Stefansson tatua addosso tutti i sogni di una notte stellata

Con “Crepitio di stelle” l’islandese Jòn Kalman Stefansson restituisce al lettore un insieme di parole intense e potenti con cui riscrivere le emozioni che ci abitano. E, raccontando una famiglia, ci vuol parlare della forza del ritorno

Un uomo forza la serratura della casa che un tempo aveva abitato. Apre la porta e si accorge di come nulla sia rimasto com’era. Non ci sono più i mobili, la moquette, niente assomiglia ai suoi ricordi. A fatica trova un foglio di carta sul quale lasciare un messaggio agli attuali inquilini, li mette al corrente di ciò che hanno fatto sbarazzandosi delle cose che appartenevano a lui e alla sua famiglia, di cosa è accaduto da quando se ne sono andati.

Scassinare la memoria

Forzare quella serratura è stata un’effrazione, «chi irrompe nel proprio passato si trasforma in uno scassinatore», dice il protagonista di Crepitio di stelle (256 pagine, 17 euro) di Jòn Kalman Stefansson (pubblicato da Iperborea, tradotto da Silvia Cosimini), forzare la memoria perché ci restituisca i nostri ricordi. Sono le stelle, come se si trovasse a partire per un lungo viaggio, a guidarlo a ritroso, «il tempo si mette d’impegno per cambiare le cose, sembra proprio che non riesca a lasciarle così come sono, però trascura sempre qualche dettaglio», le guarda uscendo nel buio della notte, cercando consiglio, cercando una risposta che forse non arriverà mai. Guardando quel crepitio di stelle l’uomo cerca di ricordare da dov’è venuto, quei punti cardinali che sente di aver perduto, quel bisogno di portarsi appresso una bussola per orientarsi nel mare esistenziale, sono parti di se stesso che al momento non riesce a ritrovare, «lo so che vogliono dirmi qualcosa di importante, e non mi riferisco alla bellezza, alla distanza o al tempo, perchè le stelle devono indicarmi la strada, mostrarmi il cammino da seguire, devono salvarmi se mi smarrisco […] Ma a cosa serve se dei puntini luminosi in un cielo d’inchiostro ti sanno indicare la strada, loro mostrano il cammino solo alle tue gambe. È un bene avere una bussola in tasca, meglio ancora se la sai usare, ma che cosa te ne fai di una bussola se non ci sono più i punti cardinali?».

La storia della propria famiglia

Per questo, come avesse un fascio di lettere in mano, l’uomo si ritrova a ripercorrere la storia della propria famiglia con la speranza di incontrare sul sentiero il proprio destino. Tutto inizia con la figura ingombrante e un po’ sopra le righe del bisnonno, un uomo dallo spirito avventuriero, con un debole per l’alcol, le donne e una certa inquietudine che si porta addosso e che lo spinge, cronicamente, a lasciare la famiglia per cercare un nuovo posto in cui trasferirsi che sia a Sud o a Ovest, «aveva pensato di lavorare per qualche anno, magari due o tre, risparmiare del denaro, salpare per Copenaghen e da lì partire per il vasto mondo. Imbarcarsi su un mercantile, andare a caccia di balene, risalire il corso di un grande fiume, attraversare la giungla. Vivere una vita avventurosa, tornare a casa da vecchio e scrivere un libro, come fece Jón l’Indiano».

La madre scomparsa

Il giorno in cui incontra la bisnonna, una ragazzina “bella come una rivelazione”, profumata “come un pendio d’erica”, la soffitta di Vesturgata diventa la loro alcova. Ma lo spirito del bisnonno non è fatto per rimanere a lungo in un posto solo e come se si accendesse un fuoco interiore, l’uomo parte nuovamente in cerca di fortuna. La donna rimarrà l’unico pilastro saldo per i tre figli che cresceranno all’ombra di un uomo che, a distanza di settimane, è comunque capace di tornare: «di che cosa sono fatti i legami che uniscono due persone, e che nel disorientamento generale sono stati definiti amore? È una domanda importante perchè a volte sembra proprio che niente riesca a separare due persone, nè l’implacabile inerzia della quotidianità nè la forza esplosiva di un singolo istante». E poi c’è sua madre, la donna che vede scomparire che è solo un bambino: «lei che per millenni mi ha accompagnato giù per il lungo pendio fino all’asilo rannicchiato ai suoi piedi. Lei che una volta ha spaccato il vetro di un appartamento seminterrato di Skaftahlíð, che quando avevo una settimana mi ha portato nel condominio che per quattro piani va su verso un cielo sempre in movimento e per un piano va giù nel buio immobile della terra. […] Non so come spiegarmelo, ma questa donna, che sa essere distratta come il cielo eppure è presente in ogni parola, prende il vizio di scomparire». Questa donna, «che un giorno, in modo stupefacente ma del tutto naturale» si era trasformata in sua madre, «era cresciuta nell’Est, come si dice da queste parti» e aveva ereditato l’inquietudine di famiglia, era fuggita a Ovest, per poi tornare di corsa dall’uomo che aveva scoperto di amare. «Una volta ho provato a stare qualche tempo nelle vicinanze della fattoria dov’è cresciuta, sono rimasto sveglio tutta la notte ad ascoltare i sospiri soffocati dei monti sotto quel gigante bianco. Mi sono fermato a guardare intorno alla sua finestra, a osservare la terra che conserva quattordici anni della sua vita. È stato qui che ha visto crescere l’erba, qui che ha ascoltato il ronzio delle mosche e il crepitio delle stelle, qui che ha trasformato le parole in uccelli e le ha lasciate volare per trovare Dio; qui è cresciuta, si è svegliata alla consapevolezza, come si dice».

Distruggere il vocabolario interiore

È innamorato delle parole Jón Kalman Stefansson, capace di distruggere intenzionalmente il nostro vocabolario interiore, per restituire al lettore un insieme di parole intense e potenti con cui riscrivere le emozioni che ci abitano. “Bella parola, “intenzione”, e fa bene pronunciarla a voce alta mentre la terra sfreccia senza meta per tutto l’inverno. È la parola più bella di una lingua, tranne forse “vieni”. È la forza del ritorno ciò di cui ci vuole parlare Stefansson. Quando l’uomo guarda, in quella casa, se stesso ancora bambino, giocare con i soldatini (che danno voce al suo sguardo sul mondo, alle emozioni che si stanno affacciando nella sua vita), non può dimenticare la notte in cui sua madre aprì la porta della sua camera e gli accarezzò i capelli, la donna che era per lui il calore dell’estate, «a volte negli occhi di mia madre c’è la nebbia e la sua mano destra non è più giugno, la sinistra non è agosto e luglio è già passato. L’autunno arriva presto nelle sue mani, arriva presto anche nel suo corpo, e una volta fatta l’abitudine ai morsi delle ossa sento un calore che rende il mondo abitabile. Non andartene, le dico, lei mi accarezza i capelli e io non ho il coraggio di chiudere gli occhi».

La natura senza limiti

La natura non ha limiti in Islanda, fiordi che allungano la speranza della terra di sopravvivere al mare, le dune dalle quali riuscire a intravederlo e il vento che sferza implacabile, capace di riportare l’uomo al suo più intimo desiderio: che cos’è rimasto di se stesso? Che cosa è rimasto di lei, sua madre, dentro di sé?. Ci sono scoperte che fai quando sei piccolo, «chi ha sedici anni talvolta è come un punto esclamativo nel tempo», amori che si affastellano e non sai gestire, un bisogno di avventura per mettere alla prova la tua capacità di stare a galla. Non ho potuto non subire il fascino di Stefansson che in un ragionevole silenzio, mi ha tatuato addosso tutti i significati di una notte stellata.

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