C’è del sacro in… Diego Fabbri

C’è del sacro nel drammaturgo Diego Fabbri e nel suo “Processo a Gesù” racconta la storia di una compagnia teatrale che deve mandare in scena “Processo a Gesù”. Metateatro? No, non solo, perché…

Il Sacro è invadente, imprevedibile, avido, a modo suo dispettoso. Rischia di trasformare in un essere impuro chi gli si accosta senza purezza d’animo; ma a coloro che lo riconoscono da lontano, e che lo lasciano passare contemplandolo come si guarda un arcobaleno dopo una pioggia, a costoro concede d’essere tramutati in parti di se stesso. Il Sacro passa dai sensi e, attraverso di essi, rende sacri coloro che gli hanno concesso questo drammatico transito. E proprio così si riproduce, garantendo la sua onnipresenza nella Storia.

Non pigro né impaziente

Esattamente come un virus, Esso ha bisogno d’un ospite che lo incubi dentro di sé, magari per anni, prima che un’accidentale slatentizzazione lo manifesti nello sgomento di un’epifania inaspettata. Così è il Sacro: senza fretta, senza trepidazione. Non pigro né impaziente. Non gli appartengono l’indifferenza come l’ossessione. Attende il suo avvento, l’irruzione di se stesso, senza che – strano a dirsi! – possa dipendere esclusivamente da lui. Permea stanze di vita quotidiana e processioni di secoli, rimanendo magari in silenzio, quiescente, in un’ibernazione che è come il muto grido della sua ribellione all’abitudine. E poi, quando incontra la follia, si desta. Dilaga. Infetta gli animi con la sua malattia salvifica. E proprio come in tutte le malattie lo si riconosce nei segni di un’epoca, di una corrente, di singoli gesti umani o di interi sollevamenti di popolo. Il Sacro produce l’esplosione dei suoi stessi sintomi: stigmate di contagio che i semeiologi dello spirito riconoscono in rossori di tormenti ed estasi, in febbricitazioni di turbamenti che diventano profezie letterarie, in quelle indicibili astenie della bellezza.

E quando c’è la bellezza, il morbo è conclamato: il Sacro ha invaso uno spirito, un corpo; e quel paziente, chiunque esso sia, è ormai condannato alla vita.

Il Sacro ha i suoi lazzaretti: luoghi per i suoi appestati; templi ricolmi di infermi che gridano invocando di non voler guarire. Posti capaci, nel più assurdo e grottesco dei paradossi, di generare anche monatti di senso: uomini che, pur a quotidiano contatto col Sacro, ne rimangono immuni. A loro rimangono in mano i cadaveri della Storia, i carri bianchi di calce e di ignavia.

Varcare un lazzaretto

Noi oggi, nell’esaltazione quasi patetica di questo Sacro così folle, varchiamo il confine di uno di questi lazzaretti; ci incamminiamo timorosi e discreti tra le sedie rosse di un teatro dove, tra pochi minuti, comincerà uno spettacolo. Dall’altra parte, oltre lo spaziotempo delle quinte, gli attori si preparano ad accendere il fuoco sacro del demone, quello “buono”, quello che, impossessato dalla bellezza, si appropria di una maschera perché l’istrione che la indossa possa a sua volta contagiare il pubblico. E il Sacro si moltiplichi.

Si sentono rumori ovattati a causa di quel sipario di velluto pesante; strascichi di scena che, su improvvisati binari, si spostano da un lato all’altro di un palcoscenico che il pubblico non può ancora vedere. Tutto è da immaginare. Cosa starà succedendo dall’altra parte? Gli spettatori, che ancora parlottano tra loro aspettando l’inizio del dramma, hanno già l’orecchio oltre la ribalta: la loro coscienza aspetta; il loro inconscio spera. Scrutano, cercano di capire a cosa possa corrispondere un suono, o in che cosa quel pesante trascinare possa mai trasformarsi una volta divenuto scena. Tutti vivono questa immaginazione quasi come un incidente: in un buon teatro, a pochi minuti dallo spettacolo, tutto dovrebbe essere già pronto dietro il sipario! Perché quel malcelato fracasso?! E non sanno che quel rumore è già arte perché, costringendo all’esercizio dell’immaginazione e dell’attesa, abbassa il sistema immunitario dell’ovvio: dispone uno spirito alla sorpresa del trascendente.

Fidarsi di una locandina

Sta per andare in scena Processo a Gesù di Diego Fabbri.

Ci ha incuriosito la locandina, dove si vede un nuovo tribunale pronto a giudicare – di nuovo – il Mistificatore o Salvatore dell’umanità. Lo deciderà la sentenza.

Ma lui, l’imputato, non c’è. Dove sarà? Che questo Fabbri voglia ordirci il solito predicozzo simbolico, sdolcinatamente asservito alle necessità della Religio publica? Speriamo proprio di no! Se abbiamo scelto di fidarci di una locandina è perché, in fondo, a questo processo avevamo sempre desiderato partecipare. Per accusare, per difendere? E chi lo sa? Magari lo si capirà strada facendo.

Poi finalmente si spengono le luci in sala. Il silenzio forzato di un inizio impone la grazia d’un applauso accogliente, incoraggiante. Un “a priori” tutto fatto di intellettuale e anticipata benevolenza.

Il sipario si apre. Senza fruscii. Il suono di quel silenzio ha coperto ogni altra vibrazione.

Entrano loro, gli attori, uno alla volta. Entrano e si dispongono a semicerchio. Non hanno addosso gli abiti di scena che ci saremmo immaginati. Vestono giacche, cravatte, jeans, magliette. Qualcuno ha addosso il dolcevita nero, simbolo di un esistenzialismo di moda, ma ancora così affascinante.

Spettatori coinvolti

Un attore, più anziano degli altri, comincia a parlare. E si rivolge al pubblico senza porsi a tre quarti, senza neanche far finta di recitare. Ci guarda dritto negli occhi. Accidenti, sembra proprio che il suo copione non preveda un semplice monologo d’apertura, diretto ad un pubblico… ma proprio un discorso diretto a “quel” pubblico. Quello che, in quel giorno, in quell’ora, in quell’istante, si è trovato lì. A quel pubblico, e a nessun altro essere umano sulla terra, è diretto quel discorso.

La cosa sembra seria.

Il dramma, dunque, coinvolge gli spettatori. È sleale. È ingiusto. Avremmo avuto tutto il diritto di saperlo prima! Eravamo andati a guardare lo show di un processo, e magari di una condanna, forse persino di un’assoluzione… Ma non pensavamo d’esserne chiamati in causa! Non potevamo immaginare che quel processo fosse così importante da non prevedere spettatori, ma solo partecipanti! Se ce l’avessero detto… boh… chi lo sa… Magari stasera avremmo scelto una più comoda distrazione. Magari avremmo preferito il cinema.

Eppure… Ma sì, lo sapevamo. Con il teatro il rischio c’era! Un palcoscenico è ancora troppo vicino a quell’umanità che sta dall’altra parte, per sperare che non possa coinvolgerla.

Senza quasi accorgercene, ecco che finalmente gli attori fanno gli attori. Ma… Accidenti! Gli attori interpretano degli attori che interpretano dei ruoli! No, aspetta… Cosa mi è sfuggito?! Perché un attore dovrebbe fare l’attore? Cos’è questo gioco di scatole cinesi? Cos’è questo quadro di Escher trasformato in battute e pause?

Ma sì. Ora abbiamo capito. Processo a Gesù racconta la storia di una compagnia teatrale che deve mandare in scena Processo a Gesù. Si annullano le soluzioni di continuità. Un metateatro! Un teatro che racconta se stesso! Ma è solo questo? Ed è solo questo ciò che racconta?

E figuriamoci… Tse! Figuriamoci se questo sarebbe potuto bastare! Ad un certo punto, quando per giunta siamo già abbastanza presi da quei dialoghi che tutto sono fuorché ciò che avevamo immaginato, ecco che accade l’inevitabile! La rappresentazione (che sia invece una ripresentazione!!?) ha così conquistato il pubblico che un idiota seduto accanto a me non ha saputo resistere e si è alzato in piedi, chiedendo di intervenire! Ma zitto, mitomane! Statti buono e seduto! Facci godere lo spettacolo! Siamo a teatro, mica a un talkshow! Taci e ascolta! Chi mai ti ha dato il permesso anche solo di pensare che una simile recita potesse darti il diritto a questa confidenza!?

Chissà che succederà ora… Magari gli attori faranno una pausa. Lasceranno che l’idiota faccia il suo intervento e poi, dopo aver ringraziato il pubblico per un tale coinvolgimento, riprenderanno le fila del copione… No! Maledizione! Gli stanno rispondendo! Ma… ma allora… Che sia un attore anche lui, mimetizzato tra il pubblico? Che sia anche lui parte del gioco?! Ma se è così, perché diavolo mi sono trovato anche io, senza quasi accorgermene, con la mano alzata, come a voler chiedere qualcosa?! La abbasso subito! Cosa è successo? Che mi è successo?!

Si alzano altri idioti, anche loro con qualcosa da dire! O forse l’idiota sono io, che non ho ancora capito a che gioco stiamo giocando, oppure l’ho capito e faccio finta di non capire, e sono idiota per questo!

Poi, quando sento il sudore che ormai mi scende dalle curve della schiena, quando ormai “SO” che da lì non voglio più essere liberato, ecco che una vecchietta in quinta fila dice le sue ultime parole, pronuncia il suo intervento, o la sua battuta, e tutto finisce.

O inizia.

Applausi senz’anima

Non abbiamo neanche capito se dobbiamo applaudire. Non ce n’è bisogno. Ma va fatto. Ci proviamo. Escono fuori applausi strani, battimani inconcludenti, formali e senz’anima. L’anima è rimasta fuori dalla portata dei nostri palmi; aleggia sull’acqua primigenia di quella sala che ora ricomincia ad accendersi, come in una nuova creazione, e ciascuno cerca di riappropriarsene.

Mi alzo, esco fuori da quel teatro, mia moglie al fianco. Andiamo a prendere una pizza. Ma io lo so, lo so che lo spettacolo non è finito. A mia moglie non lo dico, perché non mi capirebbe. Ma anche lei non parla. Forse sta pensando la stessa cosa. Forse anche lei ha la stessa impressione. Siamo ancora dentro quella scena ma proviamo l’imbarazzo di rivelarcelo in modo consapevole e reciproco.

Ci incamminiamo verso la macchina, in un silenzio fatto di clacson e di rumori di città.

Siamo muti. Metto in moto.

«Bello, vero? Ti è piaciuto?»

«Molto! Bello davvero!»

Stiamo mentendo. Per carità… abbiamo detto il vero. Ma l’abbiamo detto recitando una parte, dicendo cose scritte da qualcun altro. Che curioso! Su quel palcoscenico gli attori sembravano veri, sembrava dicessero cose non limitabili alle battute d’un copione. Ed io e mia moglie, invece, che non siamo attori, crediamo di dire cose vere senza sapere che stiamo recitando.

Arriviamo in pizzeria.

«Entra, io posteggio. Ci metto due minuti.»

Lei va. Non mi allontano prima di averla vista entrare. Poi sposto la macchina e trovo un parcheggio ad un minuto dal locale. Spengo il motore. Esco e chiudo lo sportello. Poi mi appoggio alla macchina. Non mi sento bene, quasi mi gira la testa. Ho una gran voglia di piangere e questo non va bene. Ho voglia di farlo, da almeno un’ora, e non va bene. Fuoriesce il velo di una lacrima, vincendo la secchezza di ciglia rimaste atrofizzate da anni di abitudini. Io le permetto di farlo. «Vieni fuori!», le dico, come se il mio occhio fosse un sepolcro. Come se una lacrima potesse risuscitare. Le lacrime piangono sui sepolcri. Ma esiste un sepolcro per le lacrime? Se esiste, qualcuno stasera lo ha infranto.

Non mi sento bene, eppure non mi sono mai sentito meglio. Che sia un effetto di questa nuova “influenza”, di questo nuovo fluire? Perché questo malessere che viene da dentro, come una carezza, come uno schiaffo, come qualcosa che non riesco a spiegare?!

Ho paura. Che mi sia ammalato di qualcosa di inguaribile? Domani andrò dal medico.

Ecco la pizzeria. Mi moglie è già dentro.

C’è una vecchietta con accanto un uomo più giovane. Sarà suo figlio. Ha la faccia da delinquente, da assassino. Ma quella vecchietta gli sorride. Sì, dev’essere sua madre. Per forza. La guardo con tenerezza e sorrido anche io. Entro in pizzeria. E ricomincia la commedia.

Ma non è più come prima. Lo so.

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