“Il male minore” di Alessandro Orofino, un estratto

È da oggi in libreria “Il male minore” di Alessandro Orofino (già autore de “La festa del Santo”, di cui abbiamo scritto qui), romanzo pubblicato dalle edizioni Pathos. Due storie parallele finiranno per incrociarsi: un ragazzo intenzionato a cambiare lavoro e vita e un padre inaffidabile costretto a confessare le proprie bugie per salvare il rapporto con la figlia. Storie che conducono ad alcune domande: Per quanto si può indossare una maschera e fingere che tutto vada bene? È davvero sempre giusto scegliere “il male minore”? Per gentile concessione dell’autore e dell’editore pubblichiamo un estratto del romanzo

Avevo superato da poco i trenta, fatidica soglia psicologica con la quale fare i conti. A quest’età il tempo per cincischiare arrivava agli sgoccioli, la batteria delle sperimentazioni cominciava a lampeggiare, la vita reclamava un confronto diretto, o la domi o finisci per essere domato da lei. Io avevo trovato una situazione di mezzo, ero in una fase di stallo, nel classico plateau:
tecnicamente non stavo né vincendo, né perdendo.

In stallo appunto.
Succede anche agli aerei.
Che infatti poi precipitano.
Già da qualche anno avevo raggiunto un primo importante risultato, un lavoro. Avevo accontentato quel comune sentire secondo cui un uomo poteva dirsi sistemato quando finalmente trovava un’occupazione, quando pranzo e cena riuscivano ad esser garantiti da uno stipendio dignitoso. Con un contratto in tasca sI diventava adulti, si tranquillizzavano i familiari, si asfaltava la strada per un futuro rassicurante. Poco importa che il lavoro non fosse soddisfacente e rimanesse lontano anni luce dalle mie aspirazioni. Le quali, storicamente, erano di alto profilo, anche se nebulose. Sentivo appartenermi una certa idea di libertà, una forte reticenza a schemi, obblighi, binari e a tutto ciò che in qualche modo impedisse l’affermazione della mia intima natura. Nonostante questa tensione, impossibile da codificare e agire, avevo accettato un’offerta in una società che si occupava di politiche attive del lavoro, nella quale ero finito per quelle incredibili giravolte del destino che non sai mai se capitano per farti del male o solo per prenderti in giro.
Comunque, nulla di interessante.
Davvero nulla.
In pratica il solito ufficio para-statale dove si parlava tutti i giorni di fuffa, la classica scatola cinese inventata da alcuni burocrati per dirottare fondi e assicurare qualche poltrona agli amici degli amici.
E provate a sostenere il contrario.
Ogni mattina timbravo il cartellino e spegnevo il cervello.
Il contratto era a tempo indeterminato, per carità. Ogni fine mese arrivava puntuale lo stipendio, sebbene i venti della crisi economica avessero cominciato a far scricchiolare anche lì tutte le certezze a cui noi dipendenti ci eravamo mollemente abituati. Considerata la disoccupazione galoppante che c’era in giro – e l’assoluta mancanza di prospettive per molti giovani – quel posticino me lo tenevo stretto stretto. E con lui avevo mandato in soffitta ogni altra ambizione. Prima o poi, mi dicevo, qualcosa succederà. Però il tempo passava e non accadeva nulla. All’inizio i giorni, poi i mesi e infine gli anni avevano cominciato a ripetersi gli uni uguali agli altri, in un susseguirsi di insoddisfazioni sempre più crescenti e difficilmente gestibili.

 

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