Strumento utilissimo, la degna celebrazione e la migliore introduzione a chi si voglia avvicinare al “fantastico” mondo di Giorgio Manganelli, tra i protagonisti più affascinanti, eclettici e inclassificabili del Novecento. È una robusta raccolta di saggi che Andrea Cortellessa gli ha dedicato nel corso di decenni, scandagliando ogni aspetto della sua produzione, e il rapporto oltre che con la letteratura, anche con la musica e l’arte. Il suo titolo è “Filologia fantastica. Ipotizzare, Manganelli”
Nell’anno della “scommemorazione”, il termine è mutuato dal titolo della raccolta di saggi usciti sulla rivista Autografo fondata da Maria Corti in occasione del ventennale della scomparsa di Giorgio Manganelli, avvenuta nel 1990, del quale in questo 2022 che volge al termine è caduto invece il centenario della nascita (15 novembre), è uscito proprio nel mese del fatidico anniversario un volume edito da Argolibri dal titolo Filologia fantastica, Ipotizzare, Manganelli (383 pagine, 22 euro) sullo “scommemorato”, termine quanto mai congeniale a uno come Manganelli. L’autore è Andrea Cortellessa il quale, se c’è bisogno di ricordarlo, è uno dei maggiori critici letterari del nostro Novecento oltre che attento osservatore della letteratura contemporanea.
Il volume contiene saggi di varia provenienza sullo scrittore raccolti nel corso degli anni. Si tratta di note critiche, approfondimenti o estratti di precedenti testi di Cortellessa, prefazioni o postfazioni a testi manganelliani, atti di convegni a lui dedicati e anche di alcuni testi inediti, fedelmente a quel concetto di “letteratura sulla letteratura” e riscrittura tipico dell’autore di Centuria. Una preziosa guida alla conoscenza di uno degli autori più inclassificabili e affascinanti della letteratura italiana del Novecento. Il merito di un’impresa editoriale di questo genere è notevole, anche per lo sforzo testimoniato dalla ricchissima ed accurata citazione delle fonti presente nel libro di Cortellessa che dà conto del grande lavoro di catalogazione sull’opera manganelliana svoltosi nel corso degli anni, spesso attingendo dal Fondo manoscritti di Pavia (città degli studi giovanili), gran semenzaio del Manganelli a venire.
Un universo a sé (e la nascita della letteratura)
Su Giorgio Manganelli naturalmente è stato scritto tantissimo e il volume di Cortellessa, che raccoglie il frutto (sebbene parziale) del suo studio decennale copre l’ampiezza di un quarto di secolo, testimoniando l’assidua frequentazione del critico di un grande autore, a sua volta critico, filologo o mistagogo, giocoliere delle patrie lettere o in qualsiasi modo lo si voglia definire, men che scrittore, Manganelli non l’avrebbe accettato. Un volume che al di là della mera occasione celebrativa può essere considerato un validissimo strumento per chi voglia approfondire o anche solo avvicinarsi alla conoscenza di un autore imprescindibile del nostro Novecento a dispetto del taglio altamente specialistico del volume dal quale trasuda letteratura “pura” da ogni rigo, volume che con la sua mole bibliografica potrebbe spaventare i più, anche in considerazione della non immediata fruibilità dell’autore trattato e della letteratura da lui prodotta, un universo a sé stante e autosufficiente, dove il mondo esterno è quasi superfluo se non come orpello trasfigurato tramite il filtro del fantastico, che è della letteratura il massimo reagente.
La filologia fantastica (per richiamare il titolo del libro di Cortellessa) è per Manganelli la più alta espressione di quella letteratura pura, totale, come in Nabokov, sul quale infatti il Manga, come ama firmarsi aborrendo il titolo di professore (il quale del resto è stato) ritorna a più riprese; da ricordare un suo illuminante saggio sull’autore di Lolita contenuto in La letteratura come menzogna, l’autore russo émigré con il quale condivideva la fanatica convinzione che la vera letteratura sia perfettamente inutile «alle difficoltà della vita» e che il «sapere» da essa donato è «lusso puro e semplice». Il virgolettato è tratto da Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov, nel quale l’autore di Lolita afferma che: «La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzo, gridando al lupo, uscì di corsa dalla valle di Neanderthal con un gran lupo grigio alle calcagna: è nata il giorno in cui un ragazzo arrivò gridando al lupo al lupo, e non c’erano lupi dietro di lui».
Ironia, anarchia, teppismo
Una vita fatta di libri quella di Manganelli, a partire dalle sue primissime prove di scrittura sul giornalino letterario (La Giostra) negli anni in cui frequentava il Liceo Classico Cesare Beccaria di Milano, fino ai suoi esordi sulle varie riviste letterarie allora nascenti negli anni Quaranta, proseguita dopo la sua formazione da anglista con le sue molteplici collaborazioni sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani con la sua sterminata attività di recensore e chiosatore in ossequio al suo “florilegio”, termine quanto mai manganelliano per la metodologia degli scritti critici del Nostro, recensioni delle opere di autori più o meno noti che trovano spazio in varie raccolte come sempre splendidamente curate da Adelphi, nel cui catalogo Manganelli trova la sua naturale collocazione, nelle quali la critica diventa un vero genere letterario, come già avvenuto ad autori coevi e per molti versi affini a Manganelli quali Tommaso Landolfi (il suo Gogol a Roma su tutti in tal senso), una scrittura «capace di un gesto critico, esatto, lucido, veloce e non precipitoso, felicemente prensile». L’ironia e l’anarchia del critico e saggista che spesso sfocia in un vero e proprio “teppismo”, termine utilizzato da Pasolini in una di quelle apparentemente vacue schermaglie intellettuali che si potevano ascoltare o leggere in anni che sembrano irrimediabilmente lontani e che erano testimonianza di un dibattito e una vivacità culturale forse irrimediabilmente perduta insieme agli eccelsi interpreti che vi prendevano parte. Dirà in uno dei testi contenuti in Concupiscenza libraria: «In verità il filologo ha non poche qualità dell’omicida ideale. Uomo di passioni occulte, di meditazioni clandestine e iniziatiche, di vocazione scontrosa, il filologo aggredisce i suoi testi con quell’odio mescolato ad amore con cui il criminale lavora la sua vittima».
Cos’è uno scrittore? si domanda Manganelli: «un tale che imbroglia facendo ricorso a macchine mentali che nessuno può giudicare», una letteratura non di cose di vita. E cos’è la critica? Letteratura sulla letteratura avrebbe risposto Manganelli, tanto da fargli dire a proposito della biografia di Pietro Citati su Kafka che Kafka non esiste, a significare quanto una prosa densa, pensante ancorché attenta ai dettagli è atta a ricreare un mondo intorno a vita ed eventi di un autore e delle sue opere.
Fantasmi e menzogne
Da leggere l’epitaffio sulla letteratura che pone in apertura di Concupiscenza libraria, raccolta di parte del suo poderoso corpus critico, nel quale si occupa tra l’altro di autori più o meno noti, con illuminanti o corrosive sentenze, come su L’Iguana di Anna Maria Ortese ad esempio, parlando di un libro che «sembra non avere un autore, ma solo essere un perfetto “apporto”, come dicono gli spiritisti» o con l’ironia e il sarcasmo su Carlo Cassola sul quale: «Stretto nella teca dei suoi calzoni accanitamente abbottonati, il ritroso Cassola ha della letteratura un’idea che fa apparire “La famiglia cristiana” l’organo dell’Ente per lo Scambio delle Mogli». In Manganelli sembra quasi avverarsi la profezia di Roland Barthes sulla “morte dell’autore”. La letteratura è del resto per lui una questione di fantasmi e la più adorabile delle menzogne. Il prezioso studio di Cortellessa rende tali fantasmi più reali del cosiddetto reale, e al di là dei loro inganni e travestimenti ce li fa amare, grazie alla rotondità, alla corposità e densità della sulfurea prosa manganelliana, stili e forme che (ahinoi) non si odono quasi più, testimonianza di un tempo in cui libertà e creatività poggiavano ancora su un humus fertile alla ricezione di messaggi che seppur discordanti avevano un ancoraggio alla realtà, parlandone pur trasfigurandola, senza dimenticare l’ironia del linguaggio di Manganelli, il cui eclettismo è il tratto più evidente della sua parabola letteraria. Della corrosiva ironia e sarcasmo darà ampia prova quando chiamato a intervenire da chiosatore su fatti di cronaca e attualità sulle pagine prima de “L’Espresso”, poi di “Il Mondo” poi su “La Stampa”, poi sul “Corriere della Sera”, infine su “Il Messaggero”, darà vita a quegli improvvisi poi raccolti in una delle sue opere più lette: Improvvisi per macchina da scrivere, quelle epifanie istantanee tipiche di gran parte delle cose uscite dalla penna (anzi dalla macchina da scrivere) di Manganelli, commissionategli dai grandi quotidiani, scritture di occasione, veri e propri guizzi di scrittura assimilabili musicalmente ai celebri improvvisi chopiniani e schubertiani. Sulla stessa scia da citare i mirabili bozzetti d’arte commissionatigli dall’editore Franco Maria Ricci riuniti in Salons, i quali rinverdiscono una nobile tradizione che vanta nomi quali quelli di Diderot e Baudelaire, tutte forme e modalità espressive già utilizzate nel loro splendore da uno scrittore come Tommaso Landolfi, spirito come pochi affine al Nostro, al limite del capriccio o dell’esercizio di stile e che sembrano testimoniare una segreta fuga dall’eterno di un’ipotetica opera magnum, in un’epoca nella quale la letteratura pretendeva ben altro, una strada della minorità che va letta sia come preservazione dell’indipendenza della propria opera che come fuga dal confronto inquietante con la propria soggettività. Negli Improvvisi Manganelli può parlare invariabilmente e con la medesima illuminante arguzia e gusto per la giustapposizione della follia dei concorsi pubblici, della regolamentazione della caccia al tartufo, degli scioperi dei camionisti, della cronica mancanza di bagni pubblici a Roma, della misterica fascinazione (quasi metafisica) per uno strumento come il telefono, di Romolo (il fondatore di Roma) che scrive al direttore di un quotidiano, in questo caso sulla falsariga delle Interviste impossibili, altro suo apice di letteratura mimetica e dialogo con fantasmi. Da Improvvisi per macchina da scrivere è tratto un brano che ci dice molto su quella che è l’idea di Giorgio Manganelli sulla scrittura, sulla letteratura, sulla società in genere e sul suo percorso artistico ed esistenziale: tornando con la memoria al tempo delle scuole medie ricorda la professoressa di matematica che gli chiede: «non hai capito niente, vero?» e lui conferma di non aver capito niente, chiosando ironicamente nell’improvviso che il fatto che avesse potuto continuare gli studi fosse la testimonianza del «lassismo che è la sciagura di questo paese», mentre sulla stessa falsariga celebre è la risposta che si pone in Il rumore sottile della prosa, la raccolta di testi scritti tra il 1967 e il 1990 nei quali divaga liberamente attingendo a riferimenti su classici e avanguardie interrogandosi sui motivi della scrittura. La risposta che qui Manganelli dà interrogando sé stesso sul motivo del suo scrivere è: «Perché non ho mai imparato ad allacciarmi le scarpe», quasi un manifesto.
L’abisso dell’elenco telefonico
L’eclettismo di Manganelli, il quale spazia tra le più svariate forme espressive che concede la scrittura, un autore che non ha scritto romanzi, ma lemmi, divagazioni, letterarie e non, reportages, improvvisi, interviste impossibili, e una quantità innumerevole di recensioni, forse la faccia più interessante del Manga, la raccolta quasi completa si trova nel volume edito nel 2018 dal titolo Non sparate sul recensore curato dalla figlia Lietta, è funzionale alla sua stessa poetica, lui che rifiutava decisamente la qualifica di scrittore preferendo che si parlasse del suo lavoro come quello di pubblicista, di chi cioè non avendo niente da dire «chiacchieri a stampa, pubblichi». È in Il sottile rumore della prosa che si spende in speculazioni sulla differenza tra l’essere scrittore o narratore, o sulla sorte del romanzo o del racconto; il suo Cosa non è un racconto in tal senso è illuminante: «Quando si parla o si chiacchiera di “morte del romanzo”, non si parla certo di morte della narrazione; piuttosto credo si voglia dire che il romanzo è diventato un genere estremamente scolastico, una macchina imparaticcia, che irretisce e non libera le dinamiche fantastiche implicite nella vocazione del narrare». Sempre a esempio delle inesauribili possibilità del narrare porterà i vecchi elenchi telefonici: «La guida si offre come uno sterminato catalogo dei possibili, disposto in un ordine rigoroso che in realtà descrive il disordine del caos primordiale. La guida del telefono è un abisso insondabile, ma illuminato da una volontà di completezza e totalità che non ha l’esempio».
Da Calvino a Leopardi
La scrittura per frammenti, i lacerti di prosa dei suoi scritti, la sua scrittura inconclusa ed eteroclita è il marchio di fabbrica di Giorgio Manganelli. Uno dei saggi del libro di Cortellessa dal titolo Dentro o fuori tratta il rapporto tra Manganelli e Calvino, con particolare attinenza al moto centripeto della letteratura in Manganelli e centrifuga in Calvino, e gli inevitabili raffronti tra le Centurie manganelliane, “i cento romanzi fiume”, veri e propri abbozzi di romanzi, l’unica opera del Nostro che possa dirsi di “successo” e la quasi contemporanea uscita di Se una notte d’inverno un viaggiatore calviniana sul quale il suo autore scrivendo a Manganelli dirà ironicamente di sentirsi preoccupato visto che il suo libro conterrà solo 10 romanzi e costerà la stessa cifra. Con Italo Calvino in quegli anni si instaurerà un vero e proprio ping-pong letterario. La forma breve e divagante degli scritti trattatistici di Manganelli, le sue riscritture, ma anche le opere più narrative benché spurie di La Notte, Agli dèi ulteriori, Dall’Inferno, Ti ucciderò mia capitale, La palude definitiva, che più che racconti è forse corretto definire astrazioni di racconti con la loro prosa pensante, oscura, ermetica è partecipe dell’ambiguità del linguaggio e del lato notturno della scrittura, della sua incompletezza, dell’ombra della parola che nel caso di Manganelli riverbera una rara intensità, figlia delle lacerazioni e delle cicatrici del reale, parola che crea l’ombra e che ne è la sua inseparabile compagna. Quasi naturale che strutturalmente tutta l’opera del Manga risenta delle medesime lacerazioni che trovano plasticamente forma nelle sue varie modalità espressive. Vale in tal senso il giudizio di Gianni Celati che definì Manganelli «il più grande continuatore dell’operettismo leopardiano». Un comun sentire quello tra Manganelli e il genio recanatese che Manganelli stesso non nasconde parlando proprio delle Operette morali nelle quali trova la massima espressione l’intensità dell’esperienza linguistica, un mirabile «incrocio di delirio e di sintassi», «gioia verbale», «una delizia mentale, quale può dare, pensiamo, solo la musica», scevra da qualsiasi considerazione sui contenuti, nel caso di Leopardi, il carcere corporeo e la disperazione (pur appartenuta al genio recanatese), facendosi domandare: «Perché mai questo apologeta delle tenebre è condannato a fare un inesauribile dono di luce?». Una domanda retorica che trova risposta in quel «regno oscuro della gloria e della indifferenza che è la letteratura» ove quello che conta è che tale disperazione sia “figura”. Così Manganelli su Leopardi, come già appena ventiquattrenne si esprimeva su Henry James: «Questa prosa ci appare nel suo vero aspetto, come un sottile tessuto di vibrazioni e sensazioni, di parziali presenze e non totali assenze, una composizione di estrema intelligenza, retta da segrete regole matematiche, e la cui bellezza si fonda su labili ed intoccabili presenze» o come in La letteratura come menzogna dove sulla lingua di Gabriele D’Annunzio parlerà di “splendide larve”, una perfetta macchina verbale. La filologia fantastica di Manganelli postula persino la non esistenza dell’autore, da cui la ricorrenza, come in tutta l’opera manganelliana, della rivisitazione in chiave parodica e fantastica delle opere dei suoi predecessori, classici o meno dei quali si è occupato, dell’eteroclito, della pseudonimia, delle contaminazioni, emblematico in tal senso il suo Pinocchio: un libro parallelo del 1977, pseudo commento al classico di Collodi tramite il quale veicola la più compiuta e avvolgente esposizione delle sue idee in merito ai sistemi letterari, un’idea della letteratura la cui essenza è costituita dalla costante presenza di una tradizione, una biblioteca reale e una immaginaria nella quale i luoghi classici vengono reinventati nella finzione, genio ed erudizione quindi, ancora Leopardi, appunto. Da sottolineare anche la connessione tra il finale enigmatico del Frammento apocrifo delle Operette leopardiane, con riferimenti a Eraclito, patrocinatore dei contrari nonché della guerra e del fuoco quale simbolo metamorfico e apocalittico e l’incendio nel finale di La palude definitiva manganelliana.
Lo scrittore come castoro operoso
Il gioco di maschere, la bizzarria della materia letteraria lo porta persino a rivendicare l’importanza del refuso, miglior viatico a quella serendipity della lettura che è parte integrante della poetica del fantastico manganelliano: «Le parole non conoscono errore, se una parola “sbaglia” l’universo si adegua immediatamente». L’oscurità, della letteratura, per come la intende Manganelli, si rifà al concetto di archeologico e allo scrittore come «castoro operoso», colui che esplora, annusa, fiuta gli aromi delle profondità, come anche altri animali quali la talpa, il rettile, il formicaleone, alla ricerca di scaglie verbali e immagini spesso mutuate dagli altrui testi, rimandando a un concetto di imago letteraria che a sua volta si confà a quella del labirinto, del buio, perché «nel buio non si dà divario tra vero e falso» da La letteratura come menzogna, ove in L’ordigno letterario, il saggio su Stevenson qui contenuto, affermerà coerentemente: «Tutto è falso, perché tutto è stile, è forma». L’estetica del negativo, come negativo è il luogo per eccellenza del lavoro critico, luogo della «nerità della verbalità», non prescinde da un‘idea cerimoniale della letteratura e della retorica (materia prima del mondo delle lettere), dell’invenzione, del capriccio e della menzogna. Questi sono i temi che ricorrono in uno dei suoi testi più abissali a livello teoretico, Il Discorso dell’ombra e dello stemma ove più che altrove trova espressione quella fede nella letteratura e nella sua inutilità, per «il non sapersi allacciare le scarpe», una fede senza la quale non si può vivere, proprio perché essa è inutile, non nota e quindi non misurabile, mentre una cosa nota è necessaria, essendo necessaria infatti è nota, uno spazio di libertà quindi e di bellezza: «Così le parole nella loro immobile fuga, si lasciano alle spalle la bellezza, affinché chi ami la bellezza, e insista ad esistere, ed abbia delle idee, perplesso si fermi, e la raccolga dal suolo, preda di una ingannevole letizia» (Discorso dell’ombra e dello stemma). Giorgio Agamben definirà Manganelli uno scrittore araldico, con quel tanto di enigmatico che si nasconde in ogni emblema, ma anche aereo, etereo e allo stesso modo sfuggente, che parla oltre che dell’ombra e delle profondità ctonie anche della mutevolezza e dell’immensità degli spazi celesti con le sue distanze. Un bellissimo saggio tra tutti i bei saggi contenuti nel volume di Cortellessa si connette a un approfondito ragionamento sulla distanza “telescopica” dell’amore con vari riferimenti leopardiani e alla pittura di Turner.
Di rilevanza anche, e Cortellessa non poteva mancare di occuparsene, l’attenzione dedicata da Manganelli all’ascolto della musica, esplicitamente dibattuta nel suo Rumore o voci e in Una profonda invidia per la musica, quest’ultimo il suo volume a due voci con Paolo Terni; la musica che già Walter Benjamin considerava la forma più alta di manifestazione artistica, legata all’ascolto del silenzio del senso, l’essere nell’ascolto che significa entrare in una tensione e sorveglianza vigile del rapporto con il sé, al di là del significato e del senso stesso, concetti presenti nella poetica manganelliana costantemente contrassegnata dal filtro psicanalitico che tanta importanza avrà sia per il Manganelli gran cerimoniere e mistagogo delle lettere che per il Manganelli uomo. La sua “presa di parola” del 1964, a 42 anni, per inciso il suo tardo esordio nel mondo letterario con Hilarotragoedia, conturbante opera “discenditiva”, una sorta di cosmologia capovolta con la perversa e occulta gioia del disfacimento dell’universo che del libro è il tema, è frutto dello “scioglimento” dovuto soprattutto alla frequentazione dello psicoanalista-sciamano Ernest Bernhard che gli insegnò a “mentire”, permettendo la realizzazione della sua aspirazione, come testimonia lo stralcio di una lettera inviata da Manganelli al filosofo Luciano Anceschi: «Scrivere, scrivere, in quella bella prosa che io mi sogno, tutta ricchissime secondarie, barocca ma freddina, neoclassica ma drammatica, solenne ma oscena».
Esorcizzare l’angoscia esistenziale
Concetti psicanalitici come Immagine, Commento e Individuazione mutuati da Bernhard del quale Manganelli è stato paziente (o forse sarebbe più corretto dire studioso) e dal quale ha appreso l’importanza dell’astrazione artistica quale «autodifesa intellettuale dell’individuo», un’astrazione che permette di esorcizzare (ne parla molto bene nel volume già citato scritto a due mani con Paolo Terni) l’angoscia esistenziale in forme impersonali, perfette nella loro cerimoniale pulitezza, estraniate dal contesto del cosiddetto “reale”, indifferenti ai loro contenuti emotivi, un uso non sentimentale del sentimentale che Manganelli ha compreso meglio di chiunque in sede critica e che si può esprimere nel verso di una poesia del 1961, una tipologia di produzione quasi privata di Manganelli prima che diventasse Manganelli, per intendersi quello a partire da Hilarotragoedia: «Cuoci il tuo cibo sul fuoco del tuo cuore» (Usare sé stessi). In filigrana traspare la nevrosi dell’uomo, il pingue e un po’ abietto orso dedito unicamente all’eterna mascherata della letteratura della quale è stato un vorace divoratore; sembra di vederlo dietro la scrivania circondato da cataste di libri, cartelle e fogli che sembrano quasi stritolarlo, con quello sguardo tra il torvo e il beffardo dietro gli spessi occhiali, un mood distaccato e vagamente malinconico che evoca scenari leopardiani di pena corporea e di quello “studio matto e disperatissimo” della celebre lettera inviata a Giordani dal genio di Recanati, spirito, vale ricordarlo, per molti versi affine quello del Manga nazionale, romano di adozione ma di provenienza meneghina, sebbene “nascostamente” Manganelli sia emiliano di nascita. Milano è per Manganelli il luogo della rimozione, dell’infanzia, della giovinezza, della nevrosi, del difficile rapporto con la madre, nonché quello della tempestosa vicenda sentimentale con Alda Merini, mentre sul suo rapporto con Roma si possono leggere alcune delle più icastiche, corrosive e scintillanti pagine manganelliane, gli Improvvisi per macchina da scrivere ne sono pieni ma anche altri suoi corsivi sono contrassegnati dalla rappresentazione della “romanite”, una sorta di morbo che sembra affliggere chi si trovi coinvolto con la città eterna: «un caso raro e finora incurabile di troppopatia autistica megacefalica» (da un articolo comparso su Il Messaggero del 1989). Perché Manganelli è stato anche un inimitabile narratore di luoghi e un grande narratore di viaggio e di viaggi, interni ed esotici, viaggio inteso come un errare senza fissa direzione, di cui dà la più brillante e affabulatoria prova nel postumo Esperimento con l’India, in Viaggio in Africa e in Cina e altri orienti. Ma alla mano divagante, fantasmatica e affabulatoria del Manga non serve percorrere grandi distanze per trasfigurare con la potenza della sua estrosa fantasia allucinatoria e allo stesso tempo con la sua precisione descrittiva millimetrica, luoghi, città, monumenti e paesaggi. «Non voglio l’immagine esatta, ma l’immagine che partecipa dell’errore» scrive parlando di Firenze nell’ammaliante baedeker che è La favola pitagorica, la raccolta dei suoi reportages di viaggio italiani già apparsi su varie testate tra il 1971 e il 1989, il suo ritratto sull’Italia da paesaggista, da espatriato per scelta nella propria terra, un paesaggio umano e sociale trasfigurato dalla sua penna, tramite la quale ogni città accarezza un’immagine di sé, e questa immagine è uno spazio mentale, una realtà piuttosto irrealistica, tanto da domandarsi se esista o meno Ascoli Piceno, titolo di uno degli splendidi bozzetti di La favola pitagorica che si apre con un ritratto-manifesto tratto dall’occhio da viaggiatore di Manganelli su una città emiliana che ha ben poco di poetico (non se ne abbiano a male i suoi abitanti): «Nevischia, s’annebbia, Malvasia secca per la gotica asprezza di Piacenza, che non è Singapore» (Piacenza non è Singapore). Di narratori di viaggio all’interno del bel paese è piena la nostra letteratura: da Guido Piovene a Carlo Levi ad Anna Maria Ortese, senza dimenticare i Paesaggi italiani con zombi di Alberto Arbasino, il quale Manganelli in uno dei suoi improvvisi definirà «questo timido signore di moltitudini». Il rischio in cui può incorrere il viaggiatore è che «chi fa un viaggio rischia di arrivare» afferma il Manga in Laboriose inezie, concetto che la dice lunga sul suo concetto del viaggio che diventa una fessura nella fissità del tempo e dello spazio, qualcosa sempre in bilico tra astrazione ed empatia; sempre da La favola pitagorica memorabili sono i suoi scritti su Firenze, definita uno dei luoghi dell’altrove, un sovrapporsi di bellezze insostenibili, un luogo inabitabile, magmatico ma anche il mondo della rissa geometrica, di un luogo bidimensionale, due facce della stessa medaglia, al magma si sovrappone l’ordine nell’onnipotenza dei suoi monumenti (si sofferma in particolare sul Battistero), Firenze, «un modo di occupare uno spazio del mondo», formula già adottata dal Nostro per definire il teatro: occupazione verbale, gestuale e visiva di uno spazio privilegiato. Tra le sue passeggiate narrative vi sono anche escursioni nordiche come raccontate in L’isola pianeta e altri Settentrioni (Adelphi 2006) della cui postfazione il saggio dal titolo Mirabili deserti chiude il volume di Cortellessa. È in queste pagine che il viaggiare appare più come un atto simbolico, araldico che esistenziale e reale, immaginato e vagheggiato come dirà Manganelli a proposito delle Isole Faroer: «un luogo di cui mi ero innamorato per sentito dire, come si usava nel pittoresco e stralunato medioevo». Il viaggio come tutto quanto inerisce alla poetica manganelliana deve narrare di accadimenti che si tengono al di qua o si spingono molto al di là dell’umano, dove la lingua quindi sarà tenuta a lavorare di qua o di là dei propri significati, mai dentro la mera referenza oggettuale e “reale”, cosa quanto mai valida nei suoi scritti “nordici”, nei quali il Vallo di Adriano diventa simbolicamente una sorta di confine con il regno metafisico degli Iperborei. La trasfigurazione di quelle terre nei contenuti emotivi e linguistici tramite l’immaginifica penna del Manga riesce a trasmettere quell’ansia del viaggiatore che in pochi giorni aspira a ciò che Ulisse ha conseguito in dieci anni di navigazione: diventare Nessuno. In un saggio dal titolo I Viaggi, la morte, Carlo Emilio Gadda, con spirito manganelliano e con riferimento a Baudelaire e Rimbaud ha parlato di analogia fra la partenza e la morte.
Furia predatoria letteraria
La dovuta attenzione nello studio di Cortellessa è tributata al Manganelli commentatore d’arte, una tradizione che vanta illustri predecessori nella nostra tradizione letteraria e che sotto lo sguardo del Manga assume lo spessore di un genere. Le sue profonde, articolate e ricchissime meditazioni sull’arte, soprattutto figurativa, suoi scritti in merito sono presenti lungo tutta la sua produzione corsivistica, disegnano veri e propri archetipi; gli oggetti d’arte, «sacri fantasmi» da lui definiti «non sono né accanto né lontani dal mondo: sono altrove», fedelmente alla sua concezione che non esista letteratura, arte, poesia che non abbia colloquio con i fantasmi, come dirà Pietro Citati un mondo solo «in apparenza simile al nostro, laddove in realtà vi manca l’uomo», commentando il manganelliano Salons che raduna articoli apparsi nel 1986 sulla rivista «FMR», un lavoro “commissionatogli” dall’editore Franco Maria Ricci il quale sottopone a Manganelli immagini disparate: quadri, affreschi, tabacchiere, gioielli, da lui trasfigurate con lo stile avvolgente, onnipervasivo e immaginifico della sua prosa. La raccolta dei vari materiali letterari d’arte manganelliani è avvenuto come spesso accaduto per opera di Ebe Flamini, già azionista durante la Resistenza romana, futura compagna di vita di Manganelli e bibliografa di riferimento del Manganelli postumo, un’opera da collezionista d’arte la sua, un ampio catalogo tutto letterario dei suoi bozzetti, articoli per i quotidiani che rimane la più valida testimonianza su quei territori ove «il vero non alcun privilegio sul falso», il suo «andare e girovagare anarchico nelle opere ad adocchiare tele e disegni, e di sciocchezze, come viene viene». Anche nel caso di questo tipo di produzione vale ricordare un estratto dal suo Letteratura come menzogna, nel suo saggio dedicato a Samuel Beckett dal titolo Qualcosa da dire: «Beckett aveva “qualcosa da dire”: per uno scrittore, inizio rovinoso. Il problema è, sempre, di trasformare quel “qualcosa da dire” in struttura, in linguaggio; prendere la propria “verità” per i capelli e trascinarla in una regione in cui il vero non ha alcun privilegio sul falso; trattarla come la convenzione propria di un genere, o uno schema metrico, o un’arguzia allitterativa». Queste le coordinate dell’intera opera di Giorgio Manganelli tanto da farla apparire come un ipertesto gonfiato a dismisura, anarchico, barocco, di maniera, ove «il vero non ha alcun privilegio sul falso» e a chi potrà domandarsi circa “l’immoralità” della letteratura, perché fare letteratura quando al mondo c’è un bimbo che muore di fame? si domanda retoricamente in apertura del suo La letteratura come menzogna”, scritto conclusivo contenuto nel libro eponimo, la risposta che dà Manganelli è che letteratura è immorale, non è un gesto sociale, è cinica, non vi è sentimento che non la ecciti, la solleciti e la governi, non ha il suo sostrato negli eventi storici ma nel linguaggio che in essa si struttura, con le sue proposizioni “prive di senso”, le affermazioni non verificabili che con i loro disegni e schemi sfidano e provocano la nostra intelligenza e la nostra percezione del mondo «offrendoci un illusionistico, araldico pelame di belva, un ordigno, un dado, una reliquia, la distratta ironia di uno stemma». Questa la conclusione di quello che può essere considerato il manifesto manganelliano e che lo ha portato durante la sua parabola, in una sorta di furia predatoria letteraria e concupiscente verso libri, autori, oggetti d’arte, luoghi quand’anche reali dislocati fantasticamente nel tempo e nello spazio, a produrre una mole di scritti inclassificabili, lui uomo di enorme erudizione e uomo dalla “polimaterica esistenza” come scriverà del suo amico e altro spirito a lui affine Alberto Savinio. Il frutto sarà una pletora di critiche letterarie, bozzetti d’arte, reportages di viaggio, abbozzi di romanzi, astrazioni di racconti, meditazioni varie sul mestiere dello scrivere e molto altro di letterario e dintorni sul quale ha posato la sua penna. Tutti i suoi scritti sono il “suo” grande romanzo, pur non avendone mai scritti, in un modo che qualsiasi cosa egli abbia sfiorato, questa si è eternata come un araldo nel simbolo che le ha dato la parola, più o meno oscura e polisemica, vivida e oscura e cangiante allo stesso tempo, con il fascino imperituro di un’ombra e il suo stemma. Andrea Cortellessa con il suo approfondito studio durante il corso degli anni, con la sua assidua “frequentazione” del Manga e con il prezioso strumento di questo libro, il cui titolo non poteva essere più felice, ne ha fatta la degna celebrazione e la migliore introduzione a chi si voglia avvicinare al suo “fantastico” mondo.
È possibile ordinare questo e altri libri presso Dadabio, qui i contatti