Brullo: “La stroncatura alterna pernacchia e cetra”

Intervista a Davide Brullo che ha pubblicato “Stroncature”, antologia di suoi articoli tutt’altro che teneri su intoccabili e autori di bestseller: «La stroncatura è il genio della crudeltà, anzi tutto rivolta contro se stessi, è il talento di indossare il destino del Chisciotte, abitando un incanto che sfiora sempre il ridicolo. Oggi mi pare che gli scrittori preferiscano al duello la recensione inchinata. È vile, tra scrittori, votarsi alla diffida o alla querela. Però la stroncatura mi ha condotto a dialogare con chi mi è diverso: ricordo Carlo Rovelli e Piergiorgio Odifreddi»

Poeta, narratore, giornalista, anima di www.pangea.news (rivista avventuriera di cultura e idee), Davide Brullo è tornato in libreria Stroncature (204 pagine, 12 euro) pubblicato da Gog Edizioni, pagine 204, euro 12,00), un’antologia di stroncature vergate negli ultimi anni, tra satira e grottesco, ripetute spassose nudità del re sottolineate seguendo un paio di regole minime: «La stroncatura, per essere tale, deve rispondere a due criteri. Primo: leggere minutamente il libro stroncato, e citarlo con dovizia. Secondo: si stronca soltanto uno più grande di te. La legge di Davide vs. Golia. Non è ammesso fare il forte con i deboli. Scrivere stroncature chiede avventatezza e cinica leggerezza: devi sfasciarti contro uno più potente. Fiero di avergli bucato gli occhi». Un gioco serio portato all’estremo con tanto di ultimo capitolo, «Davide Brullo stronca Davide Brullo». Nei precedenti capitoli finiscono maltrattati scrittori di successo e tuttologi.

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Davide, la tua è una vocazione, un’attitudine, una missione?

«Siamo chiamati tutti a una missione, all’altitudine di un destino, di cui non decifriamo l’ideogramma sulle sabbie. Io so solo scrivere, fino a fare di tutte queste parole una metropoli di carta. Infine, basterà una candela per bruciare tutto: cerco di estrarla dalla gola. D’altronde, non è detto che un missionario non sia assassino né che la vocazione sia fallimentare: i profeti falsi proliferano, vincono».

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Quali sono le differenze tra critica e stroncatura?

«La critica è esercizio d’intelletto, la stroncatura è estro linguistico. La critica è – si spera – acuta, acuminata, profonda, la fa chi ha studiato, chi ha un pensiero; la stroncatura è puro teatro, è per l’atleta del linguaggio, è l’arte – inutile perciò salutare – del ‘bel gesto’, la capriola nel frastuono, alterna pernacchia e cetra, non ha bisogno di essere intelligente ma per lo più intrigante, divertente, uno spasso. Per questo, è grottesca, fuori luogo, irritante, inaccettata, fuori tempo, infine. È la pratica del dionisiaco idiota, ispirazione scevra di accademia – per questo, credo, mi viene bene».

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La stroncatura è un genere, dunque, nel nostro paese caduto in disuso. E all’estero?

«La stroncatura è il genio della crudeltà, anzi tutto rivolta contro se stessi. Infine, è il talento di indossare il destino del Chisciotte, abitando un incanto che sfiora sempre il ridicolo. Ne siamo stati, in Italia, magnifici alfieri, eppure, già Leopardi era consapevole che “l’affaticarsi di scrivere perfettamente, è quasi inutile alla fama”. Ora, oggi, da un filotto di lustri, mi pare che gli scrittori preferiscano al duello la recensione inchinata, l’inculata, l’amicizia infida, il sorriso da iene. L’agone è voltato in happy hour. All’estero – intendo i mondi anglofoni, francofoni, ispanofoni, quelli che spio – fare critica significa dissezionare l’opera fino all’estinzione dell’autore. Ci si guarda in faccia per non guardare in faccia a nessuno. Irrispettosamente devoti. Devo dire, però, che lo scrittore è sempre all’estero di sé, un apolide alieno alla nostalgia ma a cui sono noti i piaceri del lutto, del canto».

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Sostieni che “in Italia puoi essere (anzi, devi essere) politcamente scorretto, ma non puoi fare il culturalmente anarchico”. Il fatto che Stroncature venga pubblicato da GOG, e non da Einaudi o Feltrinelli, giusto per fare qualche esempio, è una scelta o una conseguenza?

«Gog non è una casa editrice, è una casa. Perfino una terra promessa, cioè un massacro: “Quando Gog apparirà in Israele, oracolo del Potente, la mia rabbia sarà fiamme”, dice Ezechiele. Piuttosto, ho saputo – ghignando di piacere – che Stroncature mi ha impedito, a prescindere, di pubblicare per un grande editore. Bisogna essere sempre un segno di contraddizione, per quanto infimo, e cogliere il rifiuto come un ristoro».

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Nell’era di internet, della post-verità, dei libri di cucina in testa alle classifiche… Quale deve (o dovrebbe) essere, a tuo giudizio, il ruolo della letteratura?

«La letteratura non ha ruolo, non ha prezzo, è sfuggente, inafferrabile, perfino inutile. È il solo spazio – il sacrario del verbo – dove non c’è nulla da capire, niente da guadagnare: si resta nel ritmo della narrazione, alla mercé del canto, si è al di là del ragionamento, nel punto più oscuro, più vasto, di sé, dove trotta la lince».

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Solitamente la stroncatura riguarda un’opera, non necessariamente l’autore. Ma spesso l’autore se la prende a titolo personale. Ad un certo punto, sottolinei con amarerezza che “l’unica cosa che raccogli scrivendo stroncature è livore altrui”. Ecco, vorrei che ci rivelassi qualche reazione, magari un autore che ti ha sorpreso (in positivo) e qualcuno che, invece, se l’è presa talmente tanto che ti avrebbe messo volentieri le mani addosso…

«Magari mi mettessero le mani addosso: sarebbe pur sempre qualcosa di umano, di vero. Alcuni, piuttosto, si sono messi nelle mani di un avvocato, che si è premurato di scrivere a me e al direttore della rivista che ha ospitato un ciclo delle mie stroncature. Hanno ottenuto di obliare la stroncatura, che però è risorta nel libro. È vile, tra scrittori, votarsi alla diffida o alla querela: se ci si sente feriti con ingiustizia si risponda dando duello col linguaggio, in pubblico. Piuttosto, la stroncatura mi ha condotto a dialogare, con franca sincerità, con chi mi è diverso: ricordo Carlo Rovelli e Piergiorgio Odifreddi».

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Alcune delle tue stroncature, dunque, possiamo leggerle nel tuo libro (per inciso, copertina bellissima). Per chiudere questa intervista però, ci daresti un paio di suggerimenti? Qualcosa (possibilmente uscita di recente) che non ha avuto il meritato riscontro sui media e che, invece, secondo te vale assolutamente la pena di leggere?

La letteratura va avanti indipendentemente dai letterati, è un bimbo regale, che cammina sul dorso delle tigri e fa la verticale sul muso delle pantere. Per lo più, leggo i poeti: queste creature inermi, all’apparenza, compiono la più vertiginosa battaglia nell’agone del linguaggio. Tra i rari, amo leggere Francesca Serragnoli e Andrea Temporelli, Gian Ruggero Manzoni e Andrea Ponso, Isacco Turina, Federico Italiano, Flavio Santi. Veronica Tomassini non scrive romanzi, ma poemi in forma di lacerazione. Per il resto, resto in scritture di qualche millennio. Non certo per una frugale fuga, ma per dare alla mia parola, troppo vaga, l’altura dello stilita. Per donarmi un deserto, infine.

È possibile ordinare quello di Davide Brullo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti

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