La felicità persa di vista, i racconti romani di Terranova

Hanno tutte una vena triste le dieci nuove storie di Nadia Terranova: la tristezza nella sua impronta più immediata, la solitudine che si allarga quando se ne prende atto. Dieci racconti, quelli di «Come una storia d’amore», in una Roma che non sa restare anonima e non sa farsi sfondo innocente

Dieci racconti, dieci vite, dieci ricerche di una felicità persa di vista, dieci solitudini: il tutto in mezzo a Roma, che è sì una città tra le tante, ma ha una luce tutta sua. Non potrebbe che essere una storia d’amore il filo che tiene insieme le storie di «Come una storia d’amore» (114 pagine, 15 euro), edito da Giulio Perrone, nuovo libro di Nadia Terranova, e difatti eccola nel titolo, una delle chiavi di lettura. Storie di persone comuni: disoccupati, parrucchiere, studenti fuori sede, coppie giovani, coppie che non lo sono più. Nelle storie d’amore c’è anche l’amore che finisce, c’è anche la solitudine. Eppure non è mai banale, un po’ per «il gusto di inquadrare un dettaglio che non quadra», proprio come farebbe un narratore onnisciente molto abile, un po’ perché a cosa serve la letteratura, se non a interrogarsi?

Nelle «rughe dei sorrisi»

Hanno tutte una vena triste le dieci storie di Nadia Terranova (qui la sua intervista sul nostro canale YouTube): la tristezza nella sua impronta più immediata, cioè la mancanza di una felicità, la solitudine che si allarga quando se ne prende atto. Tra strette vie di Roma e la stazione, tra il ghetto ebraico e tavolini di bar dove sorseggiare cappuccini solitari i personaggi di queste storie sono tutti intenti a dipanare le «matasse aggrovigliate» in cui si sono ritrovati. C’è un gran pensare: talvolta si viaggia indietro fino al momento che ha generato lo scarto dai binari della vita come poteva essere, come sembrava, e poi come non è stata. Proprio come in una storia d’amore. Talvolta ci si arrovella tornando al punto di partenza, constatando i vuoti, il disagio, l’inadeguatezza, il fallimento. Tutt’attorno, sempre, un’umanità che si genera dallo sguardo chirurgico con cui Nadia Terranova scende tra gli ingranaggi dei suoi personaggi, persone comuni. Potrebbe sembrare contraddittoria, una carezza impietosa, ma è invece lo sguardo di un’autrice che sa calarsi nei vuoti, tra le rughe dei sorrisi.

Raccontare: osservare

«L’unica – dice la voce narrante del racconto dedicato a R., discreta Roma tra le righe – è raccontarsela come una storia d’amore». Amore che nasce e rende tutto invitante, amore che si esaurisce, che si fa devozione silente, che sparisce all’improvviso e mozza il fiato, chiude le porte della città, apre quelle interiori, fatte di piccoli vizi, abitudini, di farmaci e di osservazioni minuziose, quelle a cui uno scrittore dà forme parlanti. Nadia Terranova ha questo dono: i dettagli del quotidiano passano attraverso la sua scrittura prendendo vita. «Il discorso sulla felicità, meglio tacerlo del tutto», dirà uno dei personaggi: inutile perdersi in troppe analisi sottili, la felicità riecheggia in un libro unto dalla merenda in una scuola ebraica, in un pesce al forno, una canzone cantata a mezza voce per sconfiggere la paura. I dettagli di questi dieci racconti sono ogni volta mondi di parole: lo sguardo si sofferma, coglie un’inflessione, un gesto, l’ombra della spalla di un ladruncolo al mercato. Minuzie come ossessioni, dettagli che allestiscono scene di estrema profondità, pagine che parlano: c’è la vita.

Nella luce di Roma

Le persone, le città: come in una storia d’amore, questi racconti si interrogano sul sentirsi nel posto giusto, oppure fuori luogo, come in una vita parallela, uno scarto da un sogno prefigurato in altri tempi, in altri fugaci attimi di una felicità che sì, «esiste, ma non so se ci abiterei». Roma è una luce che c’è solo lì, stratificata in due millenni di storia: è ombre, curve e quartieri che cambiano abitanti, angoli lasciati andare come accade con le persone, strade su cui le ruote di un trolley hanno tracciato rotte che sembravano voler decollare, ma sono rimaste incollate al pavimento.

Piacerebbe a registi e fotografi, medita un personaggio a proposito della luce. «È colpa sua per ogni cosa che mi è successa. È sicuramente così: colpa di quella luce disperata che tiene in ostaggio le persone per un momento, quindi per sempre». Colpo di fulmine. E così famiglie e sconosciuti si muovono tra lavanderie e bar, tra parchi e panchine, cercando casa e lavoro, cercando di «imparare a voler bene alla propria vita» in una città che non sa restare anonima, non sa farsi sfondo innocente, e come nelle autentiche storie d’amore se ne frega di tutto, delle stagioni e degli interrogativi, delle speranze incrinate per sempre e delle Vigilie di Natale grondanti solitudine. Deve essere quella luce «forsennata» in una città «che ti accoglierà subito e non ti accoglierà mai». Un’idea d’amore, quello che prende forma e poi chissà, bisognerà ritrovare una strada da seguire.

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