Nicola Romano, rendiconto prima dell’uscio verso il niente

A poco più di un anno dalla scomparsa del poeta palermitano Nicola Romano la sua ultima raccolta, postuma. È “Al centro della piena”, una sorta di testamento. Difficile un discorso unitario, i testi – attorno a dimensioni emotive molteplici e differenti – vanno apprezzati nella loro specificità…

Al centro della piena (71 pagine, 12 euro) è l’ultima raccolta poetica di Nicola Romano (scomparso un anno fa), da poco pubblicata da Il ramo e la foglia, con la Prefazione di Neria De Giovanni, e aperta da un esergo con i versi dell’amato Alfonso Gatto. Cinquantuno testi, per lo più scanditi in settenari (prevalenti) ed endecasillabi (qui e là anche disarticolati in due semiversi), accostati e alternati in totale libertà, che vengono a costituirsi come una sorta di rendiconto, di consuntivo poetico e umano. Difficile, forse impossibile tessere un discorso unitario che riesca a includere tutti i testi, che andrebbero letti e apprezzati uno per uno nella loro specificità, anche perché, immagino, nati autonomamente, non in base ad un progetto prestabilito. Forse però una sorta di nucleo generatore di Al centro della piena potrebbe essere rintracciato in Culmine, trentesima poesia che mi piace pensare come una sorta di mise en abyme dell’intera raccolta, con note autoironiche, e che riporto per intero anche come saggio della padronanza espressiva e versificatoria dell’autore: “A questo punto / il culmine è maturo / e si potrebbe ancora / proporre una manciata / di garruli progetti / dalle vivezze antiche / e salde convinzioni / con in tasca gli arnesi / per tutte le occorrenze / seghetto e tronchesina / vigori e bramosie / racchiuse in un fagotto / al fin di dare un senso / proprio a quel tratto / ultimo e cocente / per poi varcare l’uscio / verso il niente”.

Vicino alla fine

Lasciando impliciti i collegamenti con alcune poesie (ad esempio quelle, bellissime, sull’estate), mi sembra che la raccolta sia innervata dalla forte consapevolezza dell’autore di avvicinarsi alla fine della propria esperienza terrena, aggregata tuttavia attorno a dimensioni emotive molteplici e differenti. Una consapevolezza silente, che trapela in Un altro compleanno: “solo lasso di tempo / tra un salmo e il Miserere / e adesso poco importa / quand’era ridondante /e quanto immensa / m’appariva Vita”, in Culmine, appunto, e in pochi altri componimenti, in forma pulviscolare e pudicamente obliqua. Fa in parte eccezione Day Hospital, dove la sofferenza di chi attende, resa inizialmente col tocco descrittivo del freddo che “qui – trabocca in Via Trabucco / e tinge di condensa le vetrate” si trasforma in storie narrate “all’imperfetto / in tasca la pazienza dei più forti / ma il sogno è di tornare sopra i prati”. La percezione del tempo si trasforma in “ore sprecate attese sdillabbrate” e nella terza strofa, a stemperare ulteriormente il pathos potenziale delle “parole che nascondono le pene”, giungono i versi rassegnati e quasi bozzettistici dei ‘povera italia’ […] ‘siamo appalermo’. Via Trabucco sono anche le parole conclusive del testo, un sigillo a ribadire la realtà concretissima del luogo (l’indirizzo di uno degli ospedali di Palermo) che connota la particolare qualità dello scorrere di un tempo che può essere anche sdillabbrato: un dialettalismo – riferito agli elastici (del vestiario) – per allentato, slabbrato, allargato, e adoperato qui in funzione espressiva, non certo verista (sulle scelte lessicali mi riservo di aggiungere una postilla).

Il mondo esterno e l’interiorità

Da questa postazione esistenziale l’autore percepisce gli eventi drammatici del mondo esterno: la pandemia, le guerre più recenti, le violenze sulle donne, le sofferenze dei migranti… (Tracotanze, Col respiro in fiamme, Giorni diversi, …), i devastanti incendi dell’estate in cui l’immedesimazione con la natura rovescia in distruzione il vitale panismo d’annunziano: “Con la carne / le viscere e il fiato / sono caduto anch’io / nelle lingue che avvampano i carrubi / in quell’ultimo trillo di cicale / e negli ulivi fusi del pianoro”, in Rosso fuoco. Ma giungono alla sua percezione anche i riti della quotidianità, la vita della città (reale e metaforica), il sentire comune, l’avvicendarsi delle stagioni (anch’esse nella duplice accezione)… È sempre da questa postazione che egli concentra lo sguardo soprattutto sul presente della propria interiorità, del proprio esistere, dando origine al gruppo più nutrito della raccolta. È un presente reso con l’analogo tempo verbale anche quando l’oggetto della riflessione si riferisce palesemente a momenti già accaduti, fissati in tal modo in una sorta di presente perenne, di immobile perfezione (le parole della poesia, dette una volta per tutte, atemporali), e nei quali la figura del poeta potrà essere ritrovata, attinta, dai suoi cari: “Se scruti bene / sono la posidonia spettinata / dal lieve tramestio delle correnti / all’improvviso fredde sui costoni […] Se guardi bene / io sono ancora a casa di Felice / alla finestra aperta sopra il porto/ con la brezza che gira attorno ai pini / e il cuore che galleggia su quel mare” (Ustica), come se la sua voce arrivasse già postuma da quel futuro in cui sta per non essere più (più, come è/era adesso). Presente e futuro verbali peraltro si ritrovano insieme, in questa successione, in alcuni componimenti, Lampi d’autunno, La città, Linea di frattura, Oltre quel quotidiano… mentre in Ignote pasture l’ordine è invertito. È invece tutto al futuro, nelle frasi principali, il testo di Ritorni: “E nonostante tutto voleremo: / all’anima diremo corri ancora […] Andremo dove piangono i nevai / e dove l’alba indossa il suo chiarore / ma tosti torneremo alle dimore / come l’airone torna alla garzaia”, che insieme ad Inversioni e ad un inciso di Oltre quel quotidiano accennano a esperienze mistiche, immerse però negli ultimi due titoli in un presente-passato prossimo. La ricerca di senso dell’esistere si esprime poi, in altri componimenti, anche attraverso qualche termine religioso (cristiano per lo più), ma in proposito mi sembra convincente quanto scrive l’autrice della Prefazione a p. 6: ”Certo la dimensione spirituale in Nicola Romano non è pacificata né scontata ma anzi rivolta al dialettico dubbio in cui si inserisce la speranza/domanda sul divino”.

Un dono di sé

Al tempo futuro è poi il titolo del penultimo testo, Avrai: un testamento essenziale che si chiude con questi versi, rivolti, come già talora in precedenza, ad un sottinteso, indefinito “tu”: “ma sempre avrai in delivery / i miei versi i miei fiati / un getto di parole / come di sassi piatti / a pelo d’acqua”. La poesia è un dono di sé da lasciare a chi ci è caro, come pure al lettore sconosciuto del proprio tempo e, magari, dei tempi a venire. In Scacchiera, una delle poesie a mio avviso più riuscite, fra ciò che di positivo si può strappare all’esistenza c’è anche “tramutare un rammarico / in preghiera”, mentre la successiva Niente come prima, scritta nel periodo della pandemia, si chiude con una sorta di contrasto interiore: “e – come mai accaduto – / sentirsi in colpa per una poesia / che toglie il tempo / a una preghiera”. Preghiera e poesia non sono altro che parole “speciali” che ci aiutano a vivere il presente e, forse, a sopravvivere alla morte. In Il tempo migliore, “le strofe pensose / da porgere all’amata” rientrano fra i momenti in cui “superbo s’accende / il mio tempo interiore”. La parola può diventare occasione di miglioramento di sé, strumento di salvezza, risposta al desiderio di non morire del tutto, reazione alla triste consapevolezza dei limiti dell’esistenza: preghiera e poesia sono l’alfa e l’omega della raccolta, temi rispettivamente del testo iniziale Oggi la mia preghiera e di quello finale Poi dire basta.

La ricchezza lessicale

Riprendendo il cenno sulle scelte lessicali, non si può infine non evidenziare che Nicola Romano è poeta quanto mai ricco, vario e libero: per gli appena quattro sicilianismi riscontrati (zabbàre, cioè agavi, e trazzere, individuati nella Prefazione, cui aggiungerei buttana e il citato sdillabrate) leggiamo centinaia di termini o espressioni di uso comune o colloquiale o colto o popolare, settoriale o letterario o tecnico, anglicismi, griffe di moda, e altro ancora. Un ulteriore, piacevolissimo motivo per accostarsi alla sua scrittura.

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