La scrittura eucaristica di Mencarelli e la ricerca di Dio

Con i romanzi della sua trilogia autobiografica Daniele Mencarelli si mette a nudo, come un novello San Francesco, di fronte al giudizio di chi legge, e fa luce su un’umanità vera che ha impressi nella carne i chiodi amari della sofferenza, del dolore senza consolazione e della peggiore delle disgrazie, la solitudine. Cerca Dio fra i dimenticati e afferra l’essenza dell’Amore cristiano, scegliendo di soffrire non solo per ma con l’umanità

“Ogni viaggio deve prevedere un ritorno, altrimenti non è viaggio, è randagismo”. In un percorso che procede a ritroso, dove  Α καὶ Ω finiscono, non solo idealmente, per coincidere, Daniele Mencarelli (il cui minor merito è aver vinto il premio Strega Giovani 2020 con Tutto chiede salvezza) è il nostro Omero, che insieme al suo alter ego Daniele, conduce l’Ulisse che alberga nello spirito del lettore verso un’Itaca a cui si approda solo dopo aver ripulito l’anima da ogni pesantezza. Si arriva leggeri ma pieni, ricolmi di splendore, alla fine di questa sorprendente e mai (assolutamente mai) banale Trilogia del Ritorno.

“Nessuno di noi vuole stare in acque calme per tutta la vita”… quanto aveva ragione Jane Austen!!! Mencarelli non è né uomo né scrittore da compromessi, lo scorrere placido delle acque di un laghetto bucolico non fanno per lui, che invece scava dentro sé stesso fino a scarnificarsi il corpo e il cuore restituendoci un capolavoro di poetica Bellezza che prende vita in tre romanzi visceralmente autobiografici, in cui Verità e Realtà si intrecciano come i rami di un cesto di vimini fra le mani sapienti di un artigiano che ha deciso di svelarci, a poco a poco, i segreti del suo antichissimo mestiere. I libri di Daniele Mencarelli, tutti editi da Mondadori, ovvero La casa degli sguardi (220 pagine, 12 euro), Tutto chiede salvezza (189 pagine, 19 euro) e Sempre tornare (322 pagine, 19 euro) ci restituiscono l’animo dello scrittore, come se ascoltassimo i racconti di un amico, quello un po’ teatrale ma autentico, quell’amico che riesce sempre ad emozionarci, a coinvolgerci, come se anche noi avessimo vissuto le sue stesse esperienze, come se le Superga bagnate e lise di Daniele fossero le nostre.

La guerra di Troia di ognuno

Non fa sconti a sé stesso Mencarelli, non cerca giustificazioni né attenuanti, si mette a nudo come un novello San Francesco di fronte al giudizio di chi legge, e la sua grandezza consiste nell’essere fanciullescamente inconsapevole delle alte vette toccate dalla sua scrittura, che costringe a non poter soprassedere neppure su una sillaba. Il contenuto che si invera magistralmente nella forma, questo avviene fra le righe sanguinanti di questa Trilogia, in cui alcune frasi diventeranno inevitabilmente diamanti incastonati per sempre fra le pieghe dei ricordi commossi di chi leggendo ritrova il proprio destino, fra i mille destini che si incrociano in quelle pagine che grondano di compassione per le umane fragilità.

L’autore sembra scrivere per sé stesso, e da molti punti di vista così in effetti è, ma al contempo ci regala una visione lucidissima ancorchè estremamente sofferta della guerra di Troia che ogni essere umano deve combattere, e dove Elena (Emma di Sempre Tornare) è un pretesto per cercare di arrivare al nocciolo dei propri nodi interiori. Ogni essere umano desidera ardentemente comprendere l’origine della sofferenza, e si arrovella nel tentativo di cercare di venir fuori dal proprio personale labirinto in cui il filo di Arianna non può essere altro che la Speranza, quella che in Tutto chiede salvezza sostiene Daniele, che non lo fa “impazzire in un corpo divenuto prigione”, che lo piega ma non lo spezza, a differenza dell’umanità straziata con cui condivide un tratto di vita breve, Nei giardini che nessuno sa, ma che diventerà uno snodo fondamentale per la sua risalita dagli inferi.

Come la cerva anela ai corsi d’acqua…

Lo sguardo di Mencarelli non è mai giudicante, semmai compassionevole, ma si accende di rabbia (e il nostro insieme al suo) davanti a chi non conosce la pietà. In lui, di fronte alla meschinità, alla grettezza, alla violenza, arde l’ira dei giusti, di coloro che non riescono a sopportare di veder soffrire un altro essere, soprattutto se fragile e indifeso.

La scrittura di Daniele Mencarelli è eucaristica nel senso più alto, perché consegna a noi che leggiamo non semplici ritratti umani cristallizzati in una visuale asettica nonché sterilmente politicamente corretta, ma un’umanità vera che ha impressi nella carne i chiodi amari della sofferenza, del dolore senza consolazione e della peggiore delle disgrazie, la solitudine. Daniele è il nostro Virgilio, che ci conduce a guardare lì dove non avremmo mai voluto, ci obbliga a fare i conti con la nostra malinconia per ciò che poteva essere, e soprattutto ci restituisce il senso profondo delle cose.

“Reinventarsi una libertà senza farla passare per la porta della dipendenza” è il faro che illumina La casa degli sguardi, che rappresenta il primo passo verso la riappropriazione di un’identità oltre lo scoglio del dolore, e in cui la ricerca di Dio si incunea fra le pagine come desiderio di una Persona che si chini sulle deboli spalle del mondo per aiutare quest’umanità trafitta dalla spada della tristezza a continuare a volgere lo sguardo verso Tutta la bellezza che rimane ancora (e in questa frase di Anna Frank c’è tutta la forza della Vita che vuole vivere, proprio quando la morte vorrebbe celebrare la sua vittoria).

La copertina di Linus

L’elemento senz’altro più affascinante presente nei romanzi di Mencarelli è il suo continuo porsi domande esistenziali senza tutte quelle sovrastrutture pseudo-filosofiche che spesso rendono molti libri pesanti, noiosi come un pomeriggio vuoto di sorrisi. L’autore va dritto al cuore dei problemi, alla loro essenza e non c’è spazio per artifici letterari, e il lettore in questa ricerca di senso scevra da ogni orpello (come quando una donna riscopre la propria bellezza nella semplicità dei propri tratti, senza l’ausilio di maschere di finta autostima) non si sente più solo nei propri dubbi, nelle proprie inquietudini, nel rincorrersi senza sosta di mille perché destinati a infrangersi in un muro di silenzio, nel suo paradossale desiderio di solitudine che nasce e si nutre dalla mala pianta della paura dell’abbandono. Più l’uomo anela all’Amore più si aliena dagli altri, perché si sente protetto dalla copertina di Linus del proprio dolore, che arriva a costituire spesso l’unica certezza di un’umanità inconsolabile perché concentrata unicamente sull’ombelico delle proprie insoddisfazioni, senza riuscire a vedere oltre la cortina di fumo della propria immagine riflessa in uno specchio.

Le rose che non colsi

In questa frase di una poesia crepuscolare di Guido Gozzano è racchiusa la meravigliosa e struggente tensione d’amore del desiderio incompiuto, descritto da Mencarelli in una pagina di rara sensibilità di Sempre Tornare, dove dipinge con delicatezza la passione bruciante e allo stesso tempo il più assoluto rispetto verso il corpo femminile, che è sognato, desiderato, ma mai arraffato, carpito in nessun modo dal protagonista, che in una frase semplice e diretta racchiude il senso pieno della virilità pienamente realizzata …”Che gusto ci sarebbe?”.

L’autore riscatta la viltà di Adamo e non rifugge mai dalla piena adesione alle sue responsabilità, ed è per questo, ma ciò si può evincere solo attraversando tutto l’orizzonte tracciato nei romanzi di Mencarelli, che alla fine Daniele ritroverà il suo Paradiso perduto, dove però nulla è scontato. La sua Epifania sarà l’Eden dei buoni, di coloro che non gettano sugli altri il peso della loro inadeguatezza, ma che anzi aiutano gli ultimi, i dimenticati, gli oppressi da una vita che chiede più di ciò che restituisce, a rialzarsi e lo fanno mettendosi in ginocchio all’altezza di chi non riesce a staccare lo sguardo dallo spettacolo avvilente della propria sconfitta.

La scommessa

Un giorno Blaise Pascal ebbe un incidente, da cui solo miracolosamente uscì illeso, e invece di rigettarsi nella vita di bagordi a cui era avvezzo, comprese in un attimo che nella vita occorre rischiare, scommettersi, chiedere quella Salvezza che il Dio dei filosofi non può concedere, perché non può placare l’inestinguibile sete di domande racchiuse in quella debole canna che è l’uomo.

Mencarelli ricerca e attende Dio con ogni fibra del suo essere e lo cerca nei posti dove Cristo ha scelto di abitare, fra i dimenticati, fra coloro che neanche saprebbero darlo un nome alla felicità. Daniele ha afferrato l’essenza dell’Amore cristiano molto oltre tanti teologi. L’Amore che redime, che salva, è un Uomo che sceglie di soffrire non solo per ma con l’umanità, è carne e sangue che nutre le ferite di chi è stato oltraggiato, umiliato, lasciato in un angolo a patire l’assenza di Carità, è il riscatto finale del Bene.

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