L’artista di Parente fa male perché racconta la verità

Il dissacrante “Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler” di Massimiliano Parente mette a soqquadro certezze dietro cui si nascondono le nostre ipocrisie e grettezze; costringe a riflettere, anche su arte e religione

Se utilizzassi l’aggettivo «dissacrante» per classificare Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler (432 pagine, 10 euro) di Massimiliano Parente, edito da Giunti nei tascabili Le Chiocciole, non sarei molto lontano dal vero, senza essere per questo originale. Il suo stile, infatti, è pungente e senza freni inibitori, il politicamente corretto è bandito, la prosa è pragmatica, cinica, nichilista, con punte di ironia e di vero e proprio humor che strappano più di un sorriso, ricordando a più riprese John Niven. Non credo sia una novità ribadirlo.

Alla berlina il caravanserraglio dell’arte

Però, al di là della trama in sé – le fantasmagoriche avventure di Max Fontana, artista planetario, dal talento provocatorio che, come un novello dandy del XXI secolo, trasforma la sua stessa vita in un’opera d’arte – colpiscono alcune analisi le quali, se isolate dal contesto, permettono di approfondire parecchi schemi mentali e di rivedere numerose certezze, dietro le quali si nascondono le nostre ipocrisie, le nostre grettezze, il nostro essere, in effetti, degli ignoti sfigati senza personalità. Partiamo dall’Arte. Sebbene il protagonista sia un artista, il più grande artista del mondo come ama definirsi, le considerazioni sulla produzione artistica in generale sono a dir poco feroci. Come recitava una pubblicità di successo di qualche anno fa, l’arte altro non è se il prodotto di «alcuni vi$ionari»: gli artisti, compresi gli immortali come Raffaello, Gauguin e Picasso, i critici con le loro bizzarre interpretazioni, le stesse opere d’arte, con quelle semantiche astratte prive di un reale significato, tutto questo caravan-serraglio viene messo alla berlina, privato di ogni autenticità, ridotto a ciò che davvero rischia di essere, un insieme vuoto di oggetti e parole cui si attribuisce un valore che invece non c’è.

La mediocrità e la massa beota

Max Fontana questo lo dice benissimo: tutta le sue installazioni, piene di svastiche e di tutto l’armamentario folcloristico nazista, si riduce ad una banale provocazione che acchiappa sempre. Non perché le sue idee abbiano davvero un valore intrinseco, ma perché la massa, in genere, è beota, si scandalizza e si entusiasma a comando. Fontana potrebbe essere tranquillamente l’alter ego di Parente che denuncia le nostre finte indignazioni, le nostre false ammirazioni, il nostro attaccamento a valori di cui, in realtà, non ci frega poi nulla. Ma siccome tutti lo fanno, lo facciamo anche noi. L’arte sublima questa assenza, questa mediocrità. Stessa sorte subisce la religione considerata un primitivo insieme di simboli per cercare un ordine dentro un universo dominato dal caos in cui non esiste un dopo, ma solo un presente di esistenze dozzinali e insignificanti destinate a perdersi nell’oblio dei tempi. Sentirselo dire è dura, ma ci costringe a riflettere. Se alcune pagine vanno prese in tutta la loro leggerezza e inconsistenza, scritte più per indignare che per dire qualcosa, altre, invece, sono come due dita negli occhi: fanno male perché sotto sotto raccontano la verità.

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