Giacobino, la madre indomita e una figlia alla sua riscoperta

Sul rapporto speciale madre-figlia si fonda “Il tuo sguardo su di me” di Margherita Giacobino, storia familiare e affresco novecentesco nell’hinterland torinese. Tra invenzione narrativa e biografia, con una voce narrante che immagina possibili altre storie lungo il percorso di una vita che svela al lettore, rivedendosi alla luce di un doppio sguardo: quello della madre e il suo, cangiante secondo le diverse età…

Cosa può accadere quando lo sguardo di una figlia prova a ricostruire la storia di una madre? Se lo chiede Margherita Giacobino nel suo romanzo Il tuo sguardo su di me (204 pagine, 18 euro), uscito nella collana Strade blu di Mondadori. Una storia che inevitabilmente si interroga sui punti di vista, ma anche un grande affresco di una buona fetta di Novecento filtrato dallo spazio dell’hinterland torinese e della città, dall’assetto molto particolare di una famiglia inevitabilmente unica nella sua genesi, nella sua storia, nelle sue possibilità. Un romanzo familiare, forse, che tuttavia rifugge la maglia del genere per fare tesoro dei suoi sguardi: quello presente ma sempre misterioso di una madre agli occhi della figlia, quello consapevole della figlia rispetto a sé, al proprio divenire e allo scomparire della madre. «Scriverò la mia verità su di te – è la dichiarazione della voce nel testo perennemente rivolta alla madre, al “tu” – Non ambisco a svelarti né a collocarti».

Dentro il momento

Iconica l’apertura di questo romanzo: come stare al cinema, rivedere una scena dinamica a rallentatore, scorporarla, e così disfare la fluidità narrativa di quell’istante come tanti altri ed entrare nel personaggio. Ecco come l’autrice ci accoglie alla soglia del suo viaggio alla riscoperta della madre. È il 1963, l’anno del cosiddetto patatràc, episodio cardine della vita di una famiglia che da quel momento verrà come scorporata: fuggito il padre, destinato a restare sullo sfondo nonostante le conseguenze dei suo debiti di gioco; forte, fortissimo invece il legame biunivoco madre-figlia, rinforzato dalla presenza saggia di una zia – la magna, in piemontese – che farà da consigliere e puntello per questa storia a due.

«Tu non piangi, non ridiventi bambina, resti adulta, resti mia madre» dice la voce narrante costruendo in pochi tratti un personaggio dal carattere indomito, come dimostrerà anno dopo anno in questa storia dall’arco narrativo lungo una vita intera. Dentro questo spazio-tempo ci sono il rapporto con la figlia, certo, ma anche ricordi dell’infanzia, del matrimonio, soprattutto le zie-madri. E c’è il negozio, spazio della possibilità per una donna pronta a riscattarsi e non farsi mai piegare dalle circostanze. Un esempio da ammirare con gli occhi della figlia, ma anche una sorta di rifugio costante in cui trovare consolazione per gli attriti con il mondo. «Sei l’ultima persona al mondo a cui desidero espormi nella mia miseria. E la sola da cui possa ricevere salvezza, una parola che mi illumini» confesserà chi parla nel libro.

Nello sguardo di chi

Significativa è dunque l’ambiguità che il titolo trascina con sé: il tuo sguardo su di me presuppone una relazione dialogica della quale cogliamo il perenne rimando dalla figlia alla madre. È infatti la figlia che osserva e rilegge la madre, nel tentativo di ricostruirne il profilo, recuperarne la storia unica; ma è pur sempre la madre a conformare con il suo sguardo l’intera storia della famiglia, il padre messo da parte, la figlia sempre spronata, amata, coltivata, le zie come consigliere sagge, il lavoro come baluardo di dignità, emancipazione e autonomia.

Il rimando costante dall’uno all’altro polo, l’asse dell’io-tu che così vicina fa percepire la voce di questo romanzo, è del resto l’essenza di un rapporto speciale come quello madre-figlia, in cui il testo scava invitato da una visione, quella di apertura, e dal tentativo carico di desiderio e nostalgia di ricostruire un volto, una voce, una persona e la sua vita.

Volevo parlare solo di te in queste pagine. Ma non riuscivo a dirti in terza persona: lei, mia madre, Maria Grazia. Ci ho provato, non era possibile. Il tu si è offerto spontaneamente, è diventato inevitabile. Il solo modo che ho trovato per parlare di te è parlare con te. Tu per me sei il “tu” più antico e profondo. Ti parlo continuamente, il più spesso senza rendermene conto. Come si respira. E se c’è un tu ci dev’essere anche un io, perché così sono andate e vanno le cose nelle nostre vite, e anche oltre.

Una ricostruzione, quindi, ma anche molti interrogativi: dalla madre alla figlia e viceversa, nella necessità di definire un rapporto nelle sue gradazioni e sfumature tramutate nel e col tempo. Finché la vita col suo carico di vita e morte mescolate insieme non si frappone, non rimescola le carte lasciando domande insoddisfatte: «quale è il rapporto tra me e te, quando ti chiamo in uno spazio interno, colmo la tua assenza? Chi sono io quando scrivo, do forma a una storia, traduco l’assenza in presenza?».

Tra lettura e immaginazione

Che cos’è questo libro? Fin dove l’invenzione narrativa si sovrappone alla biografia e ai quei pensieri organizzati che andranno a intessere la trama dei ricordi della madre, destinati progressivamente a sbiadire? La voce narrante si interroga sulla natura del racconto, del quale pure sente la forte necessità, unica soluzione per recuperare quanto più possibile della madre, di quel ventaglio di possibilità che a ogni snodo della storia si squaderna nella mente della figlia. Come in un gioco dei se, la voce narrante immagina possibili altre storie lungo il percorso sempre unico e lineare di una vita che ripercorre e lungo la quale accompagna il lettore rivedendosi alla luce del doppio sguardo: quello della madre, sempre presente, il suo, cangiante secondo le diverse età, aperto alle possibilità.

Sono anche la ragazza che diventerò, e le donne profondamente sconosciute che sarò in un futuro non ancora immaginabile. Le mie età diverse si sfiorano, insieme ti guardiamo. Tu vicina a me, separata da me. Diversa da ogni altra cosa che esiste al mondo. Come per un presagio di perdita, desidero appassionatamente fermare l’attimo nel pensiero.

Entrambi gli sguardi di questa storia sono sguardi di lettrici. È una lettrice la madre, sorpresa lungo tutto l’arco della sua vita a immergersi nei mondi finzionali dei romanzi; ma è una lettrice anche la figlia, che scrive, traduce, scopre narrazioni, ma che è soprattutto intenta a leggere la madre, a restituirla sulla pagina. Le due esistenze intrecciate nel romanzo di Margherita Giacobino non sarebbero forse le medesime, non avrebbero la stessa tridimensionalità se in questa storia non comparissero costantemente i libri, chiavi di volta, evasioni e maestri, esempi buoni e cattivi, in qualche modo guida costante. Del resto, senza letterarietà e senza la costruzione dello sguardo che ci insegna la buona narrativa, perderebbe profondità l’interrogativo che accompagna la necessità di questa scrittura, che invece diventa un universo costruito intrecciando due vite germogliate nello stesso istante. Nient’altro che una madre, nata insieme a una figlia: la semplicissima enormità di una storia.

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