Il brano che vi presentiamo, per gentile concessione dell’autrice, è tratto dal romanzo epistolare inedito “Alcohol” di Veronica Tomassini. L’epistolario si inserisce nel filone dell’epica slava, costituendo la contiguità e la triade con “Sangue di cane” (Laurana, 2010, di cui uscirà un saggio, nel 2020, per la Press University di Toronto) e “L’altro addio” (Marsilio, 2017), due precedenti romanzi di Veronica Tomassini. Una donna scrive ad un’altra donna, è sempre la medesima voce narrante e il suo alter ego. Torna agli anni polacchi, eroici, alticci, debordanti pietà, misericordia. Lei racconta al suo alter ego di questo gruppo di bevitori, dell’est Europa, ex miliziani, mercenari, nostalgici, nazionalisti, cekisti, progressisti. È il caos, la perdizione, un passaggio epocale di uomini indottrinati alla costrizione e sbandati dal sopraggiungere della democrazia, dopo la caduta del muro di Berlino. Siamo alla fine degli anni ’90. Russi, romeni, polacchi, una cricca di sbandati, criminali, bevitori, «ingenerano il pianto con il suono del singhiozzo per una tale empietà” ispirata. L’epistolario ha due romanzi guida, “Limonov” di Carrere e “L’ottavo giorno della settimana” di Marek Hlasko. Questa è la musica del romanzo: https://www.youtube.com/watch?v=LQfbO285M9o
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“Ci andrai domani laggiù”, leggi nelle pagine di Marek Hlasko. È morto di alcol? Kuba beveva maledettamente, questo straordinario personaggio, immolato all’ubriachezza come a un fatto di eroismo. Il battaglione e il fronte. Perdevano tutti. Scolorava il suo incarnato dinanzi al demone che si presentava dentro sogni sferzanti, simili a certe albe a Targowek. Quartieri infami, dirai. Venivano da lì, i bevitori del parco, da quartieri infami, dalla periferia di San Pietroburgo, gli spostati criminali, che hai letto ovunque, Carrère, Limonov, Dostoevskij. Più o meno hai incrociato i tuoi amati bevitori nei libri che leggevi.
Kuba sarebbe morto di alcol, per deduzione. Una corda al collo. E finalmente è finita. Figura letteraria drammatica. Dentro un racconto, Nodo scorsoio, esaurisce la lusinga. Ricordi Moffet? Moffet ex ubriacone, riferisce ne Il diavolo e la sua coda. Ed era l’alcol ancora. Erano combattimenti, dissidi. Kuba si appese a una fune. Il telefono squillava. Era una donna. Avesse aspettato ancora. Quella donna lo amava. Kuba non bere. Ma c’erano tentazioni ovunque, sogni simili a ghigni. Crocchi di viandanti che incitavano: bevi, Kuba! Bevi, Kuba!
Poliziotti rovinavano lungo la via, sbronzi. Kuba socchiudeva le palpebre schifando la vita disgustosa. Targowek. La periferia. Gli spostati. Strade fangose. Pozzanghere torbide dove sorprendere la faccia di uno sconosciuto, la sua aria trasognata sfumare nel sorriso di un guitto. Kuba era un Golem. Preferiva morire che vedere la sua faccia mostruosa dentro una pozzanghera di terra, in una via di Targowek.
Il tuo l’avevi perso. Il tuo bastardo, teppistello di una periferia moscovita. L’avevi perso. Andava via.
Per sempre?
No, non per sempre. È un combattimento, capisci? Il senso era: combattere. Sei in una guerra. Lo eri, voglio dire.
L’hai persa. No, no, aspetta. Non è morto. Non è morto.
La corriera sussulta, ogni tanto. Ferma a un semaforo. Sgrani gli occhi. La città è dentro una sera autunnale. La lampada la tieni stretta a te. Non troppo, devi proteggere il bambino. È tutto quel che hai. Il bambino e la sua lampada. È azzurra. E quando ripeti in mente “è azzurra”, sorridi come se in quel breve lasso vi attraversasse un angelo, cantando sommessamente, in un sorriso sicuro della gloria. Sorridi.
Tieni conservati i tuoi segreti. Fino a quando potrai. Fino a quando potrai, ostacolerai tutte le deportazioni. Sei tragica. Buffa. Eppure saresti disposta a farti calpestare da un carro blindato. Ma c’è il bambino. Li devi fermare però, i deportati verso i loro gulag, infamie personalissime, coercizioni ridondanti i vecchi errori. L’errore induce all’indulgenza, al massimo alla cattiveria che diventa commiserazione altrui. Hai la mano sul vetro. Con un dito scrivi il tuo nome. Il tuo diminutivo. Sotto scrivi: amore.
Sei una ragazza sentimentale. Non hai commesso un crimine. Hai solo amato qualcuno.
Ogni volta che amerai qualcuno, ti si spezzerà il cuore. Vorresti aggiungere tu: la fine, un destino, la sventura, una specie di elezione, una sfiga aristocratica.
Il siberiano un giorno ti disse: sei un angelo.
Era ubriaco. Come sempre. O forse non molto. Era gonfio, irriconoscibile. Il suo viso era enorme, come gommoso. Litri di vodka. Il resto erano ossa, solo ossa. Era un golem. Pensasti a Kuba, appeso con una fune al collo. Targowek era un posto infernale. Ma era un libro, un racconto. Hai chiuso quel libro. Nodo scorsoio, era il titolo del racconto.
Fuori pioveva, la gente camminava frettolosamente, tenendosi qualcosa sul capo, un ombrello, un cappuccio, una borsa. La gente vibrava di vita normale. La vita che deve attrezzarsi. Una vita, insomma. Sì.
E la tua?
Il professore in casa della creaturina ti interrogò, sinceramente interessato: “Perché, ragazza mia?”.
Già. Perché.
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p.s. qui qualche traccia di Veronica Tomassini sul nostro sito