Alle radici della fede, il Giuseppe di Dobraczynski

Leggendo “L’ombra del padre – Il romanzo di Giuseppe” di Jan Dobraczynski ci si ritrova seduti accanto a lui, al padre terreno di Gesù – uomo mite, dubbioso, sostenuto dalla speranza – mentre nei suoi pensieri si agita il turbamento che l’amore produce sempre, altrimenti non sarebbe amore. L’amore di un padre nel cuore, nei gesti, nelle intenzioni, ancor più e prima che nella carne

La lettura di questo libro non nasce da un moto spontaneo dello spirito né da intenti apologetici o da curiosità pseudo biografiche, ma risponde ad una chiamata…non dalle Alte Sfere naturalmente (magari potessi avere, almeno una tantum, qualche dritta dall’Alto e invece come tutti i comuni mortali mi tocca il quotidiano patire di sbattere la testa sempre sugli stessi spigoli) bensì del mio padre spirituale che, forse per vendicarsi a posteriori di qualche maestro un po’ sadico (l’intento affettuosamente ironico credo sia palese), ha assegnato a tanti suoi putativi figlioletti i compiti per la Quaresima. In una fredda serata invernale, insieme ad appetitosi cadeaux gastronomici (quest’ultimi in realtà dono graditissimo alla buongustaia adolescente che mi riempie il cuore chiamare figlia) scopro con mia somma felicità che avrei trascorso quaranta giorni in compagnia di…un’ombra! Avete capito bene, proprio un’ombra, che cela e custodisce gelosamente qualcosa di ordinariamente straordinario, dai contorni sfumati eppure maestosa, misteriosa eppure magnificamente delineata, ma pur sempre un’ombra, ed è proprio questo che mi ha catturato nella lettura di quest’opera scritta magistralmente, la necessità, quasi l’urgenza, di interpretazione di parole all’apparenza semplici, ma che in realtà sfidano il lettore a ritrovare i contorni di una figura tra le più amate ma nella sostanza maggiormente misconosciute della storia dell’umanità…il padre, Giuseppe, colui che si fidò di un sogno, di una voce, di un’ispirazione, e che capovolse silenziosamente le logiche del mondo.

Ciò che non sapevo era che il libro di Jan Dobraczynski, L’ombra del padre – il romanzo di Giuseppe (368 pagine, 21 euro) edito da Morcelliana, sarebbe stato un percorso sorprendente, catartico, ricchissimo di spunti di riflessione, oltre che di meditazione.

Colpo da maestro

Dobraczynski è uno di quegli scrittori che ci si chiede come sia possibile aver ignorato beatamente fino al momento in cui, con un gesto che per me è prefigurazione di vero e assoluto godimento ovvero l’apertura di un nuovo libro, non si iniziano ad inanellare pagine su pagine di quest’opera che ha un afflato che definire poetico è un banale eufemismo, rimanendo inchiodati alla sedia, fanciullescamente soddisfatti del tesoro che ci si ritrova ma le mani.

Il titolo, già solo il titolo, è di per sé un trait de genie, o se preferite un colpo da maestro, che costringe il lettore a serbare sino alla fine un dubbio, un interrogativo su chi sia il protagonista reale, principale del libro. Tutto si gioca su una riuscitissima sottile ambiguità testuale, che ad un lettore un po’ distratto potrebbe anche sfuggire o svelarsi solamente verso la fine (quando piano piano le intenzioni dell’autore sono venute a galla rivelando una ricchezza di significanti e di significati spaventosamente strabordante).

A chi appartiene quest’ombra? Mai risposta fu meno scontata…

Un padre o il Padre, chi è adombrato nel titolo, un uomo fra gli uomini che ha accolto il mistero nella sua vita facendone la sua missione o il libro intende prefigurare una paternità universale?

Ai posteri l’ardua sentenza, o meglio ai futuri lettori, che si ritroveranno sotto gli occhi tutto tranne che un’opera apologetica.

Umano troppo umano

Chi si aspetta di trovare nell’opera di Dobraczynski la raffigurazione, a tratti leziosa, dei personaggi che tiriamo fuori dalle scatole in soffitta ogni Natale per adornare il presepe, rimarrà assai deluso, io invece, per lo stesso motivo, ne sono stata rapita completamente. Il presepe è meraviglioso, attenzione, ma è un simbolo che rischia di diventare un feticcio pagano quando si dimentica che quelle statuette un tempo erano uomini in carne ed ossa, con paure, speranze, fragilità e coraggio. Ogni essere vivente, in ogni angolo di mondo, è impastato di sudore, lacrime e sorrisi. Giuseppe, che rende onore ai ruoli terribilmente e splendidamente impegnativi di sposo e padre, allo stesso tempo è uomo fra gli uomini, con tutti i desideri, le domande, i tormenti, le aspirazioni di ogni essere umano. Ho superato i confini spazio-temporali, ritrovandomi seduta accanto a lui per osservarlo avidamente mentre nei suoi pensieri sentivo agitare il turbamento che l’amore produce sempre, altrimenti non sarebbe amore. Il sentimento arde, consuma, ma riesce anche a giungere a vette di sconfinata elevazione, laddove non esistono confini fra il me e il noi. Questo avviene quando siamo finalmente capaci di smettere di farci domande, di cercare di far rientrare tutto in categorie dai contorni rigidi, quando chiudiamo gli occhi e afferriamo la mano di chi riesce a superare la paura e l’incertezza del domani (di tutti i domani possibili) e che si lancia nella vita insieme a noi come quando i piedi scottano sotto la sabbia bollente ma non c’importa nulla perché vediamo solo l’azzurro del cielo riflesso nel mare e non vediamo l’ora di tuffarci fra le sue onde, e non ci guardiamo intorno ma alziamo istintivamente lo sguardo in tacito ringraziamento, come i bambini quando succhiano la vita dalle loro madri e le ringraziano con il più dolce dei sorrisi.

Stupor mundi

L’espressione stupor mundi la ricolleghiamo immediatamente ad un personaggio storico di rara grandezza, ovvero Federico II, che certamente non si dorrà del prestito di cui mi avvalgo per definire la figura di Giuseppe che ha meravigliato, stupito, il mondo con la sua ferma mitezza, nutrita di dubbi e sostenuta di speranza, e che ha reso dolcissimo l’appellativo di padre.

“Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno”, questa frase disarmante nella sua autenticità, si trova incastonata come una gemma preziosa fra le pagine di un capolavoro assoluto, I fratelli Karamazov, di quel genio di Dostoevskij. Io mi permetto di aggiungere che la paternità non sempre è frutto del codice genetico, e padri e madri lo si può essere (e sventuratamente anche non-essere) attraverso infinite sfumature incarnate in gesti e parole, in cui a fare la differenza è ciò che ogni giorno scegliamo di essere per gli altri.

L’eredità del cuore

Dobraczynski riesce a tratteggiare, attraverso una scrittura che sconfina nella scenografia, ritratti liricamenti struggenti, che ritroviamo nei volti anonimi dei viaggiatori delle carovane, che si spostano da un luogo all’altro per i motivi più disparati, e che per un tratto di strada e di vita diventano tra di loro fratelli, amici, soccorrendo i bisogni dell’altro senza che da ciò si aspettino nulla in cambio; negli occhi di una donna, Miriam, che vede da sempre in chi la circonda molto più di ciò che appare e che riesce a leggere nei cuori senza pregiudizio; nell’animo di un padre, che ha amato un figlio incondizionatamente, e che ha visto in quel fagottino stretto fra le sue braccia soprattutto una creatura da proteggere, da educare…da amare. In fondo cos’è un padre, chi è padre? L’etimologia di questa parola è meravigliosa, perché ha a che fare con la parola pane. Padre è colui che provvede ai bisogni, è il pane della famiglia, senza che questa sia necessariamente costituita da vincoli parentali in senso stretto. Siamo famiglia con coloro che amiamo e che ci amano, è questa è l’eredità più importante che lasciano i tanti padri che ogni giorno scelgono di esserlo, nel cuore, nei gesti, nelle intenzioni, ancor più e ancor prima che nella carne.

Lasciamoci meravigliare

La filosofia, che altro non è se non il sacro fuoco dell’amore per la conoscenza, nasce da un atto di meraviglia, come da millenni ci ricorda il maestro di color che sanno, Aristotele, e io ho lasciato che lo stupore si impadronisse di me pagina dopo pagina, in un viaggio dell’anima che mi ha ricondotto alle radici più profonde della mia fede, al di là di ogni ragionevolezza del cristianesimo invocata spesso a sproposito, perché in un’ultima analisi credere, come sottolinea un inquieto Kierkegaard sempre in bilico fra tormento ed estasi, è sempre un salto nel vuoto, ma soprattutto è una scelta molto spesso dolorosa e sofferta, oltre che un dono.

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