Ecco come Labbate diventa il medium degli ectoplasmi di King

Se King ha scritto romanzi immaginando luoghi precisi, in cui si è compiuto l’incastro di narrazioni e personaggi, cosa ne è stato di essi terminate le storie? La risposta è “Negli States con Stephen King” di Orazio Labbate. Tanto immediato e brutale il Re, col suo lessico smodato, tanto processionale e delicato Labbate, con la ricercatezza del suo vocabolario, quasi liturgico. Eppure lo scrittore siciliano (o del Maine…) ci guida in territori che vivono di vita propria, nutrendosi degli spettri che hanno generato come delle suggestioni che può ereditarvi chi dovesse ripercorrerli…

Ho cominciato la lettura di questo libro con una discreta preparazione. Non volevo fosse un ritaglio di tempo né un impegno a margine di giornate stanche, in cui sei costretto a far decidere al sonno quanto e quante pagine riuscirai a leggere. Una copertina in silenzio ma ammiccante, con quel suo sfumato evocativo circense, essenziale, categorematica come solo il nero sa essere, e con quel riquadro bianco che tanto sa di collana e quindi di genere prossimo e differenza specifica, dove la specificazione – suggerita dal titolo – prometteva itinerari ben oltre l’ordinario saggistico.

Negli States con Stephen King – I territori del Re, di Orazio Labbate, Giulio Perrone editore, 15 euro: prezzo più che legittimo se passi una dogana e non hai altro da dichiarare se non – appunto – il gustoso desiderio di visitare luoghi che altri occhi, almeno quattro prima dei tuoi, hanno già avuto la possibilità di scrutare e descrivere.

Passaggi di dogana è il titolo della collana, che si propone di ripercorrere spazi in compagnia degli stessi autori che, costruendo all’interno di perimetri tra geografia e immaginazione, vi hanno fatto proliferare le creature della loro ispirazione.

Tale promessa, ancora implicita al varco del confine della prima di copertina, è stata il motore di tutta una serie di accortezze propedeutiche che – come dicevo – ho voluto coltivare prima di immergermi in questa lettura.

L’orrore, istanza metafisica

Cominciamo dall’Autore, nostrano senza che se ne abbia il sospetto, proveniente dalla Sicilia o dal Maine, poco importa. Selettore attento di certe atmosfere che non basta saper descrivere ma, in qualche modo, occorre partecipare, con tutte le implicazioni transitive che questa intenzione possa avere. Basta percorrere alcune sue pubblicazioni per rendersi conto che l’orrore, indipendentemente dall’uso volgarmente commerciale che se ne fa, sa porsi come un’istanza metafisica a sé stante: il mistero inavvicinabile che precede sempre l’emotivo che ne scaturisce, riuscendo a bastare a sé stesso sia sul piano narrativo sia su quello estetico; così che, immergendovisi come attraverso una strategica mistagogia fatta di fobos e di logos, ogni lettore riesca a cogliervi lo scarto essenziale tra ciò che fa paura e ciò che potrebbe farlo, accorgendosi che il potenziale è sempre – per la stessa ragione del non conosciuto – molto più inquietante.

E su questo potenziale, messo in moto nel cuore dei lettori dalle serrate descrizioni delle possibilità incarnanti questi luoghi misteriosi, Labbate carica le sue parole di una semantica potente, fortemente evocativa, non nonostante la forma poetica che ne contraddistingue il veicolo espressivo, ma proprio grazie ad essa: il poetico, qui, trattato nelle sue costituenti essenziali e primigenie, diventa profezia del possibile: paradigma linguistico che si declina, di volta in volta, nei tempi e nei modi del lettore. Così, se la descrizione di uno spazio può concedere a qualcuno una sensazione di libertà, ad un altro può somministrare un’agorafobia occasionale, talmente pressante da costringerlo ad entrare in uno spazio successivo, che è magari quello di una casa dove – e lì ti attende Labbate – insieme al mistagogo stagnano i fantasmi della trappola. Il lettore se ne accorge troppo tardi, al ritmo di certe ironiche e macabre chiuse, dove i capitoli riparano allo stesso modo di un proscenio, dietro un sipario.

Descrittore e precursore

L’Autore, che esplora coraggiosissimamente un oggetto editoriale famoso e troppo facilmente collocabile, tratta Stephen King in una maniera tale che, chi non n’avesse mai udito parlare o mai n’avesse letto una riga, non se lo immaginerebbe affatto così ingiustamente etichettato come letteratura da intrattenimento; al contrario, ragionando a partire da immediate autoevidenze cosmologiche, su come – cioè – un effetto sia solo una parte della sua causa, si convincerebbe che, per trarre simili pagine dagli scenari di Stephen King, dai territori del Re, l’originale dovrebbe essere ricercato immediatamente dopo, in modo irresistibile, come il filosofo cerca il noumeno dopo il fenomeno. In questo senso, Labbate gioca il doppio ruolo del descrittore, che conosce benissimo l’opera di chi l’ha preceduto e la chiarisce a coloro che ne hanno già il sapore in bocca, e del precursore, che prepara al Re un popolo di nuovi lettori.

L’idea è tanto originale quanto efficace: se King ha scritto i suoi romanzi immaginando luoghi precisi, spazi nei quali si è compiuto l’incastro delle sue narrazioni e dei suoi personaggi, cosa ne è stato di essi una volta terminate tutte queste storie?

Come in una specie di limbo, dove tutto si è concluso fuorché ciò che può esserne ancora evocato, questi luoghi, questi territori, giacciono lì dove sono stati lasciati, avvolti ancora dalle brume scaturite da un the end che, solo illusoriamente, ha chiuso la questione. Vivono di vita propria, nutrendosi degli stessi spettri che hanno generato come pure delle suggestioni che può ereditarvi chi dovesse ripercorrerli. Labbate si propone come guida. Ed esattamente come avviene quando, da turisti, visitiamo un posto sconosciuto di cui ci vengono rivelati tratti essenziali a comprenderne la natura, così, egli ci descrive questi piccoli cosmi separati ma – in qualche modo – tutti appartenenti alla medesima dimensione trascendente, quella in cui gli enti (fossero pure immaginari) sussistono. Con tutte le conseguenze del sussistere. Il problema è quali siano le esistenze celate in queste sussistenze: mostri, fantasmi, assassini, demoni, psicopatici? O solo semplici lettori ai quali, proprio come Jack Torrance, basta accedere all’interno di uno spazio maledetto per rimanervi irrimediabilmente infettati?

Così, se King ha creato eventi immaginari dove l’orrore, però, è realtà per i suoi stessi personaggi, Labbate intercetta le molecole di questi eventi, oltre l’orizzonte della narrazione stessa, come prove di una loro esistenza postuma, ancorché non collocabile nelle nostre dimensioni, e non per questo irreale. Labbate diventa il medium degli ectoplasmi di King.

Peraltro, così diversi i linguaggi, gli stili, i tempi. Tanto immediato e brutale il Re, col suo lessico smodato e i suoi turpiloqui adolescenziali, tanto processionale e delicato Labbate, con la ricercatezza del suo vocabolario di cristallo e di seta, quasi liturgico. E se qualcuno dicesse che questo divario rappresenti una troppo consistente distanza tra King e Labbate, un lettore attento aggiungerebbe che questo è propriamente il potere metalinguistico della Letteratura: essere capace di parlare da sé stessa e di sé stessa, con tutti i cazzo di linguaggi che vuole (ecco, appunto).

Un omaggio triadico

Labbate, infatti, in una concessione che è anche un omaggio triadico, pone al principio del suo libro una premessa ermeneutica che, davvero, costituisce un complemento notevole al gusto di una lettura già accattivante di per sé: Bufalino, Calasso e Sebald, presentati come lo spazio tridimensionale di tutto ciò che segue, assolvono al ruolo di ispiratori psicopompi, capaci di traghettare i lettori all’interno del testo come da un mondo all’altro, e ciascuno con la sua propria barca che l’Autore ha voluto sciogliere dall’ormeggio.

Così, mentre Bufalino concede il prestito della sua loquela, che si riverbera in una precisa scelta lessicale, tutta la tensione trascendente sembra seguire le risacche metafisiche di Calasso, quel va e vieni di senso che permea ogni descrizione; e il tutto è perimetrato da un orrore che ricorda le livide descrizioni di Sebald, dove il solo vedere è già patire, dove il ricordo dell’orrore diventa orrore esso stesso, ed è questa l’impalcatura ripresentativa dei luoghi che Labbate intende mostrarci: si coglie il senso di quel malessere che è un esserci già stati anche se non ci sei stato mai, un istinto alla fuga da un luogo che non conosci ancora.

Geniale davvero, a nostro avviso, questa triangolazione eidontologica, fatta di parole e significati manipolabili come cubi di Rubik, di inavvicinabili enti a mezz’aria tra la potenza e l’atto, e di forme e apparenze che, nel Grand Guignol di questo mirabile esperimento letterario, costituiscono i fondi di scena su cui si muove tutta la narrazione. È una vera soddisfazione il gioco di voler individuare queste coordinate man mano che si visitano i vari capitoli, scoprendo peraltro che – una volta colto il richiamo – quest’ultimo non riesce a togliere spazio né a ciò che King aveva detto prima né a ciò che Labbate dice adesso. Un incastro perfetto.

Gli strumenti del mestiere

A questo si aggiunge, naturalmente, la plusvalenza propria dell’Autore, che utilizza con maestria gli strumenti del mestiere e ci regala, di quando in quando, deliziosi giochi di scatole cinesi fatti con le parole, divertendosi al duplice pensiero che noi vi si inciampi per poi divertirci a nostra volta dopo aver scorto gli sgambetti. Così, per esempio, a pagina 53. La descrizione ha per sfondo i luoghi di Annie Wilkes, dove sono accaduti i fatti di Misery non deve morire. Labbate sta descrivendo il paesaggio quando ad un certo punto… state a sentire cosa scrive:

Il cielo è ridotto a un rozzo aggregato di azzurro e vìola le elementari regole di prudenza sulla sua fissità atmosferica.

Ok, ammettetelo, state provando una certa difficoltà ad individuare la natura di certi elementi della frase, e non riuscite a collocare sintatticamente le elementari regole, che soggetto non può essere perché non compie nessuna azione e neanche sembra essere un complemento di alcun genere. E allora rileggete ancora finché, ad un certo punto, vi accorgete che quel vìola non è un colore ma un fottutissimo verbo (già, vi siete accorti ora dell’accento!) ma, collocato vicino all’azzurro ha indotto il vostro cervello ad una tipica illusione… ottica! Le illusioni ottiche fatte e sentite con le parole! Che gran figlio di puttana! Direbbe il nostro Stephen King, divertendosi un casino nel rileggere ancora la frase, e approvando la con tutti i crismi della sua esperienza!

Ecco, questo è Labbate. E questo è solo un frammento del suo libro, tossito in queste poche righe di recensione. Provate a immaginare cosa non vi ho detto.

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