Beatriz Bracher, il potere insidioso e la contestazione

“Antonio” della grande scrittrice Beatriz Bracher racconta attraverso i drammi della famiglia borghese dei Kremz, la storia del Brasile dagli anni 50 ai giorni nostri. Un figlio – che sta per diventare padre – sulle tracce del padre, raccontato da tre punti di vista diversi, che divergono profondamente nella ricostruzione dei fatti. Una nuova puntata firmata Lusoteca

Prima di tutto è venuta la curiosità per una casa editrice di nascita recente, Utopia, che ancora non conoscevo e di cui avevo sentito parlare con entusiasmo per la ricchezza del catalogo e per la cura estetica delle collane. Non posso lasciarmi scappare la traduzione del romanzo Antonio (192 pagine, 19 euro) della scrittrice Beatriz Bracher, un grande nome della letteratura brasiliana contemporanea, da parte della poetessa e docente di letteratura italiana in Brasile Prisca Augustoni.

Consacrata dalla critica con la pubblicazione dei romanzi Não falei e Azul e dura, Beatriz Bracher è la fondatrice della casa editrice Editora34, nata nei primi anni 90 e che ha presentato al mercato editoriale brasiliano autori stranieri del XX secolo del calibro di Kafka, Brecht, Mann, a fianco alla storica collana di filosofia e critica letteraria.

La Bracher è una di quelle autrici che ha deciso di produrre narrativa nell’unico modo che forse rimane oggi: trovando modalità diverse per raccontare.

I drammi di una famiglia borghese

“Siamo in cinque ma uno è morto” risponde Teo nelle prime righe, questa figura paterna mitica e mitizzata che tre diversi narratori si alternano a ricostruire per tutto il corso di questa intrigante saga familiare, che segue da vicino, attraverso i drammi della famiglia borghese dei Kremz, la storia del Brasile dagli anni 50 ai giorni nostri. Si tratta di Raul, l’amico di Teo, Haroldo, l’amico del padre di Teo e Isabel, la mamma di Teo, e tutti si rivolgono a Benjamin, figlio di Teo, quel “tu” che non prende mai la parola e a cui ogni parola è destinata, che dovrà farsi interprete di una testimonianza. Un tema classico come quello del rapporto padre-figlio si affronta qui da una prospettiva interessante, filtrando punti di vista diversi che divergono profondamente nella ricostruzione dei fatti, e forse quello più interessante è proprio quello che non è mostrato: quello di un figlio che conosce solo una parte della storia della sua famiglia e delle sue ferite aperte. Come sempre è il non detto, in letteratura, a parlare più di tutto il resto.

Bisogna regolare i conti

E così i toni di accusa velata di Benjamin si riflettono nelle risposte dei suoi interlocutori, che proseguono a volte cauti a volte eccessivamente padroni di sè, quasi a volersi convincere delle scelte fatte o a doversi giustificare per il comportamento tenuto dinanzi a un rappresentante di una generazione più giovane che, tutti lo sanno, potrà giudicarli. Insomma, come dice nonna Isabel, “bisogna regolare i conti” in qualche modo, perché la storia della nostra famiglia è anche la nostra storia, ci plasma, anche contro la nostra volontà.

È l’imminente nascita di Antonio, figlio di Benjamin e della sua compagna, a mettere quest’ultimo sulle tracce di suo padre Teo, nelle ricostruzioni sempre parziali, contrastate e contrastanti di tre narratori infedeli che, fatta eccezione per la nonna Isabel, vedono le vicende dall’esterno della famiglia. Le diverse versioni dei fatti a poco a poco delineano un intreccio che diventa un vero e proprio confronto tra interpretazioni opposte e che ha quasi il tono di una confessione. C’è tutta la consapevole inadeguatezza del proprio agire ma anche la certezza che nessuno può permettersi di dire di aver fatto la cosa giusta o la cosa sbagliata.

Eredi o contestatori

Teodoro, deciso ad allontanarsi da un’atmosfera borghese che lo soffoca e che non riesce più ad immaginarsi come propria, si mette in cammino verso l’entroterra dello stato di Minas, conducendo una vita errante fino a quando l’incontro con la prima donna di suo padre, madre scomparsa di quel fratello morto citato nelle prime righe, lo stravolge a tal punto da innamorarsene perdutamente. Un turbamento, questo, che rievoca la tragedia di un innamoramento edipico.

“Non è solo la storia stupida di un vagabondo che se ne andò alla ricerca di un universo bucolico e perse la testa al contatto con la vita primitiva” spiega Raul nel tentativo di trovare una spiegazione alla follia di Teo. Perché un individuo non è mai un punto isolato ma in qualche modo è figlio di un mondo che lo precede. Sta a lui esserne l’erede o il più grande contestatore.

Un terribile soqquadro

Teodoro è figlio di padre e madre borghese: Xavier, un avvocato che decide di dedicarsi completamente alla cultura, grazie ad una cospicua eredità, lanciandosi nell’impresa di fondare una casa editrice che si rivela poi fallimentare; Isabel, una delle poche donne colte e finanziariamente indipendenti nella società brasiliana degli anni ’50, destinata ad una brillante carriera universitaria.

Xavier e Isabel offrono ai propri quattro figli un’educazione colta ed erudita, dove vige “l’imposizione di idee” e l’”obbligo” di mantenere uno sguardo aperto sul mondo attraverso il vaglio e l’analisi scrupolosa, ispirata al valore supremo della libertà di seguire le proprie aspirazioni. Teodoro cresce così in quella che agli occhi di Haroldo, l’amico di famiglia che guarda con diffidenza al progressismo chic dei Kremz, appare come l’illusione di far parte di una famiglia diversa, intellettualmente superiore e originale, una di quelle famiglie che mette al mondo persone interessanti in grado di “aggiungere qualcosa” al mondo, come racconta una Isabel fiera e orgogliosa dei fasti borghesi.

È invece chiaro anche al lettore, e non solo ad Haroldo o a Raul, che il risultato di questa educazione è un terribile “soqquadro”, come lo definirà Isabel con ben altra modestia verso la fine del libro. Il distacco temporale dai fatti narrati consente infatti di attribuire una differente valenza al passato, e quella libertà tanto agognata mostra così anche gli effetti di un’educazione che genera ansia di prestazione ed eccessi di egocentrismo, che non trova modelli di riferimento nella cieca fiducia che lo sbandamento dei fervidi anni ’60 possa lasciare indenne la famiglia. Nessuno pensa che qualcuno potrebbe non sopravvivere ad uno sbando passeggero, nessuno pensa che anche l’eccesso di libertà può configurarsi come una forma più sottile, ma altrettanto ostinata, di oppressione.

Eredità e potere

È in questo ambiente che Teodoro contrae “il virus che fa scattare” la sua malattia e che Beatriz Bracher identifica in quell’eredità borghese tramandata ai posteri quasi fosse uno stato d’animo, un atteggiamento veicolato tramite l’educazione; un’eredità fatta di rispettabilità e raffinatezza, di cui il connotato più forte, e insieme il virus più deleterio, è quel sentirsi speciale che Teo condivide con il padre più di tutti gli altri fratelli e che come lui contrasta ostinatamente attraverso la ricerca di un contatto con la realtà povera della città di San Paolo. È un’eredità che ha più forza del denaro e si rinsalda nelle relazioni di potere. È un potere insidioso, quello che l’autrice mette in luce nel testo, quel parassita foucaultiano che si dirama anche negli scambi sociali e nelle relazioni familiari, che intacca la lingua e fa perdere le sue tracce in un gioco di classificazioni e di esclusioni, sopratutto di esclusioni quando c’è in ballo la reputazione di un uomo messa a rischio da una donna.

Teodoro abbandona un mondo che ha deciso non semplicemente di contestare ma di abiurare e lo fa ritirandosi nell’interno del paese, trovando ripari saltuari nei villaggi sperduti e arretrati dello stato di Minas. Non sorprende che la fuga si tramuti anche in un progressivo allontanamento dal linguaggio, da quell’”ordine del discorso” che è veicolo di potere, proseguendo in un’analisi foucaultiana, che giunge fino alla follia e al completo silenzio di un uomo. È amara la Bracher nel mostrare che forse è la follia il prezzo da pagare per l’uscita da un linguaggio che opprime e che il colpo finale, a cui Teo non sopravvive, è rendersi conto che anche nella volontà di contestare quel potere c’è il rischio di riaffermarlo.

Chi ha la forza di abiurare oggi?

Una domanda coraggiosa, di un libro coraggioso.

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