Di Donato, quel Cristo proletario fra i ponteggi dei grattacieli

Fra disgrazie e tributi di sangue, amari calici e porte sbattute in faccia uno spaccato vivido sugli immigrati abruzzesi negli Usa del primo Novecento. In “Cristo fra i muratori” di Pietro Di Donato il traballante mondo dei ponteggi degli esuli italiani, a partire dalla morte del padre del protagonista…

Uscì per la prima volta nel 1939 e, con fermezza, diede voce alla sofferenza e alle disgrazie degli esuli abruzzesi in America. Prendendo le mosse dalla tragica vicenda personale dell’autore, Pietro Di Donato, Cristo fra i muratori (370 pagine, 19 euro) – appena ripubblicato da Readerforblind edizioni, nell’impeccabile traduzione del bravissimo Nicola Manuppelli – ruppe un silenzio difficile da smantellare, quello degli immigrati italiani, poveri cristi sfruttati fino al midollo dai boss dell’edilizia americana di inizio Novecento.

Tutta gente che, confidando nella luccicante promessa di una prosperità transoceanica, in realtà finì per soffocare nelle paludi infernali della miseria e della mancanza dei più elementari diritti umani.

L’inesauribile dolore di un orfano

Era la sera del venerdì santo quando il padre di Di Donato, Geremia – nel romanzo Geremio -, venne ucciso da una colata di cemento che lo seppellì vivo. Da quell’inesauribile dolore di orfano scaturì la storia di Di Donato, involontario eppure ispiratissimo autore di uno dei primi romanzi proletari scritti da un proletario.

Dentro le sue pagine, il traballante mondo dei ponteggi, delle piaghe gonfie e insanguinate sulle mani, dei corpi affumicati dal sole, delle spalle deformate e cifotiche, si stravolge, trasformandosi in un implacabile tritacarne, una macchina da macello che gronda sangue, spezza ossa, smembra corpi, sfigura volti, cementifica i polmoni e reprime le suppliche calcificate degli esuli che gridano al loro dio come fa il Cristo dimenticato sulla croce: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

Ma dal cielo non arriva risposta, sono stati traditi, gettati in mezzo alle macerie fumanti di mille tragedie tutte uguali, e tutte, ugualmente, evitabili. 

L’America corrotta, altro che madre…

Padri di famiglia, mariti devoti e figli intrepidi ridotti a dei giocattoli di poco conto, bambolotti orrendamente mutilati, sacrificati in nome degli interessi politici ed economici di un’insospettabile America che, al netto delle lusinghe, dopo essersi presentata come la più accogliente delle madri, mostra il suo lato più vero e oscuro, rivelando i contorni aguzzi e famelici di un sistema corrotto e marcescente.

È nel sangue che Di Donato (nella foto tratta dal sito ufficiale dell’autore) diventa uomo, ed è da quello stesso sangue che nasce il piccolo Paul, suo alter-ego nel romanzo. Primo di otto figli, è Paul che deve provvedere alla famiglia e bere dall’amaro calice che li ha condannati tutti allo strazio e alla fame. Sprofondato dentro a dei vestiti troppo grandi per un bambino di dodici anni, con la cazzuola del padre ben stretta nel pugno, è Paul che, consapevole del fatto che una cipolla divisa in nove parti non possa sfamare una famiglia, elemosina prima la carità e poi il lavoro.

Le porte che gli verranno chiuse in faccia sono quelle solenni e pasciute di una Chiesa già profondamente ipocrita, avvelenata dall’avidità e dalla perversione dei suoi funzionari – quasi una più bieca, perché irredimibile, caricatura dello Scrooge di Dickens – e quelle della previdenza sociale, insozzata dai propri spudorati e viscidi maneggi, capace di ogni bassezza pur di evitarsi il giusto accollo dei risarcimenti alle famiglie delle vittime sul lavoro.

Sacrificare tutto, anche l’anima

È dalla polvere e dal dolore che Paul impara la vita e partecipa di un cameratismo impoverito e sempre minacciato dall’ombra della miseria. Gli uomini che ogni giorno, insieme a lui, rischiano la pelle sospesi sulle instabili impalcature dei grattacieli che costruiscono, ma in cui non avranno mai i mezzi per abitare, svaporano nell’inconsistenza esistenziale: ognuno deve badare al suo, ne va della vita. Non c’è spazio per la misericordia, l’abbruttimento è inevitabile. Anche Nasone (anziano capomastro amico di Geremio) che, sopraffatto da un guizzo di umanità, trova lavoro a Paul, assumendosi i rischi della sua formazione, pagherà un caro tributo di sangue a quel dio di marmo che, dall’alto delle sue faccende, tutto rifugge.

Ed è solo dopo aver lanciato il suo ultimo, disperato grido dalla cima di quelle preghiere fatte di metallo e mattoni, che il Cristo di Di Donato scende dai ponteggi e, tra le pareti ammuffite e scrostate di un tugurio per immigrati, si fa muratore, offrendo il suo sangue e il suo corpo impastati insieme a malta e lacrime, lasciando che gli venga espropriata anche l’anima, sacrificando tutto pur di mettere un pezzo di pane dentro ai piatti dei suoi fratelli.

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