D’Arrigo, un universo affascinante che cela ancora stelle

Trascorso quasi invano il centenario della nascita, fra piccole celebrazioni e grandi omissioni, “C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina”, volume firmato a quattro mani, da Salvatore Cangelosi e Mario Grasso, prova a fare nuova luce sull’autore e sull’uomo. Un libro che è introduzione e viatico, destinato a chi desidera conoscere D’Arrigo, a chi lo ama o pensa di poterlo amare

Nell’ottobre del 2019, nei giorni in cui ricorreva il secolo della nascita di Stefano D’Arrigo nelle librerie, e anche on line, il suo capolavoro, Horcynus Orca (XXXIV-1242 pagine, 20 euro), ora nel catalogo Bur, non era disponibile; c’era chi lo cercava invano e il libraio di turno poteva solo alzare gli occhi al cielo. Autolesionismo di un’editoria che, almeno con certi autori, non riesce nemmeno a far leva sulle ricorrenze, per concedere un po’ di visibilità a quelle che sono pietre miliari impolverate, incomprese; un’editoria che arranca e punta su altro, possibilmente di contemporaneo e alla moda, per risollevare i conti, ma senza lustrare le medaglie che ha già in casa. I cent’anni dalla nascita di Stefano D’Arrigo non hanno scalfito il silenzio che avvolge il grande scrittore siciliano; se festa c’è stata, è stata per pochi intimi, e a livello accademico, o nel piccolo centro di Alì Marina, dove nacque Fortunato Stefano D’Arrigo, figlio di una concessionaria, a Messina, con licenza dello Stato, di una casa di tolleranza.

Il libraio e il critico

Sul finire del 2020 c’è chi ha provato a soffiare sul fuoco di D’Arrigo con un volume agile ma ben costruito e ricco di osservazioni, spigolature, inediti spiragli di luce sullo scrittore e sull’uomo: gli esordi poetici (con un occhio a Hölderlin e a Quasimodo), l’opera da raffinato critico d’arte, lo smisurato romanzo di una vita, Horcynus Orca, il successivo misconosciuto romanzo, Cima delle nobildonne, molto diverso e complementare al capolavoro e che meriterebbe maggiore attenzione critica. Autori di questo libro, edito da Torri del Vento, Salvatore Cangelosi – storico libraio della Feltrinelli di Palermo, da poco andato in pensione, che ha fortunatamente lasciato validissimi discepoli tra gli scaffali – e Mario Grasso, critico di lunghissimo corso. A quattro mani firmano un lungo dialogo, C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina (147 pagine, 16 euro), introdotto dal saggio autobiografico «La letteratura e l’amicizia» di uno dei massimi esperti dell’opera di D’Arrigo, e amico dello scrittore, Stefano Lanuzza.

Oltre i luoghi comuni

Il volume consta di un’affabile conversazione colta, ma non supponente e mai noiosa, che non teme cortocircuiti, anche quando indaga strade poco o mai battute. Sono pagine che non si accontentano del già detto su D’Arrigo, che mettono definitivamente da parte certi luoghi comuni: non uno sperimentalista D’Arrigo, semmai un innovatore, come spiegava in un’intervista lo stesso scrittore nato ad Alì e poi vissuto a Roma; e a suo modo un realista, non un verista verghiano, ma un realista che teneva conto della lezione linguistica di Verga, fosse anche solo per discostarsene, per schivarlo, disseminando casa con foglietti che lo ammonivano in tal senso), e che dimostrano come l’autore più misterioso e controverso del secondo Novecento italiano sia tuttora un universo affascinante, non ancora del tutto conosciuto, anzi che nasconde galassie, pianeti, stelle.

Contro i “nettaorecchi”

Nel volume di Cangelosi e Grasso sfilano estimatori di D’Arrigo, dagli “scopritori” Vittorini e Calvino, da Pontiggia al “mitico” Niccolò Gallo, a George Steiner e Primo Levi, e coloro che avversarono invece il romanzo-mostre, da Enzo Siciliano a tutta la cricca di Moravia. Al mondo letterario più in voga e baciato anche dal successo commerciale D’Arrigo riservava bordate. Contrapposto, neanche tanto velatamente, a Moravia e Sciascia, tacciava, anche pubblicamente, il maestro di Racalmuto (e tanti altri, anche Bonaviri) di essere un «nettaorecchi». Più di una volta, racconta l’acese Grasso, provò a convincere D’Arrigo a conoscere Sciascia, raccogliendo rifiuti e imbarazzanti invettive. Quella di D’Arrigo era «invidia mal celata per il successo di vendite e di critica del conterraneo». Al malmostoso D’Arrigo Sciascia rispondeva col silenzio. «Non ha mai scritto – sottolinea Grasso in una delle ultime pagine – nemmeno una citazione per D’Arrigo e la sua opera. Ma non gli ho mai sentito esprimere parole di stroncatura. A mie insistenze a che leggesse l’Horcynus rispose che sì, lo aveva letto, ma non tutto. Ad un certo punto si era fermato. Conoscendo Sciascia e i significati di certi suoi silenzi, cambiai tema, e da quella volta evitai di tornare sull’argomento…».

Opere e maschere

Da una parte input e osservazioni di Cangelosi, dall’altra le risposte (e le divagazioni) che si accendono in Grasso. Il libro vive di questo stimolante ping-pong, un’intervista sui generis, in cui chi fa le domande non è certo all’oscuro delle risposte, anzi in qualche modo ne avanza di sue; e in cui l’interlocutore è stato un testimone diretto della vita e delle opere di D’Arrigo. A quattro mani Cangelosi e Grasso tornano anche su storie note, l’irreparabile lite col fraterno amico Renato Guttuso, il rapporto viscerale e quasi di dipendenza dalla moglie Jutta, aristocratica calabrese, che aveva notevole voce in capitolo nel corso della lunghissima stesura di Horcynus Orca. Ma vanno oltre, con un loro dolce bisturi che affronta lo sbalorditivo romanzo d’esordio, e poi il secondo, Cima delle nobildonne (accolto da «scandalosi silenzi»), e infine un successivo tentativo “ibleo”, mai portato a termine. E hanno uno sguardo acuto sulla straordinaria attenzione verso le donne, piuttosto in controtendenza con l’opera di tanti altri siciliani e italiani, contemporanei e non. Non tralasciano, infine, l’uomo, etichettato troppo spesso come «difficile, superbo, sprezzante». Grasso sostiene: «… era piuttosto un debole che cedeva agli istinti, era sospettoso e irascibile». Finì per indossare maschere, isolato e in precarie condizioni di salute, talvolta condizionato dalla moglie Jutta, ma era essenzialmente «un sognatore, educato alle letture che ne avevano temprato istanze creative di grande artista, capace di rendere in scritture coniate da filologo che crea un codice linguistico per il suo capolavoro letterario»

C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo di Alì Marina è introduzione e viatico, summa, un volume destinato a chi desidera conoscere D’Arrigo, a chi lo ama, a chi, dentro di sè, pensa di poterlo amare. È un’occasione da cogliere.

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