vivificata, con questa pubblicazione, a trent’anni dalla morte di Sciascia e a sette da quella di Consolo.

Una grande stagione non ancora tornata

Schiudere gli occhi su queste lettere di Consolo e Sciascia – l’ultima datata un anno e mezzo prima della scomparsa del più anziano – è un piacere, raccontano sì una grande amicizia, regalano acute letture critiche (un grande ed esaustivo pezzo di Sciascia su Il sorriso dell’ignoto marinaio, una profonda riflessione di Consolo su L’affaire Moro) spaccati familiari e dinamiche editoriali, ma soprattutto testimoniano una grande stagione della letteratura siciliana che, senza voler apparire nostalgici e passatisti, di sicuro non è ancora tornata. La stagione in cui Consolo e Sciascia scrivevano su testate nazionali e internazionali (entrambi amatissimi in Francia allora e ancora oggi, più che in Italia), lasciavano il segno nel dibattito, non solo culturale, tuonavano senza alzare la voce, armati solo della forza della scrittura. (Questo articolo è stato pubblicato sul Giornale di Sicilia)

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